L’applicazione cumulativa di misure cautelari

06 Luglio 2017

La primissima giurisprudenza di legittimità afferma che, a seguito dell'entrata in vigore della l. 47/2015, sarebbe stato sancito, da parte del Legislatore, un generale principio di cumulabilità delle misure cautelari, con possibilità di applicazione contestuale delle stesse in qualsiasi fase del procedimento (genesi, sostituzione in peius, sostituzione in melius). Prima dell'intervento risolutivo delle Sezioni unite del 2006, si contrapponevano in giurisprudenza due orientamenti ermeneutici esattamente antitetici. Secondo il primo, che poneva a fondamento del proprio assunto ...
Abstract

La primissima giurisprudenza di legittimità afferma che, a seguito dell'entrata in vigore della l. 47/2015, sarebbe stato sancito, da parte del Legislatore, un generale principio di cumulabilità delle misure cautelari, con possibilità di applicazione contestuale delle stesse in qualsiasi fase del procedimento (genesi, sostituzione in peius, sostituzione in melius).

Tuttavia, molteplici argomenti militano in senso contrario: vediamo quali.

Il cumulo cautelare prima della l. 47/2015

Prima dell'intervento risolutivo delle Sezioni unite del 2006, si contrapponevano in giurisprudenza, in tema di cumulabilità di più misure cautelari nei confronti del medesimo indagato, due orientamenti ermeneutici esattamente antitetici.

Secondo il primo, che poneva a fondamento del proprio assunto un sostanzialistico favor libertatis, era possibile l'applicazione di più misure cautelari diverse nei confronti del medesimo imputato (o indagato), nonostante l'assenza di un'esplicita, generale previsione normativa in tal senso, atteso che tale possibilità consentiva di evitare l'applicazione di un'unica misura ma ben più afflittiva, anche a carattere custodiale.

È stato, infatti, affermato che l'applicazione congiunta di misure coercitive tra loro compatibili deve ritenersi consentita anche fuori dalle ipotesi disciplinate dagli artt. 276 (trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura precedentemente imposta) e 307 c.p.p. (provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza termini), posto che la legge impone l'adozione del trattamento meno afflittivo tra quelli idonei ad assicurare le esigenze cautelari del caso di specie e che la combinazione tra i vincoli derivanti da più misure può consentire la rinuncia a provvedimenti di tipo custodiale altrimenti necessari (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 30 marzo 2004, n. 23826, Milloni; Cass. pen., Sez. V, 14 aprile 2000, n. 2361, Goglia e altri, in un caso di applicazione congiunta dell'obbligo di presentazione a un ufficio di polizia giudiziaria e del divieto di dimora, misure espressamente ritenute compatibili).

Secondo il contrapposto orientamento, invece, stante il tenore di numerose disposizioni codicistiche in materia cautelare, facenti riferimento sempre a un'unica misura applicabile nei confronti dello stesso soggetto, nonché il principio di stretta legalità in materia di limitazione della libertà personale e, soprattutto, data la presenza di due norme processuali (l'art. 276, comma 1, c.p.p. e l'art. 307, comma 1-bis, c.p.p.), che espressamente prevedevano, in ipotesi peculiari e circostanziate, la possibilità di cumulo, era da escludere la facoltà di procedere all'applicazione cumulativa di più misure cautelari, se non nei due casi espressamente previsti dalla legge.

In quest'ottica, è stato stabilito che, in ossequio al principio di legalità, le misure cautelari personali possono essere applicate esclusivamente nell'ambito di figure tassativamente definite; pertanto non è ammissibile l'applicazione simultanea, in un mixtum compositum, di due diverse misure tipiche, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili (cfr. Cass. pen., Sez. III, 4 maggio 2004, n. 37987, Mosca, in un caso relativo all'applicazione congiunta dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ex art. 282 c.p.p. e del divieto o obbligo di dimora ex art. 283 c.p.p.; Cass. pen., Sez. IV, 23 febbraio 2005, n. 32944, Pagliaro; Cass. pen., Sez. IV, 15 maggio 2003, n. 34380, Zazzaro, Rv. 226016: la Corte ha censurato l'ordinanza del giudice di merito con la quale erano state applicate congiuntamente a un imputato, scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, in ordine al reato di cui all'art. 73 d.P.R. 309/1990, le misure dell'obbligo di dimora e dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria; Cass. pen., Sez. II, 29 novembre 2001, n. 641, Colella e altro, in cui la Corte ha rilevato come l'art. 2, comma 6, d.l. 341/2000, conv. in l. 4/2001, attraverso l'introduzione dell'art. 307, comma 1-bis, c.p.p., abbia affiancato all'unica previsione autorizzativa preesistente — l'art. 276 c.p.p. in materia di violazione delle prescrizioni concernenti una misura cautelare — il caso delle misure non detentive applicate dopo la decorrenza del termine massimo di custodia, per la sola eventualità che si proceda con riguardo ai gravi delitti elencati all'art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p., e come proprio tale specifica delimitazione dei casi di applicazione congiunta escluda che possa prospettarsi una regola generale di possibile coesistenza delle misure cautelari non detentive).

Proprio questo secondo orientamento è quello accolto dalla sentenza delle Sezioni unite che, nel 2006, pone termine (fino all'avvento della l. 47/2015) alla discussione.

Il Supremo Consesso ha, infatti, affermato che l'applicazione cumulativa di misure cautelari personali può essere disposta soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge agli artt. 276, comma 1, e 307, comma 1-bis, c.p.p., precisando che, al di fuori dei casi in cui siano espressamente consentite da singole norme processuali, non sono ammissibili né l'imposizione aggiuntiva di ulteriori prescrizioni non previste dalle disposizioni regolanti le singole misure, né l'applicazione congiunta di due distinte misure, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili (cfr. Cass. pen., Sez. unite, 30 maggio 2006, n. 29907, La Stella).

La Corte, nell'argomentare la propria adesione all'indirizzo più rigoroso, che esclude l'esistenza di una generalizzata facoltà di applicazione congiunta di più misure cautelari nei confronti del medesimo soggetto, prende le mosse dal principio di stretta legalità, affermato, in materia cautelare, dall'art. 272 c.p.p., secondo cui «le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo».

Viene chiarito, inoltre, il reale contenuto della disposizione in esame, rilevando che, quella espressa dall'art. 272 c.p.p. non è la mera sottolineatura della necessità di previsione legale, che già scaturisce dalla doppia riserva, di legge e di giurisdizione, dettata dall'art. 13, comma 2, Cost. per ogni forma di compressione della libertà personale ma la volontà legislativa di contenere in un numerus clausus, le misure limitative della libertà personale, in fase cautelare, nell'ambito di un procedimento penale, con la conseguenza che non possono essere applicate misure diverse da quelle espressamente considerate.

Si spiega che è soprattutto attraverso l'utilizzo dell'avverbio soltanto che il principio di legalità esprime anche quello di tassatività, rivolto a vincolare rigorosamente alla previsione legislativa l'esercizio della discrezionalità del giudice in materia di limitazioni, di per sé eccezionali, della libertà della persona.

L'art. 272 c.p.p., pertanto, rende tipiche e nominate le misure cautelari personali, così come parimenti tipici e nominati sono i casi, le forme e i presupposti che ne legittimano l'adozione.

Conseguentemente, in ossequio ai richiamati principi di stretta legalità, tassatività e tipicità, non può che concludersi che, al di fuori dei casi in cui risultano espressamente previste da specifiche norme processuali, non sono ammissibili tanto l'imposizione aggiuntiva di ulteriori prescrizioni non previste dalle disposizioni regolanti le singole misure, quanto l'applicazione congiunta di due distinte misure, omogenee o eterogenee, che pur siano tra loro astrattamente compatibili.

Tale applicazione potrebbe infatti determinare la creazione, in un mixtum compositum, di una nuova misura non corrispondente al paradigma normativo tipico. È, in definitiva, inibito al giudice creare ex novo, attraverso l'osmosi e il cumulo di più prescrizioni o misure, ulteriori “tipi”, estranei alla pur vasta gamma degli specifici modelli, coercitivi e interdittivi, normativamente predisposti.

Appare assai significativo rilevare che la predetta sentenza fa riferimento a un caso di sostituzione (in melius, almeno in linea teorica) della misura degli arresti domiciliari, con imposizione degli obblighi congiunti di presentazione alla polizia giudiziaria e di dimora, con il divieto di allontanarsi dall'abitazione nelle ore notturne. Il provvedimento di sostituzione veniva impugnato in Cassazione proprio dalla difesa dell'imputato, con conseguente annullamento: il caso in questione offre più di uno spunto di riflessione su cosa possa essere considerato meglio o peggio per l'imputato, anche nel confronto tra un'unica misura custodiale e un coacervo di misure che, seppur non custodiali, sono cumulativamente in grado di limitare profondamente la libertà del soggetto attinto. Tale valutazione di convenienza, peraltro, non può non tenere conto della rilevante circostanza che l'applicazione di un'unica misura custodiale verrà valutata, in fase esecutiva, come presofferto, mentre un cumulo di misure coercitive non custodiali no.

Si può rilevare, pertanto, come la libertà di cumulo giustificata, in passato, da parte della giurisprudenza di legittimità, come un importante strumento favor libertatis, in una prospettiva di riduzione del ricorso alle misure custodiali, sia in realtà suscettibile di tradursi, svincolata da parametri oggettivi di riferimento, in una pesante clava contro l'imputato, che potrebbe ritrovarsi a subire restrizioni della libertà pari, se non maggiori, rispetto a quelle imposte da misure custodiali, senza neppure poter beneficiare del periodo trascorso in regime cautelare come presofferto.

Le modifiche introdotte dalla riforma del 2015

Gli arresti giurisprudenziali successivi della Suprema Corte si sono attenuti al decisum delle Sezioni unite, senza particolari sforzi argomentativi e senza alimentare un dibattito ormai sopito da anni, sino ad arrivare all'entrata in vigore della l. 47/2015, che modifica la disciplina in materia tanto da ingenerare in alcuni commentatori il dubbio in ordine all'introduzione di una generalizzata facoltà di applicazione cumulativa di misure cautelari.

Vengono in rilievo, in particolare, due norme della l. 47/2015: l'art. 3, che modifica il primo periodo dell'art. 275, comma 3, c.p.p., e l'art. 9, che interviene a integrare il disposto dell'art. 299, comma 4, c.p.p.

Orbene, il nuovo primo periodo del terzo comma dell'art. 275 c.p.p. (Criteri di scelta delle misure), così recita: «La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate».

Correlativamente, il quarto comma dell'art. 299 c.p.p. (Revoca e sostituzione delle misure) statuisce: «Fermo quanto previsto, dall'art. 276, quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con un'altra più grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalità più gravose o applica congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva».

A seguito delle modifiche normative apportate dalla l. 47/2015, pertanto, da un lato, la misura massima della custodia cautelare in carcere può essere applicata solo se le altre misure risultino inadeguate: rispetto alla disciplina previgente, però, la verifica dovrà essere effettuata non soltanto con riferimento a ciascuna singola misura cautelare ma anche in relazione alle altre misure cautelari cumulate tra loro, con un significativo cambio di prospettiva; dall'altro, qualora le esigenze cautelari risultino aggravate, il giudice potrà, non soltanto sostituire la misura in corso di esecuzione con un'altra più grave o disporne l'applicazione con modalità maggiormente afflittive, ma anche applicare, in aggiunta, altra misura coercitiva o interdittiva.

L'affermazione di un “generale principio di cumulabilità” secondo la giurisprudenza della Cassazione

Nella prima pronuncia con la quale la Suprema Corte si è misurata direttamente con le modifiche apportate dalla l. 47/2015 in materia di cumulo di misure cautelari, i giudici di legittimità hanno affermato che il predetto testo normativo ha apportato un radicale cambiamento alla disciplina previgente, tanto da affermare una generale facoltà di applicazione congiunta delle misure.

La Corte giunge a tale conclusione sulla base di tre argomentazioni:

a) lettura sistematica e non atomistica: secondo il Supremo Consesso, le innovazioni normative introdotte dalla l. 47/2015 agli artt. 275, comma 3, e 299, comma 4, c.p.p. vanno lette e interpretate sistematicamente, considerandole in maniera unitaria; in particolare, si evidenzia come la modifica dell'art. 275, comma 3, c.p.p. abbia esteso la possibilità di cumulo in fase genetica, di applicazione del regime cautelare, mentre, in precedenza, essa era limitata alla sola fase dinamico-evolutiva di sostituzione di una misura già in atto; quanto all'interpolazione dell'art. 299, comma 4, c.p.p., si rileva come, prevedendo la possibilità di cumulo, si sia posto l'accento sui canoni di adeguatezza e proporzionalità del trattamento cautelare;

b) interpretazione costituzionalmente orientata: la Corte osserva come entrambe le modifiche normative in tema di cumulo muovano da una comune ratio rappresentata dallo scopo di assicurare una più pregnante tutela del minor sacrificio della libertà personale, principio, questo, che deve guidare anche l'interprete valorizzando la logica dell'art. 13 della Carta fondamentale, che impone di individuare, fra più interpretazioni, quella che riduca al minimo il sacrificio per la libertà personale, anche grazie all'ampliamento, da parte del Legislatore, della gamma graduata delle misure cautelari adottabili;

c) principio di ragionevolezza: i giudici affermano che tali considerazioni « ;conducono ad escludere che la collocazione della modifica di cui all'art. 9 della l. 47 cit. nel corpo del solo comma 4 dell'art. 299 c.p.p. sia di ostacolo all'applicabilità congiunta di altre misure cautelari anche nel caso di sostituzione della misura di cui al comma 2 dello stesso art. 299 c.p.p. Una diversa interpretazione, del resto, metterebbe in luce profili di tensione della disciplina della revoca e della sostituzione delle misure già sul piano della ragionevolezza della differenziazione tra la disciplina della sostituzione per aggravamento delle esigenze cautelari (arricchita dalla possibile applicazione congiunta di più misure) e quella della sostituzione ex art. 299, comma 2, c.p.p. (che di tale possibilità non potrebbe giovarsi) ;» (cfr. Cass. pen., Sez. V, del 23 novembre 2016 n. 6790, Musumeci, con la quale è stata ritenuta legittima la sostituzione, ai sensi dell'art. 299, comma 2, c.p.p., dunque in melius, della misura degli arresti domiciliari con quelle, congiuntamente applicate, dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e dell'obbligo di dimora nel comune di residenza; la pronuncia in questione è stata successivamente richiamata da Cass. pen., Sez. V, 7 febbraio 2017, n. 22228, Basile).

Nella medesima pronuncia, la Corte individua, però, un duplice limite all'applicabilità cumulativa delle misure cautelari:

  • «nell'ipotesi di cui all'art. 299, comma 2, c.p.p., il limite del favor rei, nel senso che le misure congiuntamente applicate non possono determinare una condizione di maggior afflittività per l'imputato»;
  • «su un piano generale, l'ulteriore limite in forza del quale il cumulo deve riguardare solo misure applicate nei contenuti coercitivi o interdittivi previsti dalla legge».

La sentenza della Corte non appare condivisibile.

A parere di chi scrive, non può tuttora ritenersi che il Legislatore abbia voluto affermare un generale principio di cumulabilità delle misure cautelari, lasciando al giudice la più ampia discrezionalità di applicazione congiunta, in qualsiasi fase del procedimento (genetica ed evolutiva) e a prescindere dalla misura richiesta dal pubblico ministero o eventualmente già applicata (carcere o diversa misura cautelare).

La riforma del 2015 ha aggiunto, alle due ipotesi di cumulo specificamente previste in precedenza, altre due ipotesi di possibile applicazione congiunta e contestuale di più misure nei confronti del medesimo indagato; trattasi, pur sempre, di ipotesi specifiche e puntuali, non estensibili analogicamente e che, pur complessivamente considerate, non integrano una regola di carattere generale:

1) art. 275, comma 3, c.p.p. (ipotesi anti-carcere): al fine di evitare l'applicazione della misura cautelare massima della custodia in carcere (ed esclusivamente quella: è dunque necessario che il pubblico ministero procedente avanzi richiesta di applicazione della misura inframuraria), è consentito al giudice della cautela fare ricorso a un cumulo di misure alternative; la norma, che pure è inserita in un articolo che contiene, almeno nei primi commi, disposizioni di carattere generale, si riferisce testualmente e specificamente alla custodia cautelare in carcere; ciò significa che il giudice può fare ricorso, a propria discrezione, all'applicazione congiunta di diverse misure, ma solo qualora ciò si renda necessario ad evitare la comminatoria della misura massima della custodia inframuraria;

2) art. 276, comma 1, c.p.p. (ipotesi dell'aggravamento sanzionatorio): in caso di violazione delle prescrizioni attinenti a una misura cautelare precedentemente applicata, il giudice può ricorrere al cumulo di misure; si tratta di una fattispecie circoscritta e puntuale, che ricorre esclusivamente in ipotesi di inottemperanza a una precedente misura cautelare; inoltre, il cumulo facoltizzato dal Legislatore è comunque “vincolato”, dovendo necessariamente comprendere la misura violata, la quale, pertanto, può semplicemente essere sostituita con una più grave, anche di specie diversa, o cumulata con altra (in generale: «il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo con altra più grave»; se ad essere violata è una misura interdittiva: «il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo anche con una misura coercitiva»); non si tratta, dunque, di una libertà di cumulo assoluta, bensì agganciata a precisi parametri normativi e dagli stessi specificamente circoscritta;

3) art. 299, comma 4, c.p.p. (ipotesi dell'aggravamento cautelare): se le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può sostituire la misura applicata con un'altra più grave ovvero disporne l'applicazione con modalità più gravose o applicare congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva; la norma, applicandosi a prescindere dalla misura cautelare originariamente adottata, riguarda il solo aggravamento delle esigenze di cautela, non anche il loro affievolimento; non è consentito, dunque, in presenza di una regressione delle esigenze di tutela rilevate, sostituire una misura cautelare con altre misure, meno afflittive, cumulativamente applicate, militando in tal senso il tenore del secondo comma del medesimo art. 299 c.p.p., relativo al caso dell'affievolimento delle esigenze cautelari che, rimasto assolutamente identico anche a seguito dell'entrata in vigore della l. 47/2015, consente al giudice solo di sostituire la misura con un'altra meno grave ovvero di disporne l'applicazione con modalità meno gravose, ma non di sostituire la misura originaria con un cumulo di misure, seppur meno afflittive; appare evidente che, qualora il Legislatore avesse inteso prevedere la possibilità di cumulo anche in ipotesi di degradazione delle esigenze cautelari, con una sostituzione in melius per l'indagato, l'avrebbe espressamente previsto con una modifica dell'art. 299, comma 2, c.p.p., proprio come ha fatto, invece, per l'ipotesi di aggravamento, interpolando l'art. 299 comma 4, c.p.p.; tale asimmetria rappresenta, a parere di chi scrive, uno dei principali argomenti a sostegno della tesi della mancata introduzione di una generalizzata licenza di cumulo;

4) art. 307, comma 1-bis, c.p.p. (ipotesi della scarcerazione per decorrenza dei termini): in caso di scarcerazione dell'indagato per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare ed esclusivamente qualora si proceda per taluno dei reati indicati nell'art. 407, comma 2, lettera a) il giudice dispone le misure cautelari del divieto di espatrio, dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e del divieto o obbligo di dimora anche cumulativamente; anche in tal caso, trattasi di disposizione puntuale che circoscrive la possibilità di cumulo a specifiche misure (solo le tre dettagliatamente indicate, non altre) e solo qualora il procedimento abbia ad oggetto uno dei gravi reati indicati dall'art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p. (non altri).

Se è vero, come afferma la Corte, che le innovazioni introdotte dalla l. 47/2015 (modifiche agli artt. 275, comma 3, e 299, comma 4, c.p.p.) non possono essere lette atomisticamente ma devono considerarsi congiuntamente, viene in rilievo la necessità di inquadrare, in una prospettiva compiutamente sistematica, le nuove disposizioni nel più ampio contesto normativo di riferimento, comprensivo dei richiamati artt. 276, comma 1, e 307, comma 1-bis, c.p.p., né abrogati, né modificati dalla riforma del 2015.

La lettura di tutte le norme in questione, con la relativa cesellatura dei casi e delle ipotesi in cui è possibile fare ricorso al cumulo di misure, induce a escludere che, pur a seguito dell'entrata in vigore della l. 47/2015, sia stato sancito un principio generale di applicabilità congiunta delle misure cautelari. Al contrario, pare che il giudice possa fare ricorso al cumulo esclusivamente nei casi previsti dalla legge, con tutte le limitazioni dalla stessa contemplate e sopra richiamate, in virtù delle singole norme legittimanti.

Anche l'invito rivolto dalla Suprema Corte, assolutamente condivisibile in linea di principio, a una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in esame impatta con l'ostacolo (insormontabile, a parere di chi scrive) del tenore letterale delle stesse: chiaro in tal senso il richiamo alla sola custodia carceraria contenuto nell'art. 275, comma 3, c.p.p., così come la netta differenziazione esistente tra i commi secondo e quarto dell'art. 299 c.p.p..

Proprio sotto quest'ultimo profilo, inoltre, non appaiono condivisibili i dubbi di irragionevolezza paventati dalla Corte in merito alla differenziazione di disciplina dettata dai suindicati due commi dell'art. 299 c.p.p., in considerazione della possibilità di cumulo prevista dal quarto comma e non, invece, dal secondo.

Si tratta, infatti, di disposizioni che disciplinano due fattispecie, non soltanto diverse ma addirittura antitetiche:

a) il quarto comma dell'art. 299 c.p.p. prevede, in ipotesi di aggravamento delle esigenze cautelari, la possibilità di sostituire la misura già applicata con un'altra più grave ovvero di disporne l'applicazione con modalità più gravose o di applicare, congiuntamente alla misura preesistente, un'altra misura coercitiva o interdittiva;

b) il secondo comma del medesimo articolo disciplina l'ipotesi inversa, in cui le esigenze cautelari non risultano aggravate, bensì attenuate: il Legislatore prevede, pertanto, la facoltà di sostituire la misura in atto con un'altra meno grave ovvero di disporne l'applicazione con modalità meno gravose; non è prevista, invece, la possibilità, in presenza di un affievolimento delle esigenze di cautela, di disporre l'applicazione di più misure in sostituzione dell'unica precedentemente applicata.

La scelta del Legislatore non appare, dunque, irragionevole, perseguendo lo scopo di costringere il giudice, in presenza di una degradazione delle esigenze cautelari, a scegliere un'unica misura meno afflittiva da sostituire alla precedente, determinando, in tal modo, l'applicazione di un regime cautelare certamente più mite, senza alcun ulteriore spazio valutativo.

Si giunge così al limite fondamentale individuato dalla Corte all'applicabilità cumulativa di più misure cautelari: il principio del favor rei.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, in ipotesi di sostituzione in melius (ai sensi dell'art. 299 comma 2 c.p.p.) di un'unica misura con più misure applicate congiuntamente (statuizione ritenuta legittima dalla Suprema Corte), il giudice dovrebbe, auto-limitandosi, non applicare un cumulo di misure che reputi, evidentemente secondo il suo discrezionale apprezzamento, maggiormente afflittivo rispetto all'unica misura cautelare precedentemente applicata.

La giurisprudenza della Corte, pertanto, non sancisce solo la generale cumulabilità delle misure cautelari, ma anche il potere del giudice di decidere quando un cumulo di misure debba essere considerato maggiormente afflittivo rispetto alla misura in atto, in assenza di qualsiasi parametro normativo in grado di orientare tale valutazione.

Per contro, qualora si opti per la soluzione interpretativa della persistente tassatività delle ipotesi di applicazione congiunta delle misure cautelari, non si pone alcun problema di valutazione (eccessivamente) discrezionale, dovendosi escludere che al giudice sia stato riconosciuto un tale potere.

Invero:

a) art. 275, comma 3, c.p.p.: il Legislatore statuisce inequivocabilmente che qualsiasi possibile cumulo di altre misure è preferibile all'applicazione della custodia carceraria;

b) art. 276, comma 1, c.p.p.: in ipotesi di aggravamento sanzionatorio, è consentito al giudice solo adottare una misura più grave rispetto a quella violata o associare a questa un'altra misura; trattandosi di modifica in peius, non si pone alcun problema di individuazione del tetto massimo di afflittività lasciata alla discrezionalità del giudice, potendo trovare applicazione anche la misura massima della custodia carceraria;

c) art. 299, comma 4, c.p.p.: anche in ipotesi di aggravamento cautelare, i poteri del giudice sono circoscritti e predeterminati; egli potrà solo sostituire la misura in corso con altra più afflittiva (o con modalità maggiormente gravose) oppure applicare, in aggiunta alla prima, un'ulteriore misura; anche in questo caso, trattandosi di modifica in peius, valgono le considerazioni svolte per l'art. 276, comma 1, c.p.p.;

d) art. 307, comma 1-bis, c.p.p.: anche in ipotesi di scarcerazione per decorrenza dei termini, da ultimo, i poteri in materia di cumulo affidati al giudice risultano assolutamente delimitati e circoscritti, sia con l'indicazione del reato che deve essere oggetto del procedimento (solo i reati indicati nell'art. 407, comma 2, lettera a) c.p.p.), sia in relazione alle misure cautelari cumulabili (solo divieto di espatrio, obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e divieto o obbligo di dimora).

Si tratta di un'ulteriore considerazione che induce a escludere l'introduzione, ad opera della l. 47/2015, di una generale cumulabilità delle misure cautelari: la tesi propugnata dalla Cassazione, infatti, prevedendo (com'è inevitabile che sia) il limite del favor rei, lasciato alla discrezionalità del giudice e svincolato da qualsiasi parametro normativo, risulta stridere con le puntuali e specifiche previsioni codicistiche in materia di cumulo, che sembrano ritagliare al giudice un ruolo ben più circoscritto e legislativamente predeterminato, rispetto a quanto sostenuto.

Valgono, in aggiunta a ciò che si è appena rilevato, gli stessi argomenti sostenuti nella sentenza a Sezioni Unite del 2006: il principio di stretta legalità, le norme generali in materia cautelare, che fanno riferimento all'applicazione di un'unica misura, e la previsione di specifiche disposizioni che contemplano la possibilità di cumulo solo in casi particolari escludono, anche a seguito della riforma del 2015, che esista una regola generale che facoltizza il giudice all'applicazione congiunta di misure cautelari.

I provvedimenti adottabili in ipotesi di sostituzione in melius di una misura preesistente

In definitiva, pare potersi affermare — almeno secondo l'interpretazione suindicata — che, mentre l'applicazione di un cumulo di misure (nei termini ed entro i limiti di cui si è detto) è possibile in ipotesi di aggravamento delle esigenze cautelari ex art. 299, comma 4, c.p.p., lo stesso non può dirsi nel caso in cui i pericula libertatis, anziché acuirsi, si siano affievoliti (ipotesi disciplinata dall'art. 299, comma 2, c.p.p.).

Sembra potersi fare eccezione per l'unico caso in cui la misura in corso di esecuzione sia costituita dalla custodia in carcere: in questa ipotesi, infatti, non può non essere riconosciuta una vis expansiva al disposto di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. (come novellato dalla l. 47/2015). In altri termini, se lo scopo che ha mosso il Legislatore, come si è detto, è quello della più piena affermazione del principio della extrema ratio della custodia in carcere, quest'ultimo non può essere confinato alla sola fase genetica, ma deve trovare attuazione anche in fase dinamica, in ipotesi di sostituzione della misura massima prevista dall'ordinamento.

La possibilità di chiedere l'applicazione di un cumulo di misure cautelari

Affermata — secondo la tesi propugnata — l'insussistenza di un principio generale di cumulabilità, sembra doversi escludere, infine, che il pubblico ministero possa, formulando la domanda cautelare, chiedere direttamente e unicamente l'applicazione congiunta di più misure cautelari.

Anche in tal caso, muovendo dal principio di extrema ratio della custodia inframuraria e dal chiaro tenore letterale dell'art. 275, comma 3, primo periodo c.p.p., non può non rilevarsi come il cumulo venga indicato dal Legislatore come il male minore rispetto all'applicazione della sola misura massima. Pertanto — a parere di chi scrive — può ritenersi consentito esclusivamente che la pubblica accusa, avanzando l'istanza, chieda, in via principale, l'applicazione della misura carceraria e, solo in via subordinata, suggerisca al giudice un cumulo di misure cautelari che, in via gradata e in ipotesi di non accoglimento della richiesta principale, scongiuri i pericula libertatis rilevati.

Solo una richiesta così articolata, infatti, prefigura e giustifica il ricorso al cumulo in termini di extrema ratio, allo scopo di evitare l'applicazione della misura inframuraria.

In conclusione

In sostanza, al quesito sottoposto all'esame delle Sezioni unite nel 2006 (« ;se l'applicazione cumulativa di misure coercitive sia sempre consentita ovvero possa essere disposta soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge») occorre, ancora oggi, replicare negli stessi termini in cui ha risposto allora il Supremo Consesso. Ciò che è intervenuto, a seguito dell'entrata in vigore della l. 47/2015, è l'ampliamento del novero delle ipotesi in cui è possibile fare ricorso all'applicazione cumulativa di misure cautelari (le quattro sopra elencate, con arricchimento delle due precedentemente esistenti), ma si tratta, come in passato, di casi specifici e puntuali (da cui non si può trarre una regola generale), i quali, anzi, con le loro limitazioni, puntualizzazioni, precisazioni, persuadono definitivamente che si ha a che fare con ipotesi tassativamente previste, in omaggio ai principi di tipicità e legalità che sovrintendono la materia cautelare penale.

Muovendo da tale assunto, quindi, è da escludere che, al di fuori dei casi espressamente previsti dal Legislatore, il giudice possa, non soltanto dare corso all'applicazione congiunta di più misure distinte, omogenee o eterogenee, pur astrattamente compatibili, ma anche all'imposizione aggiuntiva di ulteriori prescrizioni non previste dalle disposizioni regolanti le singole misure.

In entrambi i casi, infatti, si finirebbe col creare delle figure composite ibride, di origine squisitamente giurisprudenziale, senza una norma specifica o un principio di carattere generale in grado di legittimare l'elaborazione di nuovi e atipici strumenti di restrizione della libertà personale.

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