Consumatore

Luca Caputo
08 Marzo 2017

Il presente contributo tiene conto di importanti precisazioni intervenute in giurisprudenza nell'ambito di quello che sta ormai assumendo i connotati di un trend - la cui portata ci riserviamo di approfondire nei prossimi mesi - che sembra andare verso un vero e proprio diritto processuale speciale del consumatore.
Inquadramento

Il codice civile del 1942 predispone una tutela omogenea per tutti i contraenti, talvolta di carattere generale per tutti i contratti (risarcimento del danno, risoluzione, rescissione ecc.), talaltra di tipo speciale, applicabile ai singoli contratti tipici (es. azioni edilizie nella vendita).

Tuttavia il c.c. non distingue mai le tutele applicabili dai privati in base alla qualità giuridica dagli stessi rivestita, guardando sempre al contratto, oggettivamente considerato.

Tuttavia l'impatto del diritto comunitario ha portato ad un fenomeno di moltiplicazione di tutele all'interno dell'ordinamento italiano: in attuazione della direttiva 93/13 CEE la l. 52/1996 ha introdotto nel corpo del c.c. il capo XIV-bis all'interno del titolo II dedicato ai contratti in generale, coniando per la prima volta la figura del consumatore in Italia.

In questo modo per la prima volta nell'ordinamento interno viene apprestata una tutela «ad hoc» in virtù della qualifica giuridica dei soggetti che concludono il contratto, indipendentemente dalle caratteristiche di quest'ultimo.

Il proliferare di norme volte a tutelare il consumatore ha comportato la necessità di una ricollocazione del suddetto ordito normativo di carattere speciale in un testo normativo autonomo, il d.lgs. 206/ 2005 (Codice del consumo).

Tale normativa ha il precipuo scopo, di matrice comunitaria, di offrire una protezione rafforzata, forte, al consumatore nei confronti dei professionisti, in quanto il primo è un contraente debole, la cui tutela realizza non solo i suoi interessi individuali, ma anche quelli costituzionali di uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2, Cost.) e di concorrenza nel mercato (art. 41 Cost.).

L'introduzione della disciplina consumeristica - fino a poco tempo fa del tutto estranea al sistema giuridico italiano - ha comportato il grande problema per la giurisprudenza di individuare quando si sia in presenza di un consumatore e quando no.

Questi, infatti, pur trovando espressa definizione normativa all'art. 3, lett. a) cod. cons., non è in concreto nella prassi di facile individuazione (al pari del professionista); tuttavia una tale problematica ermeneutica assume rilevanza fondamentale nel moderno diritto civile, posto che dalla qualificazione di un soggetto come consumatore derivano a cascata una serie di importanti implicazioni di carattere pratico.

Si pensi all'applicabilità della disciplina contenuta nel Codice del consumo, ed in particolare a quella delle clausole vessatorie (art. 33 d.lgs. 206/2005), al relativo accertamento ed ai più ampi poteri di sindacato del giudice (art. 34 d.lgs. 206/2005), alla figura delle nullità di protezione (art. 35 d.lgs. 206/2005), all'inderogabilità del foro del consumatore ed all'azionabilità del rimedio collettivo dell'azione di classe (art. 140-bis d.lgs. 206/2005).

Più recentemente, poi, la nozione di consumatore ha tratto nuova linfa vitale dall'introduzione con la l. 3/2012, relativa alla composizione della crisi da sovraindebitamento, estesa con l. 221/2012 proprio al consumatore.

Un ulteriore impulso alla tutela dei consumatori dovrebbe aversi con la riforma della class action operata con la l. 31/2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 92 del 18 aprile 2019. Tra le innovazioni più significative operate con la riforma della class action devono evidenziarsi:

- la nuova collocazione sistematica della disciplina speciale, che passa dal Codice del consumo (art. 139, 140 e 140-bis d.lgs. 206/2005) al Codice di procedura civile (artt. 840-bis a 840-sexiesdecies c.p.c.);

- l'estensione soggettiva dell'ambito di operatività dell'azione di classe, con l'eliminazione del riferimento alla categoria dei consumatori e la possibilità conseguente di agire con tale azione anche per le imprese;

- l'estensione dell'ambito di operatività sul piano oggettivo: l'azione non è più limitata alle sole ipotesi di responsabilità contrattuale, ma è estesa anche alle fattispecie di responsabilità extracontrattuale, sebbene limitatamente ai diritti di consumatori ed utenti finali da far valere nei confronti del produttore;

- alcuni rilevanti modifiche processuali, come l'attribuzione della competenza funzionale per materia esclusiva al Tribunale delle Imprese, la modifica della modalità di introduzione dell'azione di classe, non più tramite atto di citazione, ma con ricorso e l'assoggettamento delle relative controversie al rito sommario di cognizione di cui agli art. 702-bis e ss. c.p.c.;

- l'introduzione della possibilità, molto significativa nell'ottica di favorire il ricorso alla class action, di adesione alla stessa (meccanismo del c.d. «opt-in») anche dopo la sentenza di accoglimento e non solo dopo l'emissione dell'ordinanza di ammissibilità;

- il riconoscimento della legittimazione attiva alla proposizione dell'azione inibitoria collettiva non più circoscritta agli enti collettivi, ma a «chiunque vi abbia interesse» con, in parallelo, l'eliminazione del limite precedentemente previsto per gli enti collettivi che quindi possono agire per la tutela dei diritti individuali.

Sul punto va però anche osservato che tale disciplina allo stato non è entrata ancora in vigore: l'art. 7 della l. 31/2019, infatti, prevede l'entrata in vigore della nuova class action dodici mesi dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale con espressa previsione che le nuove norme si applicheranno alle condotte poste in essere dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina, ma l'entrata in vigore è stata ulteriormente differita, da ultimo con il c.d. Decreto Ristori-bis, ed è allo stato fissata per il 19 maggio 2021.

Nozione di consumatore: ambito soggettivo applicativo del d.lgs. 206/2005

L'art. 3 lett. a) cod. cons. definisce il consumatore (o utente) come la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta.

Perché un soggetto possa essere qualificato come consumatore, dunque, è necessario in primo luogo il requisito positivo che egli sia una persona fisica, cioè un individuo.

Più di un dubbio ha destato la scelta legislativa di escludere dalla nozione di consumatore le persone giuridiche.

La dottrina ha infatti evidenziato in modo critico come anche gli enti ben possano concludere contratti per scopi estranei alla loro attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, trovandosi così in una posizione di squilibrio economico e informativo rispetto al professionista. Anche le persone giuridiche, dunque, potrebbero essere vittime di abusi da parte del professionista quale contraente forte.

Inoltre si è obiettato che la scelta del legislatore è oltremodo riduttiva, dal momento che non tiene conto di quelle situazioni di disparità contrattuale che si verificano nei rapporti commerciali tra imprese, di cui alcune siano forti ed altre deboli.

Anche la giurisprudenza ha espresso i medesimi dubbi: il Giudice di Pace dell'Aquila con ord., 3 novembre 1997, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della normativa italiana con riguardo agli artt. 3, 35 e 41 Cost., nella parte in cui non comprende nell'ambito della definizione di consumatore anche la persona giuridica che agisce per scopi estranei ad attività imprenditoriali e professionali.

La Corte costituzionale con ord., 30 giugno 1999, n. 282 dichiarò l'inammissibilità della questione come prospettata dal giudice remittente, senza entrare nel merito della stessa.

Successivamente, adita dall'ordinanza del Giudice di Pace di Sanremo del 5 guglio 1999 per le stesse ragioni avanzate dal Giudice di Pace dell'Aquila, la Corte costituzionale andò più a fondo, dichiarando non fondata la questione sollevata.

Con sentenza n. 469/2002 la Consulta affermò che con l. 52/1996 il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva 93/2013 CEE in ottemperanza degli obblighi assunti a livello comunitario, limitandosi a trasporre le regole di derivazione comunitaria, che non contemplano nella nozione di consumatore anche le persone giuridiche.

Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (CGUE 22 novembre 2011, C541/99 e C542/99) e della Cassazione (Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2007, n. 13337) hanno confermato la correttezza della scelta legislativa anche se devono registrarsi significative aperture più recenti. E così, la Corte di cassazione ha affermato l'applicabilità della disciplina del consumatore anche al contratto concluso dall'amministratore di condominio e ciò nonostante si tratti di un ente e quindi non di una persona fisica (Cass. civ., sez. VI, 22 maggio 2015, n. 10679): in questo caso, infatti, a prevalere, secondo la Suprema Corte, è il dato rappresentato dal fatto che il condominio è comunque un ente privo di personalità giuridica distinta dai suoi partecipanti con la conseguenza che l'amministratore agisce come «mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estrani ad attività imprenditoriale o professionale».

Proprio tale orientamento ha condotto alla recente e rilevante apertura della Corte di Giustizia dell'Unione Europea registrata con la sentenza del 2 aprile 2020, causa C-329-19, con la quale si è affermata la possibilità per gli Stati membri di estendere la portata della disciplina europea a tutela del consumatore, compatibilmente con i principi stabiliti dai Trattati.

La questione rimessa dal Tribunale di Milano alla Corte Europea concerneva l'interpretazione dell'art. 1, par. 1, e dell'art. 2, lett. b) della direttiva 93/13/CEE in tema di clausole abusive dei contratti conclusi tra professionisti e consumatori. In particolare, con l'ordinanza di rimessione si chiedeva alla Corte di valutare se, alla luce della delimitazione della nozione di consumatore alle sole persone fisiche, fosse possibile riconoscere tale qualifica anche al condominio, data la sua natura di ente e, quindi, la non coincidenza con una persona fisica. Più specificamente, nell'affrontare un caso concernente l'applicabilità o meno al contratto di fornitura di energia termica concluso tra un condominio e una società per azioni, e in particolare la possibilità per il primo di impugnare clausole ritenute vessatorie che prevedevano il pagamento di interessi moratori su un debito scaduto, il Tribunale di Milano ravvisava l'esistenza di un contrasto tra la giurisprudenza interna - che qualifica il condominio come centro di interesse autonomo rispetto ai singoli condomini e la possibilità, affermata dalla stessa, di applicare la disciplina consumeristica al contratto stipulato dall'amministratore di condominio in quanto soggetto che agisce comunque per conto dei condomini che sono consumatori - e la giurisprudenza comunitaria, secondo cui la nozione di consumatore è necessariamente legata alla natura di persona fisica del soggetto giuridico interessato (CGUE 22 novembre 2021).

La Corte di Giustizia Europea, nel prendere le mosse dal limite rappresentato dalla direttiva comunitaria in materia, che all'art. 2, lett. b, che circoscrive la nozione di consumatore alle sole persone fisiche, compie un considerevole passo in avanti valorizzando quanto previsto dai Trattati. In particolare, giunge a superare il limite derivante dalla previsione contenuta nella direttiva valorizzando l'art. 169, par. 4, TFUE che prevede che gli Stati membri possano mantenere o introdurre misure più rigorose a tutela dei consumatori purché ciò avvenga compatibilmente con quanto previsto dai Trattati medesimi. Sulla base di tale premessa, la CGUE giunge alla conclusione che deve ritenersi consentito agli Stati membri di conservare o introdurre una disciplina nazionale che corrisponda a quanto statuito nella direttiva ma anche di estendere l'applicazione a persone giuridiche, come effettuato proprio dalla Corte di cassazione; con la conseguenza che è quindi possibile che la giurisprudenza nazionale interpreti la normativa interna di recepimento di quella comunitaria in modo tale da renderla applicabile anche a contratti conclusi con professionisti da soggetti giuridici non persone fisiche quale è il condominio.

Alla luce di ciò, deve quindi ritenersi che la ragionevole distinzione legislativa non escluda possibilità di interpretazioni giurisprudenziali che, nell'ottica del rafforzamento della tutela del consumatore, ne estendano ulteriormente la tutela, come affermato proprio dalla importante e recente decisione della CGUE.

Il primo requisito - positivo -, quindi, che il giudice deve dunque verificare perché possa dirsi che un soggetto è consumatore attiene al fatto che questi sia una persona fisica; si tratta con tutta evidenza di un'attività agevole, salvo per alcune fattispecie al limite, come il condominio come fin qui evidenziato.

Maggiori difficoltà desta da sempre il secondo requisito dell'estraneità del contratto concluso dal soggetto che si assume essere consumatore rispetto alle sue attività imprenditoriali e professionali.

Questo requisito è negativo, perché il giudice deve accertare l'assenza di un legame tra attività svolta dalla persona fisica ed il contratto concluso; in base a ciò la dottrina più attenta ha definito il consumatore come un «uomo senza qualità».

Grandi dubbi ha sollevato in dottrina ed in giurisprudenza l'interpretazione della locuzione «per scopi estranei» contenuta nell'art. 3, lett. a) cod. cons..

Per una prima ricostruzione interpretativa (seguita per lo più in dottrina) il giudice dovrebbe valutare lo scopo della persona fisica in chiave soggettiva, cioè le motivazioni, l'animus che muove il soggetto a concludere il contratto.

L'opinione dominante, però, accoglie un'interpretazione di carattere oggettivo degli scopi perseguiti dalla persona fisica nella stipulazione del contratto, al fine di applicare la disciplina consumeristica.

Questo filone ermeneutico è stato inaugurato dalla Corte di Giustizia UE, 3 luglio 1997, C269/95 secondo cui la nozione di «consumatore» va interpretata restrittivamente, avendo riguardo al ruolo di tale persona in un contratto determinato, rispetto alla natura ed alle finalità di quest'ultimo. Secondo tale impostazione, è da qualificarsi consumatore unicamente la persona fisica che agisce per il soddisfacimento di esigenze di natura personale o familiare.

Viene, dunque, ad essere utilizzato unicamente un parametro oggettivo che tiene conto della natura e delle finalità obiettive dell'atto e dei beni negoziati, senza offrire alcun rilievo all'intenzione soggettiva del contraente e ai motivi che lo hanno indotto a stipulare.

La Suprema Corte ha aderito all'interpretazione restrittiva ed oggettiva di «consumatore» propugnata dalla CGE (ex multis Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2001, n. 10127); per qualificare un soggetto alla stregua di «consumatore» occorre ad ogni modo guardare in prospettiva oggettiva alla natura ed alle finalità dell'atto, nonché alla natura dei beni e dei servizi acquistati.

Espressione dell'orientamento restrittivo è ad esempio quell'interpretazione giurisprudenziale secondo cui per assumere la qualifica di professionista, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 206/2005, non è necessario che il soggetto stipuli il contratto nell'esercizio dell'attività propria dell'impresa o della professione, ma è sufficiente che lo concluda al fine dello svolgimento o per le esigenze dell'attività imprenditoriale o professionale, sicché non può invocare il foro del consumatore l'avvocato che abbia acquistato riviste giuridiche in abbonamento o programmi informatici per la gestione di uno studio legale (ex multis Cass. civ., sez. VI, 31 luglio 2014, n. 17466), o che stipuli il contratto per l'attivazione di una linea telefonica per il proprio studio professionale (Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2018, n. 22810).

Per la Suprema Corte non rileva però in modo decisivo, al fine di escludere un rapporto di consumo, la sola circostanza che la parte si sia qualificata come «avvocato» nel concludere il contratto (così Cass. civ., sez. VI, 12 marzo 2014, n. 5705; Cass. civ., sez. VI, 23 settembre 2013, n. 21763).

Tuttavia da alcuni anni a questa parte la giurisprudenza civile sembra accogliere un'interpretazione sempre più estensiva di «consumatore», al fine di ampliare le maglie applicative della disciplina contenuta nel Codice del consumo.

In primis la Corte di cassazione è ormai unanime nel ritenere che deve riconoscersi la qualifica di consumatore anche in caso di operazioni contrattuali miste o promiscue, cioè connotate da una commistione di finalità, purché l'attività professionale o imprenditoriale risulti marginale (ex multis Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2007, n.13377; Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2007, n. 4208).

Sul punto la Corte di Giustizia UE (20 Gennaio 2005 C464/01), pur interpretando restrittivamente la nozione di consumatore, fa leva sull'effettivo uso del bene per verificare la marginalità dello scopo perseguito.

Qualora l'uso professionale sia talmente marginale da avere un ruolo trascurabile nel contesto globale dell'operazione, il contraente dovrà essere considerato consumatore.

La CGUE ha puntualizzato in punto di onus probandi sarà il soggetto che fa valere lo status di consumatore a dover provare la marginalità dell'uso professionale.

Il trend estensivo della nozione di consumatore è dimostrato da ulteriori interpretazioni offerte dalla Suprema Corte su due peculiari questioni.

La prima tematica riguarda la possibilità di considerare consumatore - ai fini dell'applicabilità della disciplina del d.lgs. 206/2005 - anche il fideiussore che garantisce l'obbligazione assunta da una persona fisica nell'ambito della stipulazione di un contratto per scopi estranei alla propria attività imprenditoriale o commerciale.

La Corte di cassazione (Cass. civ., sez. III, 29 novembre 2011, n. 25212) ha stabilito che in presenza di un contratto di fideiussione è all'obbligazione garantita che deve riferirsi il requisito soggettivo ai fini dell'applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore, attesa l'accessorietà dell'obbligazione del fideiussore all'obbligazione garantita.

Sul punto deve osservarsi che in decisioni più recenti la Suprema Corte ha invece affermato la necessità di accertare la sussistenza dei requisiti soggettivi per applicare la disciplina consumeristica considerando esclusivamente il contratto di garanzia e non il contratto principale (Cass. civ., sez. VI, 16 gennaio 2020, n. 742, Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2018, n. 3225); si è così osservato, in particolare, che deve ritenersi sussistente la qualità di consumatore nel caso del fideiussore persona fisica che stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee all'attività professionale eventualmente svolta, «nel senso che la prestazione della fideiussione non deve costituire atto espressivo di tale attività, né essere strettamente funzionale al suo svolgimento» (Cass. civ., sez. VI, 16 gennaio 2020, n. 742). In questa prospettiva si è giunti ad affermare la possibilità di riconoscere la qualità di consumatore anche alla persona fisica che presti la fideiussione a garanzia della società di cui è socio, dovendosi valutare in concreto una serie di circostanze come l'entità della partecipazione al capitale sociale e l'eventuale qualità di amministratore della società garantita del fideiussore (Cass. civ., sez. VI, 24 gennaio 2020, n. 1666).

Anche il fideiussore, dunque, potrà invocare le forme di tutela contenute nel Codice del consumo, e non solo laddove il debitore principale sia consumatore agli effetti di legge ma anche qualora la fideiussione concretamente conclusa esuli, alla luce di una valutazione in concreto da compiersi caso per caso, dall'ambito dell'attività professionale o imprenditoriale svolta dal garante. In questo senso, quindi, deve ritenersi superato lo schematismo in base al quale giudice debba limitarsi ad accertare quale sia la qualifica del debitore principale, onde verificare se la disciplina consumeristica possa applicarsi anche al fideiussore; così, Trib. Roma, 26 giugno 2015, che ha escluso tale possibilità nel caso in cui debitore principale sia una società, trattandosi di persona giuridica che può assumere solo la veste di «professionista».

La seconda questione riguarda la possibilità di applicare al condominio la disciplina contenuta nel d.lgs. 206/2005 per i contratti conclusi dall'amministratore condominiale.

La giurisprudenza della Suprema Corte (ex multis Cass. civ., sez. VI, 22 maggio 2015, n. 10679; Cass. civ., sez. III, 24 giugno 2001, 10086) è ormai pacifica nel ritenere che al contratto concluso con un professionista dall'amministratore di condominio si applica la disciplina di tutela del consumatore, agendo l'amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, che devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale.

Sul punto si richiama anche in questa sede la già citata decisione Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 2 aprile 2020, causa C-329-19, con la quale si è affermata la possibilità per gli Stati membri di estendere la portata della disciplina europea a tutela del consumatore, compatibilmente con i principi stabiliti dai Trattati, includendo in tale nozione, quindi, anche i contratti conclusi in nome e per conto del condominio. E ciò, come si è evidenziato, sulla base di quanto previsto dai Trattati che consentono agli Stati membri di mantenere o introdurre misure più rigorose a tutela dei consumatori, estendendo, quindi, in quest'ottica la nozione di consumatore anche a chi non è una persona fisica.

Si pone poi il problema, specie in dottrina, della possibilità di considerare quali «consumatori» gli imprenditori deboli.

La tematica è particolarmente sentita, considerato che sotto il profilo della giustizia sostanziale è assai frequente che anche nei rapporti tra imprese (cioè tra soggetti teoricamente di pari forza contrattuale) si verifichino abusi contrattuali e prevaricazioni da parte di quei soggetti in concreto più forti.

Tuttavia il fatto che le imprese siano persone giuridiche impedisce allo stato di considerarle quali consumatori ai sensi dell'art. 3, lett. a), d.lgs. 206/2005.

Parte della dottrina ritiene che non vi sia allo stato alcuno spazio per applicare in via estensiva - o meglio analogica - la disciplina consumeristica anche agli imprenditori deboli, atteso il dato normativo che non lascia margini di intervento per una simile interpretazione; al contempo una simile necessità neppure si porrebbe, perchè rientra nella fisiologia dei rapporti commerciali che vi sia una sperequazione tra imprese, di cui alcune più forti ed altre più deboli.

Altra parte della dottrina, invece, opta per una soluzione estensiva, coniando la figura del c.d. «terzo contratto», cioè quello che intercorre non già tra due soggetti di pari forza (quella del codice civile) né tra consumatore e professionista (d.lgs. 206/2005), ma tra due imprenditori di forza diversa.

Tanto si desumerebbe - oltre che da ragioni di giustizia sostanziale - alla luce delle molteplici normative in vari settori, che tengono conto anche delle imprese deboli: si pensi ad esempio alla l. n. 192/1998 sulla subfornitura, alla l. 129/2004 sull'affiliazione commerciale e al d.lgs. 231/2002 sui ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali, che offrono una peculiare protezione agli imprenditori deboli nelle dinamiche contrattuali con imprenditori forti.

Una significativa apertura rispetto alla possibilità di tutelare anche le imprese deboli può pero ricavarsi dalla importante modifica operata dalla disciplina di riforma della class action (l. 31/2019) che, all''art. 840-bis c.p.c., rubricato «Ambito di applicazione», al comma 1, dispone che «I diritti individuali omogenei sono tutelabili anche attraverso l'azione di classe, secondo le disposizioni del presente titolo». Da una prima lettura della norma, infatti, emerge la netta differenza con la previsione contenuta nei primi due commi dell'art. 140-bis c.p.c. che individuavano la categoria dei legittimati attivi circoscrivendola a quella dei soli utenti e consumatori; nella nuova norma, infatti, viene meno ogni riferimento ai consumatori, sostituita dal richiamo ai «diritti individuali omogenei», con la conseguenza che, in base alla nuova disciplina, l'esercizio della class action non richiede più la sussistenza di una condizione/qualità di tipo soggettivo, ma postula l'esercizio di una situazione giuridica soggettiva. Da ciò possono derivare conseguenze certamente rilevanti sul piano pratico come la possibilità di ritenere ammissibile la class action anche se proposta a tutela di situazioni scaturite da operazioni concluse per fini strumentali all'esercizio di un'attività professionale o imprenditoriale e anche se instaurata da parte di imprese nei confronti di altre imprese; in quest'ottica, quindi, la nuova class action può diventare proprio lo strumento di carattere generale teso a rimuovere quelle situazioni di forte disparità economica e contrattuale tra imprese che hanno condotto la dottrina ad interrogarsi circa la configurabilità di un c.d. «terzo contratto». Del resto, tale intenzione emerge in maniera esplicita dai lavori preparatori nei quali si fa espresso riferimento alla possibilità di proporre l'azione di classe anche da parte di piccole imprese nei confronti di imprese dotate di maggiore forza economica e contrattuale, con un richiamo, a titolo esemplificativo, alle piccole imprese agricole.

Ambito applicativo oggettivo del d.lgs. 206/2005

Individuata la nozione di «consumatore», occorre ora indagare su quale sia il campo di applicazione oggettivo della disciplina speciale contenuta nel d.lgs. 206/2005.

Non si tratta, quindi, di capire a quali soggetti tale normativa si applichi, ma a quali atti giuridici.

Nessun dubbio sussiste circa il fatto che l'ambito elettivo del Codice del Consumo sia costituito dal contratto come definito dall'art. 1321 c.c., quale naturale strumento fondato sull'accordo delle parti con cui il consumatore si procaccia beni e servizi ed il professionista li vende, appunto, al contraente debole.

Ciò si desume anche dal Titolo I contenuto nella Parte III del cod. cons., dedicato appunto ai «contratti del consumatore in generale»; la stessa disciplina delle clausole vessatorie (art. 33), dei poteri del giudice (art. 34) e delle nullità protettive (art. 36) ruota proprio attorno al contratto (di vendita e di servizi, anche di assistenza legale CGE, 15 Gennaio 2015, C537/13), quale naturale contesto in cui il consumatore può essere vittima di abusi da parte del professionista.

Anche con riguardo all'ambito oggettivo, però, deve registrarsi un trend giurisprudenziale volto ad ampliare il terreno di applicazione della disciplina contenuta nel Codice del consumo.

Così innanzitutto Cass. civ., sez. II, 30 aprile 2012, n. 6639 ha stabilito che la disciplina del consumatore - ed in particolare quella delle clausole vessatorie -si applica anche in caso di proposta irrevocabile di cui all'art. 1331 c.c. Il carattere innovativo della pronuncia de qua sta nell'aver esteso la disciplina consumeristica ad un negozio unilaterale quale la proposta irrevocabile, che esula dall'incontro del consensus in idem placitum tipico del contratto.

Una tale impostazione è sorretta innanzitutto dalla ratio degli artt. 33 e ss. del d.lgs. 206/2005, che è quella di garantire il consumatore dall'unilaterale predisposizione e sostanziale imposizione del contenuto negoziale da parte del professionista, quale possibile fonte di abusi sostanziantisi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale.

Da questo punto di vista la proposta irrevocabile crea un vincolo stabile per il suo autore (il consumatore nella specie) e, come tale, può risultare fortemente limitativo della sua autonomia privata.

Tecnicamente, poi, l'applicabilità degli artt. 33 e ss. d.lgs. 206/2005 alla proposta irrrevocabile è possibile grazie al viatico dell'art. 1324 c.c., che consente di applicare le norme sui contratti (tra cui rientrano anche quelli del consumatore) anche agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, quale certamente è la proposta irrevocabile.

Tale soluzione è poi confermata dall'art. 33, comma 2, lett. e) d.lgs. 206/2005, che prevede la vessatorietà presunta delle clausole con cui si consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata al consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere.

La disciplina del consumatore è dunque applicabile in presenza non solo di un contratto già concluso ed impegnativo per entrambi i contraenti, ma anche di un negozio preparatorio vincolante per il consumatore, quale quello discendente da una proposta irrevocabile.

In linea con quest'orientamento si pone il Trib. Taranto, sez. II, ord., 20 febbraio 2014, per cui l'art. 33 cod. cons. si applica in via diretta anche agli accordi cd. «preparatori», vale a dire quegli accordi che anticipano gli effetti del contratto e sono ad esso strumentali (preliminare, prenotazione dell'acquisto di un immobile mediante proposta irrevocabile rafforzata dal versamento di una caparra confirmatoria).

Non si tratta di applicare la disciplina consumeristica agli accordi preparatori in via analogica; questi, infatti, anticipano gli effetti del successivo contratto e, quindi, devono essere soggetti alla stessa disposizione di protezione prevista per il consumatore in caso di stipula del contratto definitivo. Non sarebbe infatti razionale ammettere la tutela del contraente debole per il contratto definitivo ed escluderla per quello preparatorio, che pure ne anticipa degli effetti ed è ad esso strumentale. Del resto, se fosse stato un atto unilaterale - ossia una fattispecie più lontana dal definitivo di quanto non accada per gli accordi preparatori - ai sensi dell'art. 1324 c.c. le norme sul consumatore potrebbero essere applicate anche agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, con risultati paradossali ed irragionevoli.

Sempre nell'ambito dei negozi preparatori si è anche affermata l'applicabilità degli artt. 33 e ss. del Codice del Consumo al preliminare di compravendita di beni immobili, nel caso in cui sia stipulato tra un professionista che lo stipuli nell'esercizio della propria attività imprenditoriale ed un altro soggetto che lo stipuli per esigenze estranee alla propria attività professionale e ciò senza che sia di ostacolo il fatto che le parti abbiano specificamente richiamato nel contrato la disciplina in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire (d.lgs. 122/2005), trattandosi di disciplina che può concorrere, qualora ne ricorrano i presupposti, con quella a tutela del consumatore «almeno in difetto di un rapporto di reciproca incompatibilità o esclusione» (Cass. Civ., sez. VI, 14 gennaio 2021, n. 497).

E ancora nell'ottica di ampliamento dell'ambito oggettivo di applicazione della disciplina consumeristica, Cass. civ., sez. VI-3, 8 luglio 2015, ord. n. 14287 ha stabilito che la disciplina consumeristica si applica anche ai contratti aleatori quale il gioco d'azzardo autorizzato. Il gioco e la scommessa sono oggi previsti e regolati dallo Stato, che da essi ricava consistenti introiti e, pertanto, vanno considerati come giochi legalmente autorizzati e pienamente tutelati. Ne consegue che alla luce dell'art. 49 Trattato CE queste attività vanno qualificate come «prestazioni di servizi» e, pertanto, soggette al d.lgs. 206/2005, perché in grado di dare vita ad un significativo squilibrio tra le parti, atteso che da un lato tali contratti sono predisposti unilateralmente e che dall'altro il contenuto del gioco rimane di solito sconosciuto al contraente-giocatore, stante la grave difficoltà (se non impossibilità) di reperire il testo e di prenderne cognizione. E così, più recentemente, si è affermata l'applicabilità della disciplina a tutela del consumatore anche alla fattispecie della compravendita di autovettura usata qualora ricorrano i presupposti di cui all'art. 128 del d.lgs. 206/2005 (Cass. civ., sez. II, 30 giugno 2020, n. 13148).

Il foro del consumatore

L'art. 33, comma 2, lett. u) d.lgs. 206/2005 contempla tra le clausole vessatorie presunte come tali iuris tantum quelle che stabiliscono come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore. Tale norma mira a rafforzare la posizione debole del consumatore, introducendo la tendenziale inderogabilità del c.d. «foro del consumatore», fatta salva l'ipotesi in cui la deroga convenzionale sia stata oggetto di trattativa individuale. Il carattere inderogabile del foro del consumatore si spiega nella prospettiva di facilitare l'azione e la difesa in giudizio del consumatore, che non deve vedere le sue ragioni di tutela pregiudicate - o comunque rese più difficoltose - dal fatto di doversi recare in un foro differente da quello in cui ha la residenza o il domicilio elettivo. La Suprema Corte è pacifica nel ritenere (ex multis Cass. civ., sez. VI, 12 dicembre 2015, n. 181; Cass. civ., sez. VI, 3 aprile 2013, n. 8167) che il foro del consumatore sia non solo inderogabile, ma anche esclusivo, per cui il foro del consumatore è esclusivamente quello che il consumatore può eleggere nell'atto della sua conclusione per tutte le vicende attinenti al contratto stesso, non avendo invece rilevanza l'individuazione del domicilio effettivo del consumatore in base al luogo di svolgimento della sua attività lavorativa.

Recentemente si è anche affermato che, ai fini della determinazione della competenza per territorio e della conseguente applicazione del criterio del c.d. foro del consumatore la qualità di consumatore si trasmette agli eredi, poiché in conseguenza del decesso dell'originario contraente non viene meno né il rapporto contrattuale di consumo, né la ratio alla base di tale regime di tutela, con la conseguenza che, in questo caso, il foro va individuato sulla base del luogo di residenza o domicilio dei successori universali del defunto (Cass. civ., sez. VI, 13 luglio 2018, n. 18579).

Quanto ai profili processuali, molteplici questioni di rilievo si pongono con riguardo al foro del consumatore. In particolare Cass. civ., sez. VI, 19 giugno 2014, n. 13944 ha stabilito che qualora il consumatore, nell'agire in giudizio, non si avvalga del foro a lui riferibile in tale qualità, la violazione della regola della competenza non è rilevabile dalla controparte, a cui vantaggio non opera, né d'ufficio dal giudice. Laddove poi il giudice adito declini comunque, su eccezione del convenuto, la propria competenza in favore di uno dei fori ordinari, nemmeno il giudice davanti al quale la causa è riassunta può rilevare l'applicazione del foro del consumatore, sicché l'ordinanza con cui solleva conflitto ex art. 45 c.p.c. va dichiarata inammissibile.

Cass. civ., sez. VI, 12 marzo 2014, n. 5705 si è occupata del caso in cui vi sia un cumulo soggettivo in cui sia coinvolta anche una causa in cui sia parte un consumatore. Per la Suprema Corte il cumulo soggettivo di domande è espressione di una mera connessione per coordinazione, in cui la trattazione simultanea dipende dalla sola volontà delle parti, e non consente la deroga alla competenza per territorio in favore di fori speciali, salvo che le cause non siano connesse o collegate da una relazione di evidente subordinazione. Ne consegue che, qualora una domanda abbia a oggetto un rapporto di consumo, opera, nei confronti di tutte le restanti parti, la deroga alla competenza per territorio in favore del foro del consumatore, in quanto foro più speciale e più inderogabile di ogni altro. Ancora, con riguardo al caso frequente nella prassi in cui un avvocato agisca nei confronti del proprio cliente per ottenere il pagamento degli onorari professionali, Cass. civ., sez. VI, 12 marzo 2014, n. 5703 ha stabilito che il foro del consumatore deve essere ritenuto prevalente rispetto a quello di cui può avvalersi l'avvocato che agisca nei confronti del proprio cliente al fine di ottenere il pagamento delle competenze professionali. Questo perché la competenza del giudice del luogo di residenza o di domicilio elettivo del consumatore è una competenza esclusiva, che prevale su ogni altra. Ulteriore problematica, poi, riguarda l'individuazione del soggetto cui incombe l'onere di eccepire che la controversia non rientra tra quelle «di consumo». L'orientamento dominante (ex multis Cass. civ., sez. VI, 14 febbraio 2014, n. 3539; Cass. civ., sez. VI, 7 marzo 2013, n. 5725) ove una domanda sia proposta invocando la sussistenza, dinanzi al giudice adito, del foro del consumatore, l'eccezione sulla competenza territoriale sollevata dal convenuto tesa a negare la qualificabilità e assoggettabilità della controversia - poiché non «di consumo» - a quel foro, implica, ove fondata, l'applicazione delle regole di competenza territoriale derogabile, con la conseguenza che la parte è tenuta a contestare la sussistenza, in capo al giudice adito, di tutti i possibili fori concorrenti per ragione di territorio derogabile, e ad indicare il diverso giudice competente secondo ognuno di essi, dovendo altrimenti ritenersi l'eccezione di incompetenza tamquam non esset, perché incompleta, e ciò anche quando il giudice adito ritenga che effettivamente la controversia non sia soggetta al foro del consumatore.

Consumatore e composizione della crisi da sovraindebitamento

La l. 221/2012 ha esteso il novero dei soggetti legittimati ad avvalersi della disciplina sulla ristrutturazione della crisi da sovraindebitamento anche al consumatore. La giurisprudenza civile (Cass. civ., sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1869) ha stabilito che ai fini della disciplina de qua la nozione di consumatore non ha riguardo in sé e per sé ad una persona priva, dal lato attivo, di relazioni d'impresa o professionali, invero compatibili se pregresse o attuali, purchè non abbiano dato vita ad obbligazioni residue, potendo il soggetto anche svolgere l'attività di professionista o imprenditore, esigendo l'art. 6, co. 2, lett. b) una specifica qualità della sua insolvenza finale, non potendo in essa comparire obbligazioni assunte per gli scopi delle predette attività o comunque non dovendo esse risultare più attuali. È invece consumatore solo il debitore, persona fisica, che risulti aver contratto obbligazioni - ancora insoddisfatte al momento della proposizione del piano - per far fronte ad esigenze personali o familiari o anche della più ampia sfera attinenti agli impegni relativi all'estrinsecazione della personalità sociale. La definizione di consumatore di cui all'art. 6, comma 2, lett. b), l. 3/2012 è dunque simile, seppur diversa, da quella di cui all'art. 3 lett. a) d. lgs. 206/2005. Entrambe le norme fanno riferimento ad una persona fisica ed all'estraneità degli scopi da questa perseguiti rispetto alla sua attività professionale, imprenditoriale o commerciale. Tuttavia mentre la norma del Codice del Consumo fa riferimento all'estraneità degli scopi della persona fisica rispetto al contratto concluso rispetto all'attività professionale o imprenditoriale del contraente, ciò che rileva ai fini della possibilità di ricorrere al piano di risanamento della crisi da sovraindebitamento è l'estraneità delle obbligazioni assunte e rimaste inadempiute rispetto all'attività d'impresa o professionale. In quest'ultimo caso, dunque, è ben possibile che la persona che intende avvalersi del meccanismo per comporre la crisi da sovraindebitamento svolga un'attività imprenditoriale, professionale o commerciale, purchè le obbligazioni assunte ed inevase non siano attinenti a tali tipi di attività.

La riforma della class action con la l. 31/2019: cenni generali

Nella prospettiva di rafforzare uno degli strumenti di minor utilizzo posto a tutela dei consumatori va inquadrata la riforma della class action ad opera della l. 31/2019 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 92 del 18 aprile 2019. Tra le innovazioni più significative operate da tale riforma si registra, tra l'altro, la già evidenziata estensione soggettiva dell'ambito di operatività dell'azione di classe, con l'eliminazione del riferimento alla categoria dei consumatori e la conseguente possibilità di agire con tale azione anche per le imprese le imprese «deboli» e l'estensione dell'ambito di operatività sul piano oggettivo, il che comporta la possibilità di esperirla non solo nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, ma anche in quelle di responsabilità extracontrattuale, sebbene limitatamente ai diritti di consumatori ed utenti finali da far valere nei confronti del produttore.

L'obiettivo dichiarato nei lavori preparatori della riforma è, d'altronde, quello di «trasfondere la disciplina dell'azione di classe, attualmente contenuta nel d.lgs. 206/2005 (cosiddetto Codice del Consumo), all'interno del codice di procedura civile», col fine di rendere l'istituto «più incisivo e l'applicazione più semplice», ossia «uno strumento di più ampia applicazione». E ciò al duplice scopo di rendere, da un lato, la tutela dei diritti lesi dei cittadini maggiormente effettiva (in ossequio al principio di effettività della tutela di cui all'art. 13 CEDU e 24 Cost.) e, dall'altro, di assicurare la correttezza del comportamento delle imprese sui mercati, che solo una più ampia diffusione della class action può consentire di realizzare. Sempre nell'ottica di rendere l'azione di classe uno strumento di tutela più efficace e suscettibile di realizzare, anche indirettamente, quella finalità di dissuasione delle imprese da comportamenti illegittimi di dimensione plurioffensiva, deve essere letta la possibilità, introdotta con la riforma, di aderire anche in un momento successivo all'emissione dell'ordinanza di ammissibilità dell'azione di classe. Con la riforma in esame, infatti, è introdotta la possibilità per i cittadini di aderire all'azione di classe già proposta da altri e che abbia trovato accoglimento in una sentenza favorevole, anche in un momento successivo, quindi, all'emissione di quest'ultima e non già, com'era possibile in base alla vecchia disciplina, solo entro il lasso di tempo immediatamente successivo all'emissione dell'ordinanza di ammissibilità dell'azione; ciò proprio allo scopo di incentivare le adesioni a tale azione in un momento in cui, essendo stata emessa la decisione, deve ritenersi accertata la responsabilità del soggetto convenuto in giudizio con la conseguenza che l'alea processuale è assente. Ulteriore innovazione è poi introdotta nella fase di esecuzione della sentenza e di liquidazione del danno: infatti, al fine di assicurare maggiore effettività alla tutela dei cittadini che agiscono con l'azione di classe, il legislatore della riforma ha scelto di disciplinare in maniera specifica e dettagliata anche la fase successiva all'emissione della sentenza, che, nel caso di esito favorevole del giudizio, si traduce in una vera e propria fase liquidatoria del danno. Si tratta di una disciplina completamente nuova, che, in parte, sembra evocare la gestione delle procedure concorsuali - in primo luogo quella contenuta nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza di cui al d.lgs. 14/2019 -, con la designazione di un giudice delegato e di un soggetto rappresentativo della pluralità degli aderenti all'azione di classe assimilabile, il rappresentante comune degli aderenti, che evoca la figura del curatore fallimentare. La soluzione legislativa di mutuare alcuni profili di disciplina tipici delle procedure concorsuali sembra potersi spiegare, con ogni probabilità, con l'esigenza comune alla procedura di liquidazione giudiziale e dell'azione di classe, di trovare meccanismi in grado di assicurare la tutela di una molteplicità di soggetti che, nella class action, sono i ricorrenti iniziali e gli aderenti (sia anteriori sia successivi alla sentenza di accoglimento). Dalla sintesi delle più importanti modifiche operate dalla riforma emerge, quindi, che con essa si dovrebbe conferire nuovo slancio all'istituto dell'azione di classe, il cui impatto pratico, però, non può ancora verificarsi considerato che a distanza di circa due anni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della l. 31/2019, la stessa non è ancora entrata in vigore essendo stata ulteriormente differita, da ultimo, come previsto dall'art. 26 del d.l. 149/2020 (c.d. Decreto Ristori-bis) al 19 maggio 2021.