17 Ottobre 2017

Il tema della domanda giudiziale è strettamente correlato alla natura e alla logica che sorregge l'intero impianto processualcivilistico. In via del tutto preliminare, va ricordato che il processo civile soggiace al principio sostanziale della disponibilità della tutela giurisdizionale (art. 2907 c.c.) che, sul piano processuale, diventa il cd. principio della domanda (art. 99 c.p.c.).
Inquadramento

Il tema della domanda giudiziale è strettamente correlato alla natura e alla logica che sorregge l'intero impianto processualcivilistico.

In via del tutto preliminare, va ricordato che il processo civile soggiace al principio sostanziale della disponibilità della tutela giurisdizionale (art. 2907 c.c.) che, sul piano processuale, diventa il cd. principio della domanda (art. 99 c.p.c.).

Tale ultimo principio è strettamente connesso al dovere decisorio del giudice, di cui segna i limiti, i confini e i contenuti. Il giudice, cioè, deve pronunciarsi su tutta la domanda e non al di fuori di essa (art. 112 c.p.c.), pena, nel primo caso, il vizio di omissione di pronuncia e, nel secondo caso, il vizio di ultrapetizione o di extrapetizione.

É il contenuto intrinseco della domanda, dunque, a costituire l'oggetto del giudizio e a vincolare il giudice nel contenuto della pronuncia, seppur con riferimento unicamente ai fatti costitutivi (della domanda) indicati e allegati dall'attore, restando nella disponibilità del giudice la scelta delle norme di diritto da applicare, essendogli riconosciuto il potere di mutare la qualificazione giuridica della domanda (art. 113 c.p.c.).

In questi termini, dunque, può affermarsi che l'oggetto del giudizio si compone di due momenti: uno fattuale e uno propriamente giuridico.

Il primo attiene ai fatti naturalisticamente intesi sui quali l'attore fonda la propria domanda (e qui il giudice non ha alcun potere di modificarne i contenuti) e il secondo al nomen juris da attribuire ai fatti e alla domanda proposta (ed è in questa fase che il giudice è chiamato ad interpretare i fatti per individuare la norma di diritto più confacente al caso di specie).

Che sia nel solo potere delle parti l'allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda lo si ricava dal principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato che segna i limiti decisori del giudice vincolati, come visto, ai fatti costitutivi o lesivi allegati dall'attore.

In sostanza, chi propone la domanda determina l'oggetto fattuale del giudizio e prospetta al convenuto i fatti per i quali è chiamato in giudizio e ad approntare la propria difesa.

Il contenuto della domanda, proprio in quanto rappresenta l'oggetto del giudizio (inteso sia come oggetto della decisione del giudice, sia come oggetto da cui il convenuto è chiamato a difendersi), è processualmente scandito con il sistema delle preclusioni cd. assertive e con il divieto della cd. mutatio, con il duplice obiettivo di garantire la delimitazione del thema decidendum sia nella prospettiva del giudicante sia in quella del convenuto: entrambi sin dall'inizio del processo sono posti nelle condizioni di conoscere i fatti principali su cui decidere il primo e da cui difendersi il secondo.

Elementi oggettivi

La domanda giudiziale si compone di due elementi: il petitume la causa petendi.

Il primo costituisce l'oggetto della domanda e il secondo il suo titolo.

L'oggetto della domanda rivolta al giudice si definisce petitum immediato (ossia, il provvedimento invocato: ad esempio una condanna, un mero accertamento, etc.) quello della domanda rivolta al convenuto si definisce petitum mediato (ossia una cosa, ovvero l'oggetto del diritto azionato in giudizio o ancora il bene della vita di cui si invoca tutela giurisdizionale).

La causa petendi, invece, costituisce la ragione giustificatrice della domanda, ovvero il fondamento giuridico in base al quale viene chiesto il petitum.

Essa è cioè il substrato sostanziale dell'affermazione contenuta nella domanda e, in questo senso, si risolve nel riferimento ai fatti esposti, affermati e allegati.

Se così è, allora, appare evidente come la tematica dei fatti costitutivi della domanda (principali e secondari) con i problematici risvolti della distinzione tra mutatio ed emendatio libelli attenga alla causa petendi.

Modificazione dei fatti principali

I fatti principali della domanda costituiscono il nucleo storico degli accadimenti esposti nell'atto introduttivo del giudizio (o nella domanda riconvenzionale svolta in comparsa di costituzione e risposta) e fondanti la domanda, mentre quelli secondari descrivono aspetti marginali che non incidono sul nucleo dei fatti.

La corretta individuazione della causa petendi e la distinzione tra fatti principali e fatti secondari è indispensabile per distinguere la mutatio libelli dalla emendatio libelli e per individuare il maturare delle cd. preclusioni assertive.

Queste ultime, in particolare, attengono alla disciplina dettata dal codice di procedura civile per garantire la ragionevole durata del processo e il diritto di difesa del convenuto.

Il riferimento ai chiarimenti richiesti, «nell'udienza di trattazione ovvero in quella eventualmente fissata ai sensi del terzo comma», dal giudice alle parti «sulla base dei fatti allegati», a mente dell'art. 183, comma 2, c.p.c., depone necessariamente nel senso di ritenere che il nucleo fattuale posto a fondamento della domanda (i fatti principali, cioè) vanno indicati specificamente già nell'atto introduttivo del giudizio e nella comparsa di costituzione e riposta (eventualmente contenente domanda riconvenzionale). Ove introdotti nelle fasi successive del giudizio, ovvero in sede di udienza ex art. 183 c.p.c. o in seno alle memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c., sono da ritenersi inammissibili se ed in quanto idonei a costituire “domanda nuova”.

Considerato però che l'art. 183 c.p.c., consente all'attore di proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto e ad entrambe le parti di precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, occorre indagare le differenze tra domande "nuove", domande "precisate" e domande "modificate".

Sul punto la Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 12310/2015) con riguardo alle domande "nuove", ha evidenziato che, pur in assenza di un esplicito divieto come quello di cui all'art. 345 c.p.c., questo può essere implicitamente desunto dal fatto che risultano specificamente ammesse per l'attore le domande e le eccezioni «che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto». Tale affermazione, a parere della Corte, va letta nel senso «che sono (implicitamente) vietate tutte le domande nuove ad eccezione di quelle che per l'attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto, secondo una struttura in parte dissimile da quella riscontrabile nel più volte citato art. 345 c.p.c.».

Ne consegue che i fatti principali “nuovi” sicuramente ammessi in sede di udienza ex art. 183 c.p.c., sono quelli posti a fondamento della domanda “nuova” (intesa come domanda ulteriore che si affianca a quella formulata nell'atto introduttivo) avanzata dall'attore e che sia conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto.

Più articolata e dibattuta è la questione della modificabilità dei fatti principali relativi della domanda originaria, alla luce del principio secondo il quale è inammissibile ogni modifica della domanda iniziale che incida sul petitum e/o sulla causa petendi, elementi questi che, come osservato, identificano la domanda sotto il profilo oggettivo.

Con la sentenza in esame la Suprema Corte ha affrontato la tematica in questione muovendo dalla considerazione linguistica per la quale non vi è sostanziale differenza tra il termine “mutamento” e il termine “modifica”, da quella testuale per cui l'art. 183 c.p.c. non prevede limiti né qualitativi ne' quantitativi alla modificazione ammessa e che in nessuna parte della norma suddetta è dato riscontrare un (esplicito o implicito) divieto di modificazione - in tutto o in parte - di uno degli elementi oggettivi di identificazione della domanda. Del resto, la stessa giurisprudenza afferma che, «ritenuta in astratto indiscutibile l'inammissibilità della modificazione degli elementi identificativi oggettivi della domanda, ha poi trovato tali difficoltà ad indicare una ammissibile modificazione della medesima che non si riduca ad una mera precisazione, da pervenire ad affermazioni illogiche identificando la modificazione ammissibile ai sensi dell'art. 183 c.p.c., non nella prospettazione di un fatto costitutivo diverso da quello addotto nell'atto di citazione bensì nella diversa qualificazione giuridica di tale fatto (v. tra le altre Cass. n. 17457/2009 e n. 12621/2012), come se una diversa qualificazione giuridica del fatto non fosse sempre ammissibile, perfino nel corso dei giudizi di impugnazione, ad opera della parte ed anche del giudice, senza bisogno di una specifica norma che autorizzi a tanto, addirittura distinguendo questa attività da quella di precisazione della domanda e prevedendo tale possibilità solo all'inizio del procedimento di primo grado e con la contemporanea prescrizione di importanti "cautele" a tutela della controparte, come la previsione di doppi termini per memorie e articolazione di prova diretta e contraria».

Alla luce dei principi espressi dalla Suprema Corte, allora, deve ritenersi ammissibile, in sede di udienza ex art. 183 c.p.c, una modifica della domanda senza limiti e quindi anche l'introduzione di fatti principali nuovi (con conseguente modifica della causa petendi, oltre che del petitum) purché rimanga immutato, rispetto alla domanda originaria, l'elemento identificativo soggettivo delle persone e la domanda modificata riguardi in ogni caso la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l'atto introduttivo o comunque sia a questa collegata secondo le indicazioni contenute nel codice in relazione alle ipotesi di connessione a vario titolo.

Ove il principio espresso dalla Suprema Corte con riferimento alla sola udienza ex art. 183 c.p.c. volesse estendersi anche al contenuto delle memorie ex art 183,comma 6, c.p.c., ammettendosi cioè la modifica senza limiti quantitativi e qualitativi della domanda, il sistema delle preclusioni opererebbe nel senso che l'udienza ex art. 183 c.p.c segnerebbe la prima preclusione assertiva con riferimento ai fatti principali; la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. costituirebbe lo sbarramento finale all'introduzione di fatti, anche secondari o marginali relativi alla domanda principale introdotta in citazione o modificata in sede di prima udienza; mentre la seconda memoria segnerebbe la preclusione anche per l'allegazione di fatti principali o secondari che siano conseguenza delle domande o eccezioni nuove o modificate dall'altra parte con la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c..

In evidenza

In ogni caso, anche dopo la sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite, rimane fermo il principio unanimemente riconosciuto e applicato in giurisprudenza per il quale la mutatio libelli ricorre allorquando viene mutato l'oggetto della pretesa o viene introdotto, attraverso la modificazione dei fatti posti a fondamento della domanda, un tema di indagine e decisione completamente nuovo.

Così, ad esempio, in tema di responsabilità medica, la Cassazione ha ritenuto «non consentita con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., la deduzione - in una domanda risarcitoria fondata sulla responsabilità di dipendenti di aziende sanitarie pubbliche ed ascritta a specifiche e ben determinate condotte - di un diverso titolo di responsabilità per differenti condotte, addebitate ad altri dipendenti o strutture sanitarie, benché facenti capo alla stessa azienda, nonché realizzate nell'ambito delle cure somministrate in occasione della medesima infermità» (Cass. civ., sez. III, sent. n. 16504/2017).

Mentre, sempre a parere della Suprema Corte, nell'azione di disconoscimento della paternità, che è volta ad accertare unicamente l'insussistenza del legame biologico con il figlio nato nell'ambito del rapporto matrimoniale, non importa una mutatio libelli la modifica dei fatti addotti a sostegno della pretesa, giacché petitum e causa petendi restano comunque identici ed unitari (cfr. Cass. civ., sez. I, sent. n. 7965/2017).

Effetti sostanziali della domanda

La proposizione della domanda è, ai sensi dell'art. 2943 c.c., causa di interruzione delle prescrizione, che incomincerà nuovamente a decorrere al passaggio in giudicato della sentenza (art. 2945 c.c.).

La domanda giudiziale ha, cioè, efficacia interruttiva e sospensiva della prescrizione riguardo a tutti i diritti che si ricolleghino, con stretto nesso di causalità, al rapporto cui inerisce, senza che occorra formulare, nello stesso o in altro giudizio, una specifica domanda diretta a farli valere, anche qualora la domanda non sia proponibile(Cass. civ., sez. III, sent. n. 16293/2016).

L'effetto interruttivo opera anche in caso di domanda inammissibile perché nuova, mentre non opera nella ipotesi di domanda modificata o precisata.

Ad esempio, il mutamento nel corso del giudizio della domanda di adempimento in quella di risarcimento in forma specifica, previa risoluzione del rapporto contrattuale, non ha effetti sulla decorrenza del termine di prescrizione, in quanto nel processo non viene introdotta una nuova causa petendi o un diverso fatto costitutivo del diritto azionato (Cass. civ., sez. III, sent. n. 2822/2014).

La nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio impedisce l'effetto interruttivo e la conseguente sospensione del decorso della prescrizione.

In caso di sanatoria processuale della rilevata nullità, i relativi effetti sul corso della prescrizione decorrono dal momento della sanatoria medesima, senza efficacia retroattiva (Cass. civ., sez. I, sent. n. 11985/2013).

Mentre, permane l'effetto interruttivo istantaneo ma viene meno quello sospensivo in caso di estinzione (dichiarata o meno dal Giudice) del processo. Ne consegue che la prescrizione ricomincia a decorrere dal momento della proposizione della domanda. (cfr. Cass. civ., sez. III, sent. n. 8720/2010).

La proposizione della domanda, inoltre, impedisce il maturare di decadenze, e ciò anche quando il giudice è incompetente (purché, in tal caso, il processo venga riassunto a norma dell'art. 50 c.p.c.).

In evidenza

La domanda nuova introdotta con l'atto d'appello, pur se inammissibile, ha effetti interruttivi della prescrizione poiché presuppone, in ogni caso, una pronuncia giudiziale suscettibile di passaggio in giudicato formale e, dunque, una difesa attiva della controparte, che resta compiutamente edotta della volontà dell'attore di esercitare il diritto di credito. (Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 1516/2016).

La nullità della domanda

L'omessa o l'assoluta incertezza dell'oggetto della domanda (petitum o causa petendi) conducono alla nullità dell'atto di citazione, ai sensi dell'art. 164, comma 4, c.p.c..

In ossequio al principio di conservazione degli atti giuridici la nullità dell'atto di citazione per petitum omesso od assolutamente incerto, ai sensi dell'art. 164, comma 4, c.p.c., postula una valutazione caso per caso, dovendosi tener conto, a tal fine, del contenuto complessivo dell'atto di citazione, dei documenti ad esso allegati, nonché, in relazione allo scopo del requisito di consentire alla controparte di apprestare adeguate e puntuali difese, della natura dell'oggetto e delle relazioni in cui, con esso, si trovi la controparte (Cass. civ., sez. II, sent. n. 1681/2015).

Se dunque, nonostante la genericità della domanda, il convenuto si sia difeso e abbia argomentato sulle questioni poste dall'attore, il giudice non pronuncerà la nullità della domanda, atteso che la sanzione di cui all'art. 164, comma 4, c.p.c, fonda la sua ratio ispiratrice nell'esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese.

Posto quindi che la nullità dell'atto di citazione per omessa indicazione del suo oggetto presuppone la totale omissione o l'assoluta incertezza dell'oggetto della domanda, possono presentarsi ipotesi in cui la domanda sia solamente generica (ovvero priva di riferimenti e indicazioni che ne circoscrivano, in fatto, la portata).

Il difetto di allegazione

L'art. 2697 c.c. pone a carico di chi fa valere una pretesa in giudizio l'obbligo di fornire la prova dei suoi elementi costituivi, che, come visto, concorrono a definire l'oggetto della domanda e che, quindi, vanno introdotti (allegati) nei termini preclusivi di rito.

A tal proposito, è opportuno rammentare che le richieste di prova (nei termini preclusivi di cui all'art.183, comma 6, c.p.c.) possono avere ad oggetto solo i fatti introdotti in giudizio nei termini di rito. Sicché, è evidentemente inammissibile la prova (documentale od orale) avente ad oggetto un fatto o una circostanza non ritualmente dedotta in giudizio (e ad esempio rappresentata solo nei capitoli di prova articolati nelle richieste di prova orale articolate con la seconda memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.), in una fase precedente alle richieste istruttorie, ovvero in seno all'atto introduttivo o sino alla udienza ex art. 183 c.p.c. (nei limiti e alle condizioni statuite in Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 12310/2015).

In assenza di allegazione e, conseguentemente di prova, dei fatti costitutivi della domanda dedotta in giudizio, questa non può che essere rigettata.

All'obbligo di introdurre domande precise e dettagliate fa da contraltare quello del convenuto, sussistente anche anteriormente alla formale introduzione del principio di "non contestazione" a seguito della modifica dell'art. 115 c.p.c., di prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall'attore a fondamento della propria domanda, i quali debbono ritenersi ammessi, senza necessità di prova, ove la parte, nella comparsa di costituzione e risposta, si sia limitata a generiche negazioni in fatto o in diritto.

Tanto più qualificanti e qualificati sono, in astratto, i fatti costitutivi della pretesa dedotta in giudizio, tanto più stringenti sono gli oneri di allegazione a carico dell'attore.

Così, ad esempio, nell'ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento del danno nelle obbligazioni cosiddette di comportamento (ad esempio in tema di responsabilità dei sanitari o degli amministratori e sindaci di società) l'inadempimento rilevante non è qualunque inadempimento, «ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno», sicché «l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno». Naturalmente sull'attore grava l'onere di «allegare, e poi di provare, gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, che sono perciò al tempo stesso elementi costitutivi della domanda risarcitoria: danno e nesso di causalità» (Cass.civ., Sez. Un., sent. n. 577/2008).

Se, come visto, l'omissione o assoluta incertezza del petitum o della causa petendi importa la nullità dell'atto di citazione, la genericità della domanda (intesa quale difetto di allegazione di fatti rilevanti ex art. 2967 c.c. e di cui quindi deve essere fornita prova) conduce al suo rigetto nel merito.

Nella prospettiva del convenuto, la genericità delle contestazioni farà operare il meccanismo della “non contestazione”, sicché il giudice riterrà provati i fatti non analiticamente e specificamente contestati, mentre la genericità dell'eccezione in senso stretto renderà quest'ultima inammissibile.

In evidenza

Il riparto degli oneri di allegazione e contestazione è stato definito in maniera chiara e nitida in materia di demansionamento (o dequalificazione). In particolare, la Suprema Corte ha statuito che «il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia ed ha, quindi, l'onere di allegare gli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio del potere datoriale, e non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell'esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall'interessato, nonché da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo» (Cass. civ., sez. lav., sent. n. 15527/2014).

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