Il revirement della Consulta apre la strada alla trasmissione del cognome materno
13 Gennaio 2017
Massima
Va dichiarata l'illegittimità costituzionale di quel complesso di norme vigenti nell'ordinamento italiano, in virtù del quale al figlio di genitori coniugati è attribuito automaticamente il cognome paterno, nella parte in cui non consente ai genitori - di comune accordo - di trasmettere al figlio, all'atto della nascita, anche il cognome materno. Altresì, va dichiarata l'illegittimità costituzionale di quelle norme che non consentono di trasmettere, in virtù di accordo tra i genitori, anche il cognome materno al figlio adottivo ed al figlio di genitori non coniugati riconosciuto alla nascita da entrambi. Il caso
La Corte d'appello di Genova, nel 2013, in un giudizio di opposizione al rifiuto, da parte dell'Ufficiale di Stato civile, di registrare un bambino con il cognome di entrambi i genitori, ha ritenuto che la regola della automatica trasmissione del cognome paterno, regola immanente nel sistema e desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c. in relazione agli artt. 33 e 34 d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, nella sua rigida inderogabilità, non sia compatibile con gli artt. 2, 3, 29, comma 2, e 117 Cost.. Ciò in ragione della violazione del principio di uguaglianza e pari dignità dei coniugi, nonché del diritto del figlio alla sua identità personale, ed in particolare di ricevere dalla madre i segni di identificazione del ramo genitoriale materno; quanto all'art. 117 Cost., per violazione del parametro interposto (Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348) dato dai diversi obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, dal Trattato di Lisbona e dalla Convenzione di New York del 18 dicembre 1979 ratificata in Italia con la l. 14 marzo 1985, n. 132 per l'eliminazione di ogni discriminazione contro la donna. La questione
Nel nostro ordinamento ha profonde radici un netto favor per la trasmissione del cognome paterno, che si è tradotto in una regola, implicita, ma, finora, inderogabile, immanente nel sistema (Cass., sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298; Cass. civ., sez. I, 14 luglio 2006, n. 16093; Cass., sez. I, 22 settembre 2008, n. 23934): se il figlio è "legittimo" vale a dire nato da genitori coniugati, deve portare il cognome del padre, anche se i genitori sono di contrario avviso. Nel passato il cognome paterno è sempre stato il tratto distintivo della legittimità della discendenza, posto che i "figli naturali" portavano di regola il cognome della madre oppure di entrambi i genitori. La progressiva totale equiparazione tra figli "legittimi" e figli "naturali" e la stessa abolizione di questa classificazione discriminatoria, operata dalla l. n. 219/2012, nonché il mutamento del costume sociale, hanno reso la norma obsoleta, e se ne è evidenziata la incompatibilità con il principio di uguaglianza. Le soluzioni giuridiche
Il percorso verso la soluzione oggi adottata, per certi versi obbligata, non era privo di difficoltà. La Corte Costituzionale era già stata investita più volte della medesima questione, in particolare dalla Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298). In quest'occasione la Consulta aveva condiviso le argomentazioni proposte dalla Corte di legittimità, osservando che l'attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, non più coerente con i principi dell'ordinamento e con il valore costituzionale dell'uguaglianza tra uomo e donna; nonostante ciò, con la sentenza Corte cost. 6 febbraio 2006, n. 61 la questione è stata dichiarata inammissibile, osservando che l'intervento invocato avrebbe richiesto una «operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte» in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore. A distanza di dieci anni lo scenario è cambiato, perché quegli stessi coniugi che avevano portato la questione alla attenzione della Corte di Cassazione, che a sua volta l'aveva rimessa alla Consulta con i risultati di cui si è detto, hanno ottenuto dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo una sentenza (Corte EDU 7 gennaio 2014, n. 77, Cusan e Fazzo c. Italia) di condanna dell'Italia per violazione dell'art. 14 CEDU in relazione all'art. 8, rendendo così imprescindibile un intervento del legislatore, che tuttavia è rimasto inerte. La protratta inerzia del legislatore è il punto di partenza dell'odierna sentenza della Consulta, la quale rimarca che, nelle precedenti sentenze, pur dichiarando la questione inammissibile, aveva però auspicato l'introduzione di una diversa regola, più rispettosa della autonomia dei coniugi; regola che oggi, a distanza di molti anni non è ancora stata introdotta, malgrado i disegni di legge all'esame del Parlamento, uno dei quali anche approvato dalla Camera dei Deputati (C. 360-1943-2044-2113-A – «Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli»). La Corte decide quindi di rompere gli indugi, pur puntualizzando che il proprio intervento riguarda soltanto il caso in cui entrambi i genitori, di comune accordo, vogliano attribuire al figlio al momento della nascita entrambi i cognomi, restando la generale disciplina della trasmissione del cognome rimessa al legislatore. Nella sentenza si afferma che la regola dell'automatica attribuzione del cognome paterno è contraria alla Costituzione in quanto pregiudica il diritto all'identità personale del minore e, al contempo, costituisce un'irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell'unità familiare. Osserva ancora la Corte che la previsione dell'art. 89 d.P.R. n. 396/2000, e cioè la possibilità di chiedere al Prefetto di cambiare il cognome o di aggiungere altro cognome al proprio non costituisce un rimedio al vulnus arrecato al diritto all'identità personale, perché non consente al figlio di essere identificato, sin dalla nascita, con il cognome di entrambi i genitori. È stata quindi dichiarata la illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c.; art. 72, comma 1, R.D. 9 luglio 1939, n. 1238 e artt. 33 e 34 d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno. La dichiarazione d'illegittimità costituzionale è stata estesa, in via conseguenziale, alla norma contenuta nell'art. 262 comma 1 c.c., nella parte in cui, qualora il figlio sia riconosciuto alla nascita da entrambi i genitori, prevede l'automatica attribuzione del cognome paterno e non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere entrambi i cognomi; e all'art. 299, comma 3, c.c., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell'adozione. In assenza dell'accordo dei genitori, debitamente manifestato, resta ferma la generale previsione dell'attribuzione del cognome paterno, ma la Corte ha sollecitato un intervento del legislatore, ritenuto " indifferibile", secondo criteri consoni al principio di parità. Per effetto di questa sentenza, pertanto, resta ancora in vigore l'attribuzione automatica del cognome paterno, ma è consentito ai genitori rendere all'Ufficiale di Stato civile una dichiarazione congiunta di diversa volontà, nel qual caso l'Ufficiale di Stato civile non potrà rifiutare di registrare il doppio cognome. Osservazioni
La Corte ha dichiarato l'illegittimità delle norme in questione perviolazione degli artt. 2, 3 e 29 Cost., ritendo "assorbita" la censura ex art. 117 Cost. per violazione del parametro interposto costituito dagli artt. 14 e 8 CEDU. La Corte di Genova aveva evidenziato anche questo profilo d'illegittimità costituzionale, ancor prima che la CEDU condannasse l'Italia con la sentenza Cusan, che è solo una delle molteplici decisioni della Corte di Strasburgo di condanna delle discriminazioni fondate sul sesso nella scelta del cognome (ad es: Corte EDU 16 febbraio 2005, Ünal Tekeli c. Turchia). La nostra Corte Costituzionale ha tuttavia preferito fare riferimento agli artt. 3, 2 e 29 Cost. piuttosto che al parametro interposto, pur se non può evitare nelle motivazioni della sentenza il confronto con la giurisprudenza CEDU, ed in particolare con la sentenza Cusan; del resto, senza la sentenza della Corte Europea l'inerzia del nostro legislatore non avrebbe avuto quella rilevanza che, come è evidente dalle motivazioni, ha spinto la Corte all'intervento più volte rifiutato nel passato. È interessante notare inoltre che la sentenza si fonda non soltanto sulla ritenuta violazione del principio di parità tra i coniugi, ma anche, sotto il profilo dell'accertata violazione dell'art. 2 Cost., sulla affermazione del diritto alla identità personale del figlio; il cognome è un tratto essenziale della personalità ed identifica la persona, sin dalla nascita, come appartenente a un gruppo familiare, in cui pari rilievo deve avere la presenza di entrambi genitori. Il diritto all'identità personale, inteso anche come piena consapevolezza delle proprie origini è un diritto fondamentale, di cui la Corte Costituzionale, negli ultimi anni, si è più volte occupata. Le motivazioni oggi espresse dalla Corte si armonizzano infatti con i principi espressi sul diritto alla conoscenza delle proprie origini da parte del nato da parto anonimo (Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278), richiamati anche in tema di procreazione medicalmente assistita eterologa (Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162) e ribaditi espressamente nella sentenza in esame. |