Responsabilità degli enti e sanzioni interdittive: il profitto di rilevante entità è concetto più ampio del mero utile netto

04 Maggio 2016

La suprema Corte di cassazione, seconda Sezione penale, con la sentenza n. 11209/2016, ha affrontato, in tema di sanzioni interdittive previste dall'art. 13 del d.lgs. 231/2001, le questioni del profitto di rilevante entità e della reiterazione degli illeciti ed anche altri interessanti aspetti. In particolare i giudici di legittimità hanno stabilito, aderendo all'orientamento espresso già da tempo dalle stesse Sezioni unite e da altre pronunce di legittimità, che la nozione di profitto di rilevante entità non può limitarsi ad un mero dato numerico.
Abstract

La suprema Corte di cassazione, seconda Sezione penale, con la sentenza n. 11209/2016, ha affrontato, in tema di sanzioni interdittive previste dall'art. 13 del d.lgs. 231/2001, le questioni del profitto di rilevante entità e della reiterazione degli illeciti ed anche altri interessanti aspetti.

In particolare i giudici di legittimità hanno stabilito, aderendo all'orientamento espresso già da tempo dalle stesse Sezioni unite (la nota sentenza n. 26654/2008 – ricorso Fisia) e da altre pronunce di legittimità, che la nozione di profitto di rilevante entità non può limitarsi ad un mero dato numerico (con riferimento, nel caso di specie, al valore del solo reddito conseguito) in quanto ha un contenuto più ampio di quello riferibile all'utile netto proprio perché vi rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti in virtù della realizzazione dell'illecito.

Inoltre la decisione ha chiarito, anche in questo caso raccordandosi perfettamente con altra decisione di legittimità, che l'applicazione in via cautelare delle sanzioni interdittive è subordinata, alternativamente e non congiuntamente, al conseguimento da parte dell'ente di un profitto di rilevante entità ovvero alla reiterazione nel tempo degli illeciti.

Infine i giudici di Piazza Cavour, nell'affrontare il tema della riparazione delle conseguenze del reato da parte dell'ente, così come previsto all'art. 17 del d.lgs. 231/2001, hanno statuito che la mera costituzione di un trust non possa qualificarsi come adempimento sufficiente per l'applicazione di tale disposto.

L'art. 17 sopra richiamato prevede, infatti, l'inapplicabilità della sanzione interdittiva laddove vi sia stato risarcimento integrale (cioè effettivo) del danno oltre all'eliminazione delle conseguenze dannose, situazione che non può dirsi verificata nel caso di trust.

L'iter procedurale, assai tortuoso, da cui trae origine la decisione

La decisione della suprema Corte in commento è stata preceduta da un iter procedimentale assai complesso e forse davvero unico.

Prova ne sia che, come vedremo poco oltre, i fatti di cui trattasi sono stati affrontati, sia pur per aspetti riguardanti censure in parte diverse, per ben quattro volte, prima di quella che interessa, dai giudici della Cassazione.

La stessa identica vicenda in commento è stata infatti affrontata nelle seguenti pronunce:

  • Cassazione penale, Sezione VI, sentenza 5 marzo 2013, n. 10904;
  • Cassazione penale, Sezione II, sentenza 28 novembre 2013, n. 327;
  • Cassazione penale, Sezione II, sentenza 3 dicembre 2013, n. 51151;
  • Cassazione penale, Sezione VI, sentenza 18 novembre 2014, n. 18634.

Tutto trae origine dalla decisione dell'ottobre 2012 del Gip del tribunale di Pistoia, con la quale era stata disposta, nei confronti di una società per azioni, la misura cautelare interdittiva di cui all'art. 9, comma2, del d.lgs. 231/01 concernente il divieto, per un periodo di 6 mesi, di contrattare con le regioni Toscana e Liguria.

Il provvedimento veniva adottato nell'ambito di indagini preliminari riguardanti una presunta associazione per delinquere volta alla realizzazione di fatti corruttivi e di turbative d'asta, con il precipuo intento di ottenere appalti pubblici.

L'efficacia della misura era stata quindi sospesa, ai sensi dell'art. 49 del citato d.lgs. 231/2001, al fine di permettere alla società interessata di porre in essere gli adempimenti previsti dall'art. 17 del d.lgs. 231/2001, ovvero di consentire le condotte riparatorie delle conseguenze del reato.

Il Gip, successivamente, ritenuto che il termine imposto per la riparazione non era stato rispettato, con altra ordinanza del maggio 2013, disponeva il ripristino della misura cautelare.

Nel frattempo, e precisamente nel novembre 2012, il tribunale di Pistoia aveva respinto l'appello proposto dalla società con un provvedimento che, successivamente, veniva annullato, con rinvio, dalla stessa suprema Corte, VI Sezione Penale, sentenza n. 10904/2013.

I giudici di Piazza Cavour avevano infatti ritenuto non motivata sufficientemente la sentenza con riguardo al compendio indiziario circa i fatti contestati tant'è vero che il Tribunale di Pistoia, quale giudice del rinvio, aveva poi annullato, nel corso del 2013, l'originaria ordinanza di applicazione della misura in forza di rilievi concernenti criteri di identificazione del profitto di rilevante entità che la società avrebbe tratto dagli illeciti compiuti.

Da notare che anche questa ulteriore decisione del tribunale di Pistoia veniva cassata dai giudici di legittimità e precisamente con la sentenza n. 51151 del 3 dicembre 2013, II Sezione penale.

In quest'ultima decisione la Corte ebbe a rilevare come, per l'adozione di una misura cautelare interdittiva nei confronti dell'Ente, la nozione di profitto di rilevante entità abbia un contenuto più ampio del concetto di profitto quale utile netto.

Ciò in virtù del fatto che nel concetto di profitto di rilevante entità rientrano anche quei vantaggi non immediati comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell'illecito.

Il suddetto principio, come potremo vedere oltre, è sostanzialmente richiamato anche nella decisione in commento.

Importante notare come la Corte (sempre con riferimento alla sentenza n. 51151/2013) avesse specificato che il concetto di profitto non possa discendere automaticamente dalla considerazione del valore del contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, sebbene detti importi, ove rilevanti, ne rappresentino certamente un indizio oggettivo.

I giudici di merito invece avevano raffrontato, più semplicemente, il profitto di reato al volume d'affari della società escludendo la caratteristica della rilevante entità.

La complessità dell'iter, tuttavia, non si esauriva con quanto sopra descritto.

Ciò in quanto è ancora da aggiungere che il provvedimento di ripristino della misura cautelare, cioè il provvedimento assunto dopo la scadenza inutile del termine per gli adempimenti di cui all'art. 17 d.lgs. 231/2001, veniva appellato nell'interesse della società e annullato dal tribunale di Pistoia.

Anche questa decisione veniva però cassata dalla suprema Corte, II Sezione penale, con un'ulteriore sentenza e cioè la n. 327/2014.

Il giudizio di rinvio veniva quindi definito dal tribunale di Pistoia mediante la riunione dei due procedimenti che nel frattempo erano instaurati (e cioè quello relativo alle impugnative contro l'ordinanza applicativa e quello ulteriore relativo alle impugnazioni contro l'ordinanza che revocava la sospensione dopo la scadenza inutile del termine): più precisamente il tribunale revocava l'ordinanza originaria con la quale era stata applicata la misura e, ovviamente, ometteva di provvedere sull'impugnazione riguardante le lamentele relative al provvedimento di ripristino, materia questa da considerarsi assorbita con la disposta revoca.

Ma l'iter procedurale complessissimo che ha caratterizzato questa fattispecie non poteva dirsi concluso neanche in questo caso.

Ancora una volta infatti la suprema Corte, VI Sezione Penale, con sentenza n. 18634/2015, accogliendo il ricorso presentato dal P.M., aveva cassato il provvedimento favorevole alla società.

Il successivo giudizio di rinvio, peraltro svoltosi dinanzi al medesimo Collegio del tribunale di Pistoia, veniva deciso con provvedimento del 16 luglio 2015 che disponeva:

1) revoca dell'ordinanza genetica del Gip del 23 ottobre 2012, richiamata all'inizio del presente paragrafo, per insussistenza del requisito del profitto di rilevante gravità;

2) annullamento anche dell'ordinanza successiva del Gip con la quale era stata ripristinata l'efficacia della misura cautelare.

Avverso quest'ultima ordinanza è intervenuto un ulteriore ricorso per Cassazione da parte del P.M. il quale ha ritenuto il provvedimento caratterizzato da plurimi vizi di legittimità.

Più precisamente, come emerge dalla motivazione della sentenza in commento, sono stati proposti ben 10 motivi di ricorso.

Tra questi meritano di essere segnalati: innanzi tutto quello inerente l'asserita violazione di legge da parte del tribunale di Pistoia per aver inteso il profitto di rilevante entità quale utile netto; in secondo luogo l'ulteriore violazione di legge nella parte in cui il tribunale di Pistoia ha escluso la sussistenza del profitto di rilevante entità per mancanza del vantaggio economico ulteriore omettendo, sempre a detta del ricorrente, di considerare elementi utili desumibili dal fascicolo delle indagini preliminari.

Oltre alle deduzioni di cui sopra, certamente le più caratterizzanti, rispetto al tenore della decisione poi intervenuta, è bene ricordare anche altre interessanti censure.

Quest'ultime riguardavano la violazione di legge per aver il tribunale di Pistoia comunque escluso il requisito del profitto di rilevante entità nonostante la contestazione di un reato associativo e quindi di una organizzazione stabilmente finalizzata alla perpetrazione di più reati, nonché la mancata applicazione del principio di diritto espresso dalla precedente pronuncia della Corte di Cassazione n. 327/2014, sopra ricordata.

Decisione quest'ultima con la quale la Corte aveva censurato il mancato apprezzamento dei giudici di merito della circostanza, a dire il vero significativa, inerente la designazione di un nuovo amministratore delegato della persona giuridica destinataria della misura, da sempre rientrante nell'area della famiglia detentrice del pacchetto di maggioranza e comunque appartenente alla famiglia del precedente amministratore.

La suprema Corte con la decisione in commento ha ritenuto fondato il ricorso del P.M., sia pur nei limiti che vedremo.

Profitto di rilevante entità e sanzioni interdittive (accezione ampia del concetto di profitto)

La decisione affronta innanzi tutto la problematica della corretta qualificazione del profitto quale condizione legittimante, ai sensi e per gli effetti dell'art. 13 del d.lgs. 231/2001, l'applicazione della sanzione interdittiva.

Rilevano i giudici di legittimità che proprio questo aspetto doveva essere affrontato dal tribunale competente chiamato ad affrontare, in forza dell'annullamento con rinvio disposto dalla Corte con la citata sentenza n. 18634/2015, di una precedente ordinanza di merito, con la quale la misura originaria era stata revocata.

Scopo del giudizio di rinvio, infatti, era proprio quello di eliminare il vizio inerente l'erronea individuazione degli elementi della fattispecie con particolare riguardo al concetto di profitto rilevante.

Del resto, si legge ancora nella motivazione della sentenza che qui interessa ai fini del presente commento, tale concetto era stato correttamente indicato da altra decisione della Corte, sempre riferibile ai medesimi fatti, e cioè quella, sopra citata anch'essa, n. 51151/2013, con la quale si era evidenziato ciò che è stato già messo in evidenza precedentemente: il profitto di rilevante entità non può individuarsi con criteri che riguardano il mero dato numerico attinente alle condizioni economiche della società, in quanto ha contenuti più ampi rispetto al concetto di profitto inteso come utile netto e ciò per il semplice motivo che vi rientrano anche vantaggi non immediati conseguiti attraverso la realizzazione dell'illecito.

La decisione in commento, partendo da questo presupposto e ricordando tutta una serie di precedenti decisioni, emesse in casi diversi e, soprattutto, un precedente orientamento delle Sezioni unite, precisamente alla decisione n. 26654 del 27 marzo 2008, ha ritenuto corretta l'impostazione secondo la quale solo una accezione ampia del concetto di profitto consente al giudice di valutare, in tutta l'effettiva portata, il disvalore del reato e dell'illecito amministrativo.

Né vale obiettare, secondo i giudici di Piazza Cavour, che tale principio sia del tutto sprovvisto di riferimenti che ne consentono comunque la corretta valutazione.

Prova ne sia che il medesimo è ancorato ad un giudizio di tipo quantitativo ed economico-patrimoniale che, alla stregua di criteri che guidano analoghe valutazioni sul piano penalistico (si pensi all'aggravante di cui all'art. 61, n. 7 del codice penale), evita sfasature sul piano della determinatezza.

Interessante notare come la Corte individui anche una serie di parametri, specifici, rivelatori del profitto di rilevante entità.

Si legge infatti testualmente nella decisione che sono da considerarsi tali: a) gli ulteriori lavori direttamente acquisiti dall'impresa in occasione della pregressa aggiudicazione illecita (ad es. a seguito di una variante in corso d'opera o quali addizioni al progetto approvato); b) l'assunzione dei requisiti per la qualificazione dell'impresa ai fini della partecipazione a gare di affidamento di lavori pubblici (c.d. attestazione SOA). Ciò in quanto l'acquisizione e l'esecuzione di appalti a seguito di condotte illecite comporta un aumento della cifra di affari realizzata dall'impresa, idonea e necessaria per vedersi riconosciuta o accresciuta la propria "classifica" di valore, così incrementando la capacità di acquisire appalti di importo più elevato; c) l'incremento del merito di credito dell'impresa presso gli istituti bancari e/o finanziari. L'aumento del fatturato e dell'utile aziendale in seguito all'acquisizione di appalti di natura illecita consente all'impresa di innalzare il proprio merito di credito al cospetto del sistema finanziario e di acquisire maggiori finanziamenti e a condizioni favorevoli. È noto, infatti, che con l'avvio e la progressiva crescita del fatturato dell'impresa, il sistema bancario, posto che appaiono positive le prospettive reddituali, si mostra propenso ad accordare finanziamenti a titolo di credito. Il volume di affari ascrivibile all'impresa costituisce, poi, uno dei requisiti (unitamente ad altri, quali quelli di stabilità patrimoniale, di innovazione tecnologica, di tenuta finanziaria, di propensione all'investimento, della tipologia di mercato di appartenenza, ecc.) del processo di valutazione dei fidi che incide sullo specifico segmento creditizio attribuibile alla clientela di impresa; d) l'aumento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori e subappaltatori. L'acquisizione ed esecuzione degli appalti illeciti determina un incremento degli ordini emessi dalle imprese aggiudicatarie verso i propri fornitori e subappaltatori con aumento del potere contrattuale e della capacità di ottenere, anche in vista di appalti futuri, condizioni economiche favorevoli in termini di prezzi, qualità e tempi delle forniture, migliori condizioni di pagamento, ecc.; e) l'ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse aziendali. Con l'aumento del volume di affari conseguente alle aggiudicazioni illecite, le imprese conseguono anche un aumento dell'efficienza derivante dal maggior sfruttamento delle risorse aziendali. In termini di bilancio ciò si traduce in una minore incidenza sul fatturato delle spese fisse (stipendi del personale, ammortamenti, costi fissi, oneri di sede, ecc.) e in un aumento dell'utile aziendale in termini percentuali, oltre che assoluti (ne deriva una maggiore redditività operativa); f) un maggiore accesso ad altri appalti, concorrendo in proprio, o acquisendo, in virtù delle aggiudicazioni illecite, una specializzazione di settore o attestazioni di lavori eseguiti anche ai fini di ipotesi consorziali.

I parametri, si legge ancora nella motivazione della sentenza, rappresentano elementi espressivi di utilità economica o di vantaggio in senso lato che sono ricollegabili, anche in via mediata, alla giudicazione illecita e quindi, ed è questo il punto di maggiore importanza dal punto di vista del principio espresso, senz'altro idonei a configurare il profitto di rilevante entità che l'impresa ha tratto dal reato.

D'altra parte, sostengono i giudici di Piazza Cavour, sarebbe riduttivo pensare che per profitto si debba avere riguardo ad una nozione meramente contabile dello stesso poiché si finirebbe per entrare in collisione con gli obiettivi di tutela desumibili dalla più volte richiamata disposizione di cui all'art. 13 del d.lgs. 231/2001.

Naturalmente spetta in concreto al giudice di valutare, caso per caso, quali siano gli indici rivelatori dell'entità rilevante del profitto.

Nel caso di specie, sostiene ancora la Corte di cassazione, i giudici di merito, tenuto conto dell'irrilevanza del mero valore numerico del profitto conseguito dalla società, e stimato in complessivi € 108.000,00, hanno omesso di comparare tale dato con l'utile dei bilanci societari ed inoltre nessuna considerazione è stata posta dai giudici di merito rispetto a documenti offerti dal P.M. dai quali emergono dati investigativi acquisiti nei confronti della società e del socio di maggioranza attraverso i quali è possibile ritenere che l'ente avesse incassato somme ulteriori.

Ovvio quindi che il profitto dovesse essere quantificato tenendo conto anche di questi ulteriori introiti.

Ne consegue che, non solo non è stato tenuto conto di tale nuovo elemento, ma non vi è neppure idonea motivazione che possa giustificare la mancata valutazione del medesimo.

Reiterazione degli illeciti: la rilevanza del profilo concernente la “personalità dell'ente”

La Corte suprema ritiene anche fondata la censura riguardante l'esclusione da parte dei giudici di merito del pericolo di recidiva dell'ente.

Anche in questo caso la sentenza richiama espressamente la decisione, sempre della Corte, n. 51151/2013, evidenziando come già in quella statuizione si era stabilito che l'applicazione in via cautelare delle sanzioni interdittive è subordinata, alternativamente e non congiuntamente, al conseguimento del profitto di rilevante entità di cui abbiamo parlato in precedenza ovvero alla reiterazione dell'illecito.

Sotto questo profilo i giudici di merito sono stati sconfessati dalla Corte proprio perché quest'ultima ha ritenuto che il pericolo di recidiva, negato dal tribunale, fosse del tutto evidente ed apprezzabile, ai fini della sussistenza del periculum legittimante l'applicazione della misura cautelare, ai sensi dell'art. 45, del d.lgs. 231/2001.

Peraltro, proprio in ordine a quest'ultima norma, i giudici di legittimità hanno ribadito ciò che emerge chiaramente dalla lettura dalla stessa e cioè che per apprezzare il pericolo di recidiva occorre avere riguardo alla sussistenza dei gravi indizi di responsabilità dell'ente per un illecito amministrativo dipendente dal reato nonché agli elementi, specifici, che fanno ritenere sussistente il pericolo di nuovi illeciti.

Ne consegue che l'esigenza cautelare emerge dalla valutazione di due tipologie di elementi: il primo, oggettivo, legato alle modalità e circostanze del fatto; il secondo, soggettivo, attinente alla cosiddetta personalità.

Condivisibile, peraltro, l'ulteriore ragionamento effettuato dalla Corte laddove precisa che la valutazione in merito alla personalità non è impedita dal fatto che riguardi un ente ovvero sia una persona giuridica: la valutazione infatti ha ad oggetto la politica di impresa attuata nel corso degli anni e la sussistenza di eventuali illeciti commessi in precedenza.

Senza considerare, aggiungono i giudici di Piazza Cavour, che l'argomento utilizzato dai giudici di merito per sostenere l'assenza del pericolo di reiterazione dell'illecito appare in conflitto con il principio di diritto enunciato dalla suprema Corte con la più volte citata sentenza n. 51151/2013.

Il tribunale, infatti, ha escluso il rischio di recidiva richiamando il rapporto tra il numero delle partecipazioni alle gare di appalto nel territorio toscano e quello delle gare oggetto di aggiudicazione.

Rapporto che, ragionevolmente, non può escludere di per se il pericolo di ripetizione dell'illecito e, d'altra parte, la motivazione dei giudici di merito non offre ulteriori argomenti valutativi.

Attività riparatorie: non è sufficiente la costituzione di un trust e l'accantomento in bilancio di somme

Altra significativa questione affrontata dalla sentenza in commento è quella concernente la verifica circa l'efficace realizzazione, entro il termine assegnato, delle attività riparatorie, di cui all'art. 17 del d.lgs. 231/2001, poste in essere dalla società.

Come evidenziato sino dall'inizio la fattispecie in esame è stata oggetto di multiple valutazioni della Corte.

Il contrasto tra i giudici di merito e i giudici di legittimità sotto questo profilo è, come vedremo, abbastanza evidente: basterà ricordare che le statuizioni di merito concernenti il trust, prima della sentenza in commento, erano già state annullate, per motivi diversi, dalle sentenze della suprema Corte nn. 327/2014 e 18634/2015 già citate.

Al di là di tale aspetto, certamente significativo, è opportuno segnalare che il tribunale aveva ritenuto soddisfatte le condizioni previste dall'art. 17, lett. a) del d.lgs. 231/2001, grazie alla costituzione di un trust e della previsione in bilancio di un fondo di accantonamento cospicuo pari ad € 120.000 (peraltro accantonamento previsto con la forma di riserva legale certificata dai sindaci).

Più propriamente il tribunale aveva ritenuto che tale duplice comportamento fosse idoneo a dimostrare l'azione diretta a risarcire il danno nonché ad eliminare le conseguenze pericolose del reato.

La suprema Corte, richiamando espressamente quanto già evidenziato con la sentenza n. 327/2014, evidenzia come la decisione sia censurabile poiché i giudici di merito hanno avallato un meccanismo che consente all'ente di posticipare il risarcimento del danno all'esito del giudizio penale.

Così disponendo i giudici di merito non solo hanno palesemente contravvenuto al principio di diritto affermato nella decisione n. 327/2014 ma anche alla ratio della disposizione non cogliendo la finalità preventiva della condizione prevista proprio dall'art. 17, lett. a), più volte richiamato.

Ineccepibili, a parere di chi scrive, le argomentazioni utilizzate dalla Corte per esprimere il suddetto principio.

Innanzi tutto il richiamo alla relazione ministeriale di accompagnamento al d.lgs. 231/2001 ove si evidenzia che la disciplina per le sanzioni interdittive ha natura special preventiva e si lega ad un modello sanzionatorio caratterizzato da presupposti applicativi rigorosi e funzionali al conseguimento di risultati utili per la tutela dei beni protetti attraverso condotte riparatorie.

In secondo luogo argomentando al contrario rispetto ai profili concernenti la confisca tenuto conto che il profitto funzionale alla stessa, per le disposizioni di legge applicabili, si caratterizza nella messa a disposizione del danneggiato, mentre nel caso di riparazione ex art. 17 si parla espressamente di eliminazione integrale del danno e delle conseguenze dannose o pericolose del reato.

Insomma, non può esservi dubbio sotto questo profilo che i giudici di merito hanno sostanzialmente fornito una lettura della suddetta disposizione che non è oggettivamente condivisibile.

Né vale obiettare che sia argomento contrario decisivo quello individuato dai giudici di merito in merito alla impossibilità di valutare completamente il danno o addirittura l'esistenza del medesimo.

La suprema Corte aveva già infatti fornito una valida spiegazione anche a questo proposito con la più volte citata sentenza n. 327/2014 precisando espressamente che laddove il danno fosse non determinabile in forza di parametri rigidi, l'ente, dando atto della propria risipiscenza, avrebbe dovuto effettuare un'offerta, concreta, al danneggiato.

Valido modello organizzativo: il nuovo amministratore della società dev'essere garante di una reale autonomia rispetto alle precedenti gestioni

Infine è utile notare come la Corte, con la sentenza in commento, annulli il disposto dei giudici di merito, anche con riguardo all'adozione di un efficace modello organizzativo dell'ente, con specifico riferimento al nuovo amministratore.

Anche in questo caso il contrasto tra merito e legittimità ha radici che vanno oltre la sentenza in commento, poiché l'aspetto era già stato trattato con l'ormai più volte citata sentenza n. 327/2014.

Già in quella occasione la Corte aveva censurato il tribunale per non aver verificato la tenuta, cioè la validità del modello organizzativo con la presenza di un nuovo amministratore delegato scelto in una persona da sempre nell'area della famiglia del socio di maggioranza.

Nella decisione in esame si dà atto immediatamente che le censure precedenti dei giudici di legittimità non hanno trovato esaurienti risposte da parte del giudice del rinvio, eppure, anche in questo caso, la questione è tutto sommato abbastanza evidente: la nomina di un nuovo amministratore, peraltro appartenente al nucleo familiare che detiene la maggioranza, non può, da sola, rispondere ai criteri che sono funzionali al cosiddetto modello organizzativo.
Ma vi è di più. Nella fattispecie in commento la Corte evidenzia come al di là della singolare coincidenza che il nuovo amministratore appartenga al nucleo familiare del vecchio, vi è una completa assenza di contromisure idonee a depotenziare la serie intricata di cointeressenze tra la vecchia e l'apparente nuova gestione e a prevenirne l'eventuale continuazione degli stili gestionali in contestazione.

Al di là quindi della mancata attuazione da parte dei giudici di merito del principio di diritto già espresso con la precedente sentenza della Corte è evidente che, nel caso in questione, non può dirsi garantita la tenuta del cosiddetto modello organizzativo.

In conclusione

A parere di chi scrive la sentenza è condivisibile in merito a tutte le questioni sopra indicate.

Del resto l'interpretazione fornita più volte dai giudici di legittimità delle norme che interessano appare ineccepibile né può obbiettarsi che la motivazione sia, anche solo in parte, carente.

La sentenza infatti ha anche il pregio di fornire un quadro comprensibile di una situazione, come detto in precedenza, davvero singolare e forse unica: uno stesso caso che diventa oggetto di ben 5, con quella in commento, sentenze di legittimità.

Certo, è innegabile che alcuni aspetti possano creare preoccupazione da parte degli organi di gestione di un ente: si pensi, in particolare, a quanto stabilito in ordine al concetto di rilevante profitto o in ordine al concetto di risarcimento ex art. 17 del d.lgs. 231/2001.

Tuttavia le scelte operate a suo tempo dal legislatore sono state chiare fin da subito e le interpretazioni conseguenti fornite dai giudici di legittimità non possono che essere, come già evidenziato, condivise.

Ma al di là di quanto sopra rilevato sul concetto di rilevante profitto e su quello del risarcimento effettivo, non v'è dubbio che la sentenza offre altri interessanti spunti di riflessione.

Tra questi vi è certamente quello inerente il modello organizzativo e, segnatamente, le garanzie che debbono sussistere al momento della nomina di un nuovo amministratore: condivisibile pienamente, come già scritto in precedenza, il rilievo dei giudici di Piazza Cavour laddove evidenziano che la personalità dell'ente può essere valutata proprio con riferimento al nuovo amministratore e soprattutto con riguardo alla sua autonomia rispetto alle precedenti gestioni.

Laddove l'autonomia non sia apprezzabile o vi siano elementi (oggettivamente sussistenti nel caso di cui trattasi) di un legame tra vecchia e nuova amministrazione, non v'è dubbio che si sia di fronte ad un modello che non risponde ai voleri del legislatore.

È quindi opportuno che si prenda da parte degli interessati piena coscienza del valore e dell'importanza delle norme in tema della responsabilità degli enti.

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