Il divieto di ne bis in idem tra favoreggiamento personale aggravato ex art. 7, l. 203/1991 e concorso esterno in associazione mafiosa

Marco Siragusa
07 Ottobre 2015

Il delitto di favoreggiamento personale aggravato dall'agevolazione mafiosa presenta elementi di forte affinità con il delitto di concorso esterno nel reato associativo. Il criterio che consente di distinguere nel caso concreto tra un concorso apparente di norme e un concorso formale risiede nelle modalità della condotta agevolatrice che, nel caso del favoreggiamento, è rivolta a favorire il mafioso, nel caso del concorso esterno, è rivolta ad avvantaggiare con diretta consapevolezza la consorteria criminale.
Abstract

Il delitto di favoreggiamento personale aggravato dall'agevolazione mafiosa presenta elementi di forte affinità con il delitto di concorso esterno nel reato associativo.

Il criterio che consente di distinguere nel caso concreto tra un concorso apparente di norme e un concorso formale risiede nelle modalità della condotta agevolatrice che, nel caso del favoreggiamento, è rivolta a favorire il mafioso, nel caso del concorso esterno, è rivolta ad avvantaggiare con diretta consapevolezza la consorteria criminale.

Laddove la condotta agevolatrice non presenti elementi di vantaggio diretti a favorire l'associazione criminale, e sia dunque identica dal punto di vista probatorio e storico-naturalistico a quella già giudicata in un altro processo, dovrà ritenersi precluso il secondo giudizio per violazione del divieto di cui all'art. 649 c.p.p.

Il caso

Salvatore Cuffaro è stato condannato per i reati di rivelazione di segreti d'ufficio e favoreggiamento personale aggravati dal fine di agevolazione dell'organizzazione mafiosa “cosa nostra”. Durante la celebrazione di quel processo, e non ancora divenuta definitiva la condanna, la Procura della Repubblica di Palermo ne aveva chiesto il rinvio a giudizio anche per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa (artt. 110 e 416-bis c.p.).

Quest'ultimo titolo di reato costituiva l'ipotesi sulla quale erano state avviate le indagini. Nel corso di quest'ultime si era però proceduto allo stralcio del procedimento in due tronconi: nel primo, i fatti erano stati sussunti nei delitti di rivelazione di segreti d'ufficio e favoreggiamento personale aggravati ex art. 7, d.l. 152/1991 (conv. l. 203/1991) ed era stata esercitata l'azione penale; nel secondo procedimento, quello con la contestazione originaria di concorso esterno, era stata disposta l'archiviazione e, in seguito, riaperte le indagini, era stata esercitata l'azione penale.

Nel nuovo processo si era dunque, sin da subito, posta la questione della duplicazione dei giudizi.

La soluzione della questione di litispendenza

Al momento del rinvio a giudizio per il secondo processo (concorso esterno), il primo processo (rivelazione e favoreggiamento aggravati) pendeva in appello ed era dunque inapplicabile l'art. 28 c.p.p., pur ricorrendo una chiara ipotesi di litispendenza.

La difesa aveva eccepito il ne bis in idem e il giudice procedente, richiesto di pronunciarsi in via immediata dall'ufficio di Procura sull'eccezione, aveva dichiarato il “non luogo a provvedere [ex art. 129 c.p.p.] riservando ogni valutazione alla fase della decisione finale”.

In effetti, l'eccezione difensiva era stata correttamente avanzata nel giudizio di merito, giacché ne è preclusa la deduzione in sede di impugnazione oppure, per la prima volta, in sede di legittimità. Com'è noto è indifferente che la prima sentenza di condanna non sia ancora passata in giudicato in ossequio all'efficacia estensiva della regola del 649 c.p.p. (cfr. La portata del divieto di ne bis in idem rispetto alla sentenze non ancora irrevocabili).

Tuttavia, una volta ammesso l'imputato al giudizio abbreviato, la decisione sul divieto del secondo giudizio doveva intervenire ai sensi dell'art. 529 c.p.p. e la sentenza aveva correttamente pronunciato il non liquet sulla richiesta ex art. 129 c.p.p. sollecitata in via preliminare.

Presupposti del ne bis in idem

La qualificazione giuridica dei fatti contestati al Cuffaro aveva dato luogo a contrasti interni allo stesso ufficio di Procura durante tutto lo svolgimento dei procedimenti (sia quello originario che quello stralciato). Le divergenze di vedute erano state chiarite tanto in sede di presentazione della richiesta di archiviazione, quanto durante la celebrazione del primo processo per favoreggiamento aggravato. In quest'ultimo, non vi era mai stata la modificazione dell'imputazione.

Durante la celebrazione del giudizio abbreviato relativo al secondo processo, la prima sentenza di condanna era frattanto divenuta definitiva e il giudice del secondo processo aveva concluso per la identità dei fatti ed aveva dichiarato il non doversi procedere per ne bis in idem.

Com'è noto nei reati associativi la verifica sull'identità del fatto, ai fini della declaratoria di ne bis in idem, impone la valutazione dei segmenti della condotta presi in esame dalla sentenza passata in giudicato, per verificarne la sovrapponibilità rispetto alla contestazione del secondo giudizio. Ove sia accertata la sovrapponibilità, opererà il divieto del secondo giudizio (Cass. pen., Sez. I, 5 marzo 2008, n. 12700).

Al riguardo, sono indifferenti le norme di legge violate, indicate nel primo titolo passato in giudicato, dovendosi piuttosto valutare il fatto nei suoi elementi di condotta, rapporto di causalità ed evento. Ne segue che al giudice del secondo processo è certamente precluso l'esame del medesimo fatto già giudicato, ma non anche la valutazione della sua portata probatoria ai fini della verifica di sussistenza del reato associativo. E ciò perché nei reati associativi rileva l'elemento partecipativo, anche eventuale, che rimane distinto dai reati fine consumati attraverso la partecipazione associativa. A ben vedere, però, in casi simili si versa in un'ipotesi di fatto diverso, con la conseguenza che non appare elidente il riferimento a quell'orientamento secondo il quale “l''inammissibilità di un secondo giudizio per lo stesso reato non vieta di prendere in considerazione lo stesso fatto storico, o particolari suoi aspetti, per valutarli liberamente ai fini della prova concernente un reato diverso da quello giudicato, in quanto ciò che diviene irretrattabile è la verità legale del fatto-reato, non quella reale del fatto storico” (Cass., Sez. un., 23 novembre 1995 n. 2110).

Favoreggiamento e concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, tra concorso formale eterogeneo e concorso apparente di norme: le ragioni della declaratoria ex art. 649 c.p.p.

L'identità probatoria dei due processi non è, di per se stessa, sufficiente a risolvere la verifica d'identità del fatto.

Del resto, tra il reato di favoreggiamento aggravato dall'agevolazione dell'associazione criminale e il reato di concorso eventuale nell'associazione mafiosa, esistono evidenti punti di contatto e di sovrapponibilità che rendono molto labile la linea di demarcazione. Com'è noto, le difficoltà interpretative sono figlie della “fonte giurisprudenziale” da cui origina il delitto di concorso eventuale nel delitto associativo mafioso.

Secondo il tradizionale orientamento del giudice di legittimità, la distinzione tra le due fattispecie va ricercata nella condotta di aiuto.

Nel concorso esterno, l'aiuto è “rivolto al singolo in quanto componente del gruppo criminale (Cass. pen., Sez. II, 17 settembre 2003, n. 40375) ed ha, in genere, carattere di continuità. Tuttavia, l'apporto continuativo non è l'unico criterio di differenziazione, e l'agevolazione può avere natura occasionale purché sia sorretta dalla “effettiva [e consapevole nella forma del dolo diretto] rilevanza causale” alla realizzazione del programma criminoso dell'associazione (cfr. Cass. SS.UU. 30.10.2002 n. 22327).

A ben vedere, però, l'elemento che differenzia le due fattispecie consiste nelle modalità dell'aiuto perché, nel favoreggiamento aggravato ex art. 7 cit., l'agevolazione è rivolta direttamente verso il soggetto mafioso ma senza il concorso nel reato presupposto (“fuori dai casi di concorso”).

Nel caso in esame, poi, il tema dell'accertamento riguarda i rapporti tra il politico e la mafia. Com'è noto, l'illiceità dell'accordo può sussumersi nel reato di concorso esterno solo se, alla verifica probatoria, determinati un “vantaggio o [una] utilità” per l'associazione criminale (cfr. Cass., Sez. un. 12 luglio 2005, n. 33748).

I concetti di “vantaggio ed utilità” costituiscono un quid pluris rispetto alla mera condotta favoreggiatrice e come tali devono essere provati, con la conseguenza che in mancanza dell'aliquid novi opererà il divieto di un secondo giudizio e sarà precluso “ogni tentativo di nuove rivisitazioni dei [medesimi] fatti e della [diversa] qualificazione giuridica” (cfr. Gip Palermo sent. 16 febbraio 2011, n. 163).

In conclusione

L'identità del fatto va accertata con riferimento alla portata storico-naturalistica della condotta contestata di guisa che, a fronte di una condotta aggravata dall'agevolazione mafiosa, i medesimi fatti possono essere rivalutati quale presupposto del diverso reato di concorso esterno ma solo a condizione che la condotta non abbia “esaurito” la sua disvalenza nel mero fatto agevolativo.

Ed invero, perché l'azione non sia preclusa dal divieto del doppio giudizio, occorre che al fatto oggetto del precedente giudicato si aggiungano altri elementi causalmente agevolativi dell'associazione criminale. Soltanto in questo caso la condotta reiterata e continuativa di rilevazione a membri del sodalizio criminale circa le indagini svolte nei loro confronti potrà sussumersi (anche) nella fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa e potrà formalmente concorrere con quella, già giudicata, di favoreggiamento.

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