Confisca in danno degli enti immateriali

28 Marzo 2017

L'art. 19 d.lgs. 231/2001 prevede, nei due commi di cui consta, due distinte forme di confisca: diretta sul prezzo o profitto del reato, ovvero per equivalente. È bene, in un'ottica di inquadramento dell'istituto, precisare sin d'ora che la disposizione in parola rinviene in proprio antecedente logico-giuridico nell'art. 9 del medesimo ordito normativo – in tema di sanzioni irrogabili all'ante – il quale contempla, al comma 1, lett. c) la confisca accanto alla sanzione pecuniaria, a quelle interdittive ed alla pubblicazione della sentenza di condanna. La misura ablativa, quindi, a differenza dell'istituto contemplato dagli artt. 236 ...
Inquadramento

L'art. 19 d.lgs. 231/2001 prevede, nei due commi di cui consta, due distinte forme di confisca: diretta sul prezzo o profitto del reato, ovvero per equivalente. È bene, in un'ottica di inquadramento dell'istituto, precisare sin d'ora che la disposizione in parola rinviene in proprio antecedente logico-giuridico nell'art. 9 del medesimo ordito normativo – in tema di sanzioni irrogabili all'ante – il quale contempla, al comma 1, lett. c) la confisca accanto alla sanzione pecuniaria, a quelle interdittive ed alla pubblicazione della sentenza di condanna. La misura ablativa, quindi, a differenza dell'istituto contemplato dagli artt. 236, comma 1, lett. b) e 240 c.p., ha natura di vera e propria sanzione principale, obbligatoria ed autonoma. Atteggiandosi dunque a pena, la confisca in parola può essere disposta solo per fatti di reato commessi dopo la relativa “catalogazione” all'interno del d.lgs. 231/2001.

La responsabilità amministrativa dipendente da reato degli enti. Cenni

In via preliminare, è bene spendere poche parole per ricostruire l'iter che ha portato all'introduzione, nel nostro ordinamento, di una forma di responsabilità tendenzialmente penale per gli enti collettivi (per la puntuale disamina della natura e del fondamento della responsabilità si rinvia alla relativa Bussola).

Nel 2001 il Legislatore, in attuazione della legge delega 300/2000 e di impegni assunti a livello internazionale, ha introdotto nel nostro ordinamento la responsabilità diretta dei soggetti collettivi per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.

Il Legislatore di riforma, in punto di portata del nuovo strumento repressivo, ha scelto di non prevederne l'applicabilità in maniera indistinta per tutti i fatti penalmente rilevanti ma solo per alcuni espressamente individuati. Si è deciso, in altre parole, di circoscrivere preliminarmente il raggio d'azione della nuova tipologia di responsabilità “penale”, procedendo alla elencazione tassativa ed esplicita del ristretto novero di fattispecie incriminatrici da cui può scaturire una responsabilità “penale” per il soggetto collettivo (C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, in Nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di Giarda-Seminara, Padova, 2002, 65 ss.). Il decreto, pertanto, si compone di una “parte generale” – nella quale sono espressi i principi di riferimento, le regole dell'imputazione, le sanzioni e le modalità di applicazione – e di una “parte speciale” ove sono elencati i reti per i quali è prevista l'estensione di responsabilità anche in capo all'ente.

La confisca a danno dell'ente. Natura e funzioni

La confisca, come si accennava, si colloca nel novero delle sanzioni tipiche applicabili direttamente in capo all'ente: l'ablazione patrimoniale, infatti, si atteggia quale rimedio afflittivo sia perché priva l'ente dei benefici del reato commesso, sia perché, in ultima istanza, impedisce la circolazione di capitali di origine illecita.

Medesima ratio punitiva accompagna la confisca per equivalente, di cui al comma 2 del medesimo art. 19, atteso che si intende comunque privare l'ente – anche in via indiretta – del godimento dei beni o dei capitali che ha acquisito in forza del reato commesso. L'impostazione, peraltro, ci pare perfettamente in linea con i titoli di imputazione della responsabilità amministrativa che, come noto, impone di accertare che il reato sia stato commesso nell'interesse, ovvero a vantaggio dell'ente. Ebbene, attraverso la confisca si vuole proprio annullare l'effetto ultimo di simili condotte criminose.

Così, nel d.lgs. 231/2001 la confisca: a) è assurta al rango di sanzione principale, affiancandosi alle pene pecuniarie e interdittive (artt. 9 e 19 d.lgs. 231/2001); b) trova applicazione in relazione ai reati commessi dai soggetti apicali quando non sussiste la responsabilità dell'ente (art. 6, comma 5, d.lgs. 231/2001); c) si aggancia alla sanzione sostitutiva del commissariamento giudiziale (artt. 15, comma 4, e 79 d.lgs. 231/2001); d); è evocata nell'ambito delle condizioni richieste all'ente che voglia impedire l'applicazione delle sanzioni interdittive (art. 17, comma 2,lett. c) d.lgs. 231/2001) o ottenere la loro revoca in sede cautelare (artt. 49, comma 4, e 50, comma 1, d.lgs. 231/2001); e) sanziona l'inosservanza delle sanzioni interdittive (art. 23 d.lgs. 231/2001) (Cfr. DELLA RAGIONE, La confisca ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 nella giurisprudenza della Suprema Corte e nel recente caso ILVA, in Riv. nel diritto, 2014, p. 475).

L'inserimento della confisca del prezzo e del profitto del reato nel catalogo delle sanzioni di cui all'art. 9, il suo carattere obbligatorio e la sua possibile esecuzione per equivalente evidenziano la natura punitivo-afflittiva (piuttosto che preventivo-cautelare) di questa misura ablativa (da ultimo, in questi termini, Cass. pen., Sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 3635).

In ragione della finalità sanzionatoria dell'istituto, questo prescinde da qualsiasi paradigma di pericolosità intrinseca della res ablata, derivante dall'impiego nella commissione del reato, né richiede l'individuazione di una pericolosità funzionale, tipica ad esempio delle misure di prevenzione, collegata cioè alla relativa disponibilità in capo ad un determinato soggetto o all'origine o natura dei beni.

La confisca in esame, al contrario, è volta ad eliminare dal circuito economico una determinata “attività” (intesa come utile, suscettibile di valutazione monetaria) che proviene da un reato commesso in favore dello stesso ente. La notazione è di cruciale importanza, perché implica che è l'ente a rispondere iure proprio di quella disponibilità economica, a prescindere dalla responsabilità personale dell'autore del reato, ed a prescindere addirittura da forme di compartecipazione dei suoi azionisti, quotisti o titolari.

Del resto, se sul piano oggettivo l'ente è il destinatario dell'attivo criminoso, sul piano soggettivo si imputa all'ente, ex art. 6 del decreto legislativo 231/2001, la colpa di organizzazione, consistente nella mancata adozione ed efficace attuazione dei modelli di organizzazione normativamente previsti per impedire le condotte illecite. In tale omissione, pertanto, vengono coinvolti tutti i soggetti attraverso i quali l'ente agisce: costoro (azionisti ecc.) vedranno pregiudicati – dalla confisca – diritti proporzionali a quelli illecitamente ottenuti in forza del reato.

Si tratta, quindi, di una responsabilità che genera una misura sanzionatoria operante nei confronti di una “soggettività” diversa da quella cui il reato-presupposto si riferisce.

Come si rilevava in precedenza, se l'ente non può commettere autonomamente un reato, esso, agendo a mezzo delle persone fisiche che lo rappresentano, risulta comunque il beneficiario, in tutto o in parte, del prezzo o del profitto del reato stesso; o comunque beneficia di un reato che è commesso nel suo interesse. Si realizzano allora, contestualmente, due obiettivi in punto di prevenzione: da un lato, una prevenzione speciale-negativa (per evocare le classificazioni circa le funzioni della pena) nei confronti dell'ente e degli autori del reato-presupposto, che vedono neutralizzato, attraverso la confisca, il profitto conseguito in forza del reato ed “incamerato” dall'ente; dall'altro lato una prevenzione speciale positiva, di matrice rieducativa, che, per effetto della sanzione comminata, invita l'ente a predisporre ed attuare efficacemente i modelli di organizzazione che consentiranno tendenzialmente di escluderne in futuro la responsabilità (Cass. pen., Sez. II, 27 giugno 2012, n. 29397, la quale, in ragione di questi argomenti, precisa che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, non assume alcun rilievo cautelare la sostituzione degli amministratori in carica al tempo del commesso reato).

Ora, dal carattere sanzionatorio della confisca in esame – e di quella per equivalente – deriva l'impossibilità di una sua applicazione retroattiva ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 231 del 2001 e, naturalmente, delle leggi che hanno via via integrato il novero dei reati presupposto il tema sarà oggetto di specifico approfondimento.

La confisca per equivalente

Come già segnalato l'art. 19, comma 2, d.lgs. 231/2001 disciplina, ancor quale sanzione tipica a carico dell'ente, la confisca per equivalente (o di valore), ammettendola nei casi in cui non è possibile l'apprensione diretta del prezzo o del profitto del reato.

Come ogni forma di confisca per equivalente disseminata nella legislazione penale, anche l'istituto in esame si muove nell'ambito di una logica sostitutiva, formante di tutti i moderni strumenti di contrasto alla criminalità da profitto, eppure cardine della compatibilità con i principi generali del diritto penale – a cominciare dal principio di proporzione della sanzione – atteso che proprio il vincolo di equivalenza tra il valore sottratto al reo ed il quantum garantito dalla commissione del reato consente di ritenere il rimedio rispettoso del principio di responsabilità per fatto proprio. Del resto, l'esperienza insegna che, per la rapidità e frequenza dei traffici commerciali nella società globale (rispetto anche alle lungaggini giudiziarie), è oltremodo difficile che si riesca ad aggredire per tempo la res che costituisce il beneficio immediato della commissione dell'illecito. Allo stesso tempo, mentre la circolazione lecita del bene illecitamente ottenuto (il bene, cioè, pertinente al reato) ne impedirebbe l'ablazione postuma in capo a terzi di buona fede, la confisca per equivalente consente di colpire un patrimonio che è e resta del solo ente coinvolto nel reato.

Coerentemente con questi argomenti, il Legislatore consente di attivare la confisca indiretta solo nei casi in cui quella diretta si riveli impossibile.

Si ritiene, al riguardo, che tale impossibilità debba essere sopravvenuta, come nel caso in cui i beni che rappresentano il prezzo o il profitto del reato si siano consumati o confusi con altri beni dell'ente, o ancora si siano trasformati o ceduti a terzi in buona fede. Non si avrebbe invece impossibilità sopravvenuta nel caso di beni ab origine insuscettibili di apprensione materiale, come i beni immateriali, e i beni non confiscabili ai sensi dell'art. 19, comma 1, d.lgs. 231/2001, quali ad esempio quelli da restituire al danneggiato.

Era discusso in giurisprudenza (fino all'ultimo pronunciamento delle Sezioni unite riportato nel box qui sotto) se tale forma di confisca avesse natura facoltativa ovvero obbligatoria. A favore della prima soluzione militava esclusivamente il dato letterale, che ricorreva alla formula linguistica può avere ad oggetto (Cass. pen., Sez. V, 8 luglio 2008). La seconda e comunque preferibile impostazione, invece, argomentava l'obbligatorietà della confisca disconoscendo la decisività della formula verbale impiegata dal legislatore a fronte della natura sanzionatoria dell'istituto. Del resto, la scelta del predicato può per poteva riflettere il carattere sussidiario e solo eventuale dellaconfisca per equivalente, che resta condizionata all'impossibilità di procedere alla confisca diretta. Si affermava, dunque, che l'espressione può imponesse solamente al giudice la previa verifica della contemporanea sussistenza delle due condizioni per la relativa applicabilità, e cioè che sia impossibile procedere alla confisca diretta del prezzo o del profitto e che esista equivalenza tra il valore dei beni confiscati e il valore del prezzo o del profitto.

In evidenza

Ed è proprio a questo filone che hanno aderito, di recente, le Sezioni unite, chiamate a comporre il contrasto. Secondo la suprema Corte, nella particolare composizione (Cass. pen., Sez. un., n. 11170/2015), In tema di responsabilità da reato degli enti, la confisca per equivalente, in quanto sanzione principale ed autonoma, è obbligatoria, al pari di quella diretta, atteso che il ricorso da parte del legislatore, nel secondo comma dell'art. 19 d.Lgs. 231 del 2001, alla locuzione "può", non esprime l'intenzione di riconoscere ad essa natura facoltativa, ma la volontà di vincolare il dovere del giudice di procedervi alla previa verifica dell'impossibilità di provvedere alla confisca diretta del profitto del reato e dell'effettiva corrispondenza del valore dei beni oggetto di ablazione al valore di detto profitto.

Il carattere di equivalenza della misura, come pure accennato, annulla ogni nesso di pertinenzialità tra il bene ed il reato commesso, confermando la natura squisitamente sanzionatoria del'istituto. Come evidenziato dalla suprema Corte, caratteristica comune della confisca per equivalente, nelle varie ipotesi previste, è che “può” essere adottata solo se, per una qualsivoglia ragione, i proventi dell'attività illecita, di cui pure sia certa l'esistenza, non siano rinvenuti nella sfera giuridico-patrimoniale dell'autore del reato, perché consumati, confusi o trasformati, in tali casi intervenendo l'ablazione su beni svincolati dal collegamento fisico con il reato stesso (Cass. pen., Sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 19051).

Presupposti ed oggetto. I diritti dei terzi

Quanto ai presuppostidella confisca, l'art. 19 in esame ne subordina l'applicazione alla pronuncia della sentenza di condanna a carico dell'ente, convalidandone ulteriormente la natura sanzionatoria. Alla sentenza di condanna è equiparata, in forza di un consolidato indirizzo giurisprudenziale fondato sull'art. 445, comma 1-bis, ult. parte c.p.p., la sentenza emessa all'esito del patteggiamento (Cass. pen., Sez. II, n. 20046/2011). A questo proposito, però, secondo un primo indirizzo, quale presupposto dell'accoglimento della pena concordata, l'accordo delle parti dovrebbe individuare anche l'oggetto dell'ablazione o comunque consentirne la determinazione certa da parte del giudice (così Cass. pen., Sez. VI, n.12508/2011). Secondo un diverso e più seguito orientamento, Nel procedimento di applicazione di pena su richiesta, le parti non possono vincolare il giudice con un accordo avente ad oggetto anche le pene accessorie, le misure di sicurezza o la confisca, essendo dette misure fuori dalla loro disponibilità; ne consegue che, nel caso in cui il consenso si riferisca anche ad esse, il giudice non è obbligato a recepire o non recepire per intero l'accordo, rimanendo vincolato soltanto ai punti concordati riguardanti elementi nella disponibilità delle parti (Cass. pen., Sez. V, n. 1154/2014). Dunque il giudice, con la sentenza di patteggiamento, deve sempre applicare la sanzione, in esame in qualsiasi forma, a prescindere dall'oggetto dell'accordo raggiunto dalle parti.

Va escluso, invece, che la confisca possa essere disposta con il decreto penale di condanna, atteso che l'art. 19 fa esclusivo riferimento alla sentenza quale provvedimento che possa fondare la sanzione in questione.

Ancora quanto ai presupposti della confisca, bisogna interrogarsi circa i rapporti di tale sanzione con l'eventuale prescrizione del reato presupposto.

In linea di massima vanno distinte due ipotesi: prescrizione intervenuta prima della formulazione della contestazione all'ente e prescrizione intervenuta successivamente.

Il primo caso è disciplinato dalla legge, atteso che l'art. 60 d.lgs. 231/2001 impedisce l'elevazione della contestazione all'ente ove il reato presupposto sia già estinto per prescrizione. Sicché nessuna sanzione potrà mai essere irrogata.

Diversamente, ove la prescrizione del reato presupposto maturi dopo la formulazione della contestazione in capo all'ente, si dovrà prendere atto del diverso regime di sospensione della prescrizione che caratterizza il Decreto 231/2001.

Ai sensi dell'art. 22, ultimo comma, infatti, la prescrizione resta sospesa fino alla definizione del giudizio. Conseguentemente, essa resterà insensibile alla prescrizione del reato presupposto, e l'ente potrà vedersi inflitta la sanzione nonostante il proscioglimento dell'autore di questo.

L'oggetto della confisca è individuato dall'art. 19, comma 1, nel prezzo o nel profitto del reato. La nozione di prezzocorrisponde al compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato (Cass. pen., Sez. unite, n. 26654/2008).

Molto più complessa la ricostruzione di una nozione univoca di profitto, non ricorrendo la stessa in alcuna disposizione di legge (per i necessari approfondimenti, v. par. seg.).

Quanto, invece, alle tipologie di beni suscettibili di confisca, la sanzione può aggredire beni mobili, immobili e mobili registrati; titoli di credito; beni aziendali organizzati per l'esercizio di un'impresa; azioni e quote sociali e, infine, gli strumenti finanziari dematerializzati. Con particolare riferimento ai crediti, la suprema Corte consente solo la confisca diretta di quelli che sono certi, liquidi ed esigibili, mentre esclude quella per equivalente (Cass. pen., Sez. unite, n. 26654/2008, da ultimo ribadita da Cass. pen., Sez. V, n. 3238/2012, a mente della quale In tema di responsabilità da reato degli enti, qualora debbano imputarsi al profitto del reato presupposto dei crediti, ancorché liquidi ed esigibili, gli stessi non possono costituire oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, trattandosi di utilità non ancora percepite dall'ente, ma soltanto attese).

Sempre con riguardo ai beni che possono essere oggetto di confisca, una menzione a sé merita la restituzione al danneggiato dal reato, prevista dall'art. 19, comma 1. Il Legislatore, infatti, sottrae al regime di confiscabilità diretta la quota di profitto o prezzo di immediata spettanza del danneggiato. Si ritiene che l'eccezione si fondi sulla sussistenza, in capo a costui, di un diritto di un diritto di proprietà, di godimento o di garanzia ovvero in ragione del possesso o della detenzione, anche se derivati da un negozio produttivo di effetti obbligatori, sul bene, ovvero sull'utilità economica. Invero, si coglie la funzione essenzialmente restitutoria e non già risarcitoria, della deroga, consentendo al legittimo titolare di rientrare in possesso di ciò che è stato ‘perso' per effetto della condotta criminosa ed ancora nella disponibilità del reo (e/o dell'Autorità giudiziaria). In giurisprudenza, il principio è stato affermato in tema di truffa: «In tema di responsabilità degli enti, l'utilità economica ricavata dalla persona giuridica a seguito della consumazione di una truffa non può essere confiscata come profitto del reato, nemmeno per equivalente, quando la stessa sia stata già restituita al soggetto danneggiato»(Cass. pen., Sez. II, n. 45054/2011).

In un recente arresto sull'argomento, la Corte si è soffermata sulla “possibilità” della restituzione, statuendo che «ai fini della confisca prevista dall'art. 19 del d.lgs. 231 del 2001, secondo cui nei confronti dell'ente è disposta la confisca del prezzo o del profitto del reato salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato, deve aversi riguardo, quanto alla possibilità di restituzione, non alla esistenza di una generica garanzia patrimoniale prestata nell'interesse dell'ente responsabile a vantaggio del danneggiato, ma alla possibilità di distaccare concretamente una porzione - specificamente individuata - del patrimonio dell'ente, spettante come tale al danneggiato. (Fattispecie in cui la Corte, in relazione al reato di malversazione ai danni dello Stato, ha escluso che, ai fini della confisca di valore, dovesse essere sottratta dall'entità del profitto, costituito dall'importo erogato e distratto, la somma corrispondente alla polizza fideiussoria costituita in favore dell'ente erogante)» (Cass. pen., Sez. VI, n. 12653/2016).

La confisca non può intervenire, poi, su beni legittimamente passati nel patrimonio di terzi di buona fede. Il tema, è quasi superfluo dirlo, coinvolge solo la confisca diretta.

Più rilevante, dal punto di vista pratico, comprendere che diritti debbano vantare sulla res i terzi per essere riconosciuti tali, e cosa si intenda per buona fede.

Imprescindibile il soccorso ermeneutico del diritto civile.

Quanto al primo profilo, il dato testuale – parlando genericamente di diritti dei terzi – consente di comprendere una vasta gamma di situazioni giuridiche di diritto privato, dalla vendita ai diritti reali di godimento e di garanzia, dal possesso alla detenzione (cfr. G. de Vero, La responsabilità da reato delle persone giuridiche, in AA.VV., Trattato di diritto penale, Giuffrè, 2008, 250).

Quanto alla nozione di buona fede, la giurisprudenza conviene circa l'opportunità di fare riferimento a quanto disposto dall'art. 1147 c.c. Sarà necessario, dunque, che il terzo versi in una condizione di ignoranza della situazione giuridica del proprio dante causa.

In evidenza

Il requisito della buona fede ha sempre condizionato la salvaguardia dei terzi contro i provvedimenti ablatori. In materia, esiste una consolidata tradizione giurisprudenziale quanto alla confisca di prevenzione. Secondo la suprema Corte (Cass. pen., Sez. V, n. 6449/2015), Ai fini dell'opponibilità del diritto di garanzia reale sul bene oggetto del provvedimento di confisca di prevenzione, non è sufficiente che l'ipoteca sia stata costituita mediante iscrizione nei registri immobiliari prima del sequestro e del provvedimento ablativo, ma è richiesta l'inderogabile condizione della buona fede e dell'affidamento incolpevole del creditore ipotecario, da desumersi sulla base di elementi – in particolare su una situazione di oggettiva apparenza – che rendano scusabile l'ignoranza o il difetto di diligenza, di cui spetta allo stesso fornire la dimostrazione. Assolto siffatto onere allegatorio, il giudice che intenda respingere l'istanza di ammissione è tenuto a fornire adeguata motivazione sulle ragioni per cui tali elementi debbano ritenersi insufficienti.

Infine, va segnalato un arresto che fa chiarezza sul rapporto tra patrimonio dell'ente e patrimonio della persona fisica autore del reato presupposto. Secondo la Cassazione, «Nel caso di concorso di persone in uno dei reati indicati dall'art. 322-ter c.p. e di coinvolgimento di enti, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato può incidere contemporaneamente e indifferentemente sui beni dell'ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso, con l'unico limite per cui il vincolo cautelare non può eccedere il valore complessivo del suddetto profitto» (Cass. pen., Sez. II, n. 45520/2015).

Il profitto confiscabile

In precedenza si è sottolineata l'esigenza di tenere separata la trattazione sulla nozione di profitto confiscabile, attesa la continua evoluzione della stessa ed i frequenti interventi della suprema Corte, non sempre perentoria nelle conclusioni raggiunte.

Va subito detto che, astrattamente, ad una nozione ampia di profitto, comprensivo cioè anche dei beni o delle utilità derivanti dal reimpiego di quanto illecitamente conseguito, se ne contrappone una più restrittiva che, valorizzando la necessità di una relazione di pertinenzialità con la condotta illecita, definisce il profitto come il complesso delle utilità economiche immediatamente ricavate dal fatto di reato. Il profitto del reato andrebbe dunque inteso come complesso di vantaggi economici tratti dall'illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a questa nozione, l'impiego di parametri valutativi di tipo aziendalistico, quali, ad esempio, il risultato di esercizio individuato tramite il confronto tra le voci positive e quelle negative del reddito d'impresa (così Della Ragione, cit.).

L'alternativa è ben avvertita in giurisprudenza, ove accanto a pronunce che hanno qualificato il profitto come comprensivo di ogni altra utilità che sia stata ottenuta come conseguenza diretta o indiretta della attività criminosa (ad es. Cass. pen., Sez. VI, n. 42/1995), ve ne sono altre più recenti che, anche nella composizione delle Sezioni unite, affermano invece l'irrilevanza di ogni nesso di derivazione meramente indiretto o mediato.

Secondo la dottrina, il profitto – per definizione – rappresenta il risultato concreto che di regola è frutto di una condotta finalisticamente orientata a conseguire tale risultato e che in via di eccezione, anche se non a priori ambíto, è comunque necessariamente causalmente determinato dalla condotta stessa. Ne consegue che siffatto risultato deve rivestire le seguenti caratteristiche:

1) essere evento in senso tecnico (ancorché esterno al tipo dell'illecito, costituendo – come detto – l'oggetto della sanzione), quindi non identificabile, confondibile con, o sovrapponibile alla condotta stessa: deve cioè evidenziare una sua attualità contingente spazio-temporale, esulando così per sua natura sia dalle sfera delle mere potenzialità, sia dalla sfera soggettiva delle intenzioni finalistiche che possono governare e orientare la condotta stessa;

2) possedere una necessaria materialità a rifrazione patrimoniale, in quanto oggetto materiale – appunto – della apprehensio coattiva in cui si sostanzia la sanzione (sia essa diretta o per equivalente: non fa alcuna differenza), e quindi previamente identificato, quantificato, determinato, sia nell'an che nel quantum (o, in ogni caso, in questi termini da identificarsi, determinarsi, etc.); con esclusione dal suo spettro, pertanto, di ogni componente sotto qualsiasi profilo probabilistica, quali, per fare un solo esempio noto alla civilistica, quelle riconducibili a chances o a rapporti i cui impatti, o ritorni economico-finanziari non siano per lo meno predeterminabili a priori;

3) essere conseguenza diretta dell'illecito, come accadimento esterno, separato nettamente, ma strettamente collegato eziologicamente alla condotta delittuosa imputata all'ente attraverso il paradigma di responsabilità ex crimine di cui al d.lgs. 231/2001.

Oggi, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale ruota attorno all'eventuale applicazione del principio dell'utile netto ricavato (Nettoprinzip), ovvero del criterio del lordo. Secondo la prima impostazione, oggetto della sottrazione dovrebbero essere i soli profitti al netto delle spese sostenute dal reo per la sua consumazione. In quest'ottica, è possibile affermare che, al fine di salvaguardare il principio di proporzione della sanzione, la confisca del profitto del reato prevista dall'art. 19 debba intendersi come riferita al profitto netto, cioè all'utilità effettivamente conseguita. Questa impostazione, però, pone evidenti difficoltà contabili e problemi di calcolo specie con riguardo alle imprese, delle quali occorrerebbe valutare tutti gli investimenti compiuti, distinguendo quelli leciti da quelli illeciti.

A favore della tesi del profitto netto milita anche l'argomento secondo cui l'art. 19 antepone espressamente alla confisca la tutela dei terzi danneggiati e la tutela dei diritti dei terzi di buona fede tra i quali i dipendenti dell'ente o i creditori terzi come gli istituti di credito, tutti soggetti che verrebbero inevitabilmente sacrificati adottando la nozione di profitto lordo come profitto confiscabile. Senza considerare che, non consentendosi la deducibilità dei costi, si sarebbe pervenuti ad una doppia ablazione nei confronti dell'ente, attraverso la confisca e attraverso l'impedimento al recupero delle spese sostenute. Vale poi la pena di ricordare che, se nel silenzio della legge la confisca si estendesse all'intero ricavo tratto dall'illecito, l'esborso complessivo risulterebbe superiore alla gravità del fatto commesso, in violazione del principio di proporzionalità tra disvalore oggettivo e conseguenza sanzionatoria. La tesi del “profitto netto” sarebbe dunque l'unica in grado di rispettare i principi di proporzione e determinatezza e avrebbe evitato che, tramite un concetto così dilatato di profitto, si potesse di fatto pervenire, attraverso la confisca, all'automatico fallimento dell'impresa.

L'opposto principio del lordo (Bruttoprinzip), che invece ammette la confisca dell'intero vantaggio patrimoniale derivato dal reato, indipendentemente dai costi sostenuti, viene allora proposto non solo perché consente di aggirare facilmente gli ostacoli, spesso insormontabili, di un rigoroso accertamento, ma anche perché risponde più pienamente alle esigenze di prevenzione generale e speciale che impongono di far ricadere il rischio di perdite economiche derivanti dal reato sul suo autore piuttosto che sullo Stato.

Una spinta espansiva del profitto confiscabile proviene poi dalla normativa sovranazionale (v. la decisione quadro della Ue 2005/212/Gai del 24 febbraio 2005) che, in un'ottica di repressione e prevenzione generale dei fenomeni corruttivi e di criminalità economica, spinge gli Stati a considerare confiscabili tutti i proventi (proceeds) che derivino direttamente o indirettamente da reato.

La questione, inesorabilmente, è approdata alle Sezioni unite nel 2008 – nell'ambito della vicenda c.d. Fisia-Italimianti – ed è stata così risolta dalla Corte: In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l'utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone. (In motivazione la Corte ha precisato che, nella ricostruzione della nozione di profitto oggetto di confisca, non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico – quali ad esempio quelli del "profitto lordo" e del "profitto netto" –, ma che, al contempo, tale nozione non può essere dilatata fino a determinare un'irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l'ente, adempiendo al contratto, che pure ha trovato la sua genesi nell'illecito, pone in essere un'attività i cui risultati economici non possono essere posti in collegamento diretto ed immediato con il reato) (Cass. pen., Sez. unite, n. 26654/2008). L'approdo interpretativo, però, non può dirsi definitivo.

In evidenza

La giurisprudenza successiva, nuovamente nella particolare composizione delle Sezioni unite, si è assestata su diversa posizione, più incline al criterio del lordo. Secondo tale pronuncia (Cass. pen., Sez. unite, n. 38343/2014), In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca diretta di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica non soltanto con i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche con ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa”. Aggiungendo che “In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi derivante da reati colposi di evento commessi in violazione di una disciplina prevenzionistica, il profitto oggetto della confisca diretta di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica nel risparmio di spesa che si concreta nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto.

Di recente, però, si può constatare un revirement giurisprudenziale con ritorno verso il criterio del netto: «il profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 del d.lgs. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere ricompresa nel profitto anche l'utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone» (Cass. pen., Sez. VI, n. 23013/2016). Interessante notare come la Cassazione delimiti il quantum confiscabile all'ammontare del profitto eccedente la prestazione contrattuale, e dovuto alla condotta illecita. In altre parole, il previo compimento di un fatto illecito non inficia la rilevanza e la necessaria valutazione di un'attività lecita con esso connessa, ma anzi questa resterà un ‘fatto' giuridicamente ed economicamente significativo, oggetto di un sindacato autonomo rispetto al fatto illecito in cui si inserisce.

Del pari molto interessante – seppur in ultima analisi tendente al criterio del lordo – una ulteriore decisione di legittimità in cui la Corte ha ritenuto – almeno a parole – di prendere le distanze da criteri ‘aziendalistici', preferendo operare un giudizio più puntuale sul vantaggio concretamente prodotto dalla commissione del reato: «il profitto confiscabile di cui all'art. 19 del d.lgs. 231 del 2001 non può essere calcolato al netto dei costi sostenuti per ottenerlo o altrimenti determinato facendo ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico, quali il profitto lordo o il profitto netto, ma si identifica con il concreto vantaggio conseguito dalla commissione del reato presupposto. (Fattispecie in cui la Corte ha individuato il profitto derivante dalla commercializzazione di prodotti agroalimentari come "biologici", invece che come "convenzionali", in misura corrispondente alla differenza tra il prezzo effettivamente ottenuto e quello che sarebbe stato conseguito se i prodotti fossero stati venduti come "convenzionali")» (Cass. pen., Sez. III, n. 15249/2014).

Casistica

Associazione per delinquere e reati-scopo

In tema di responsabilità da reato degli enti, allorché si proceda per il delitto di associazione per delinquere e per reati non previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, la rilevanza di questi ultimi non può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, per il loro carattere di delitti scopo del reato associativo contestato. Cass. pen., Sez. VI, n. 3635/2014.

Crediti

In tema di responsabilità da reato degli enti, qualora debbano imputarsi al profitto del reato presupposto dei crediti, ancorché liquidi ed esigibili, gli stessi non possono costituire oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, trattandosi di utilità non ancora percepite dall'ente, ma soltanto attese. Cass. pen., Sez. V, n. 3238/2012.

Fallimento e diritti dei terzi

In tema di responsabilità da reato della persona giuridica successivamente fallita, i diritti acquisiti dai terzi in buona fede che, ai sensi dell'art. 19 del d. lgs. 231 del 2001, sono fatti salvi rispetto alla confisca, si identificano nel diritto di proprietà e negli altri diritti reali che gravano sui beni oggetto dell'apprensione da parte dello Stato e non anche nei diritti di credito (In motivazione, la Corte ha affermato che i creditori, prima della conclusione della procedura concorsuale e della assegnazione dei beni, non sono titolari di alcun diritto su questi ultimi e, quindi, sono privi di un titolo restitutorio). Cass. pen., Sez. unite, n. 11170/2015.

Manipolazione del mercato

In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, la nozione di profitto confiscabile derivante dal delitto di manipolazione del mercato si qualifica per i connotati della immediata derivazione e della concreta effettività, ma non coincide necessariamente, quanto alla posizione dell'ente collettivo, con il solo profitto conseguito dall'autore del reato, potendo consistere anche in altri vantaggi di tipo economico che l'ente abbia consolidato e che siano dimostrati. (Nella specie, la Corte ha ritenuto che il profitto, così come individuato nel provvedimento di sequestro e consistente nel consolidamento dell'immagine della società nel mercato azionario, non fosse stato provato nè fosse riferibile a fatti dimostrativi di una utilità economica conseguita dalla società indagata). Cass. pen., Sez. V, n. 25450/2014.

Procedure concorsuali

È legittimo il mantenimento del sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni di una società, nei cui confronti pende un procedimento per responsabilità amministrativa nascente da reato, anche quando sopravviene a carico dell'ente una procedura concorsuale, poiché tale vicenda giuridica non sottrae al giudice penale il potere di valutare, all'esito del procedimento, se disporre la confisca, e, in caso positivo, con quale estensione e limiti. (Fattispecie in tema di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di società ammessa, dopo l'applicazione della misura, alla procedura di concordato preventivo). (Cass. pen., Sez. II, n. 41354/2015).

Questioni di costituzionalità

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 53 D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in riferimento all'art. 76 Cost., dedotta sul rilievo che la prima disposizione avrebbe introdotto la possibilità di applicare in via cautelare la misura del sequestro preventivo nei confronti delle persone giuridiche e degli enti nonostante l'assenza di qualunque riferimento in proposito nella legge delega, in quanto la necessità di una espressa indicazione del legislatore delegante in ordine all'attribuzione di tale potere è esclusa per essere l'istituto, anche nelle forme del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, già disciplinato nell'ordinamento processuale. Cass. pen., Sez. II, n. 41435/2014.

Reati tributari

Salva l'ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 19, comma secondo, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non può essere disposto sui beni immobili appartenenti alla persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, in quanto gli artt. 24 e ss. del citato D.Lgs. non contemplano i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento. Cass. pen., Sez. III, n. 42476/2013.

Tempus commissi delicti

In tema di responsabilità da reato degli enti, la sanzione della confisca del profitto può essere disposta a condizione che il reato presupposto sia stato consumato dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 231 del 2001, essendo, invece, irrilevante che il profitto sia stato conseguito da parte del destinatario della sanzione in un momento precedente alla commissione del reato e alla entrata in vigore della legge. (Fattispecie in tema di corruzione consumatasi in data successiva alla entrata in vigore del d.lgs. 231 del 2001, con profitto, tuttavia, conseguito precedentemente). Cass. pen., Sez. V, n. 15951/2015.

Truffa aggravata

Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato di truffa aggravata può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni dell'ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso, con l'unico limite per cui il vincolo cautelare non può eccedere il valore complessivo del suddetto profitto. Cass. pen., Sez. II, n. 21227/2014.

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