Recepimento della direttiva Ue sulle norme minime per la tutela della vittima di reato. Un’attuazione solo timida?

Michele Sbezzi
10 Febbraio 2016

Il rapporto tra la normativa italiana e quella comunitaria, e soprattutto il riconosci-mento dell'assoluta necessità che la seconda abbia sostanziale primazia sulla prima, è oggetto di vivace dibattito, in dottrina e in giurisprudenza, da parecchi anni a questa parte.
Abstract

Il rapporto tra la normativa italiana e quella comunitaria e, soprattutto, il riconoscimento dell'assoluta necessità che la seconda abbia sostanziale primazia sulla prima, è oggetto di vivace dibattito, in dottrina e in giurisprudenza, da parecchi anni a questa parte.

Le limitazioni alla sovranità nazionale come presupposto dell'obbligo di adozione e adeguamento della normativa interna

L'argomento, sin dal suo esordio, non è sembrato né convincente né particolarmente importante ai più; l'opinione pubblica, come la maggior parte degli operatori del diritto, non hanno ritenuto di doversene occupare; ciò ha contribuito a causare il grave ritardo che scontiamo, tanto nella definitiva presa di coscienza di un dato di fatto, quanto, troppo spesso, nell'adeguamento del nostro diritto interno.

Il problema è stato, infatti, sempre quello di accettare una sgradita limitazione di sovranità che, seppur sancita dalla nostra Corta fondamentale, è sempre stata vista come un'inopportuna o indebita, se non illegittima, intrusione nella sfera degli affari interni della nostra nazione.

Nonostante tutto ciò, la centralità di una serie infinita di questioni di interesse sovranazionale, in tema di politica, di economia, di etica e, più recentemente, la necessità di affrontare il gravissimo problema dei flussi migratori, o di esercitare efficace contrasto a forme sempre più aggressive di criminalità e terrorismo internazionali, ha finalmente fatto si che della sovranità nazionale e della possibilità di limitarla in vista di esigenze “più alte”si sia fatto ormai argomento di interesse diffuso, non più riservato a pochi eletti.

Nell'ottica della creazione effettiva di una vera comunità di Stati, che tale non può essere nella compresenza di legislazioni interne disomogenee, quando non contrastanti tra loro, il lungo percorso storico tracciato in Italia è pervenuto, attraverso vari e faticosi passaggi, a quella che può ritenersi la più chiara, oltre che la più recente, affermazione della fondatezza e rinnovata obbligatorietà della necessità che la sovranità nazionale accetti le limitazioni necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni (art. 11 Cost.).

Si tratta dell'ordinanza 207/2013 della Corte costituzionale, di cui è stato relatore il nostro odierno Presidente della Repubblica.

Ivi si sottolinea che l'ordinamento sovranazionale impone limitazioni e che, per conseguenza, così come previsto all'art. 117 della nostra Carta, la potestà legislativa dello Stato e delle regioni deve rispettare non solo la Costituzione ma anche i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Al punto che un sospetto di contrasto tra legge nazionale e norma comunitaria si traduce in una questione di legittimità costituzionale rispetto ai parametri degli artt. 11 e 117 della Costituzione, come integrati e resi operativi dalla norma comunitaria pertinente.

Ciò stante, si legge ancora in ordinanza, spetta al giudice nazionale valutare la compatibilità della norma interna rispetto alla legislazione comunitaria e la scelta se rinviare pregiudizialmente alla Corte di Giustizia, o se provvedere egli stesso a disapplicare la norma nazionale in favore di quella comunitaria; mentre spetta alla Corte costituzionale, a cui il giudice deve fare rinvio in caso di contrasto con norma comunitaria non direttamente efficace e quando non possa risolvere in via di interpretazione, effettuare giudizio di legittimità della norma interna rispetto alla norma costituzionale, integrata dalla norma comunitaria.

Ciò posto, è ben chiaro come le Direttive Comunitarie hanno efficacia vincolante per gli Stati membri, tenuti all'adozione entro termini temporali indicati ed al conseguente adeguamento del diritto interno rispetto a quello voluto dal legislatore comunitario.

La Direttiva 2012/29 Ue del Parlamento europeo e del Consiglio

Tutto ciò premesso, la direttiva 2012/29 Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, resa il 25 ottobre 2012, è intervenuta a istituire una serie di norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

Entro il 16 novembre 2015, ciascun stato membro avrebbe dovuto dotarsi delle disposizione legislative, regolamentari e amministrative necessarie a conformarsi.

In Italia, purtroppo e come detto sopra, scontiamo qualche ritardo.

Tuttavia, con il decreto legislativo 212 del 15 dicembre scorso, il percorso è stato iniziato.

La direttiva europea ha per obiettivo, dichiarato al capo I, art. 1, quello di garantire che, nei territori degli Stati membri, le vittime di reato ricevano informazioni, assistenza e protezioni adeguate e possano partecipare ai procedimenti penali. E ancora quello di assicurare che le vittime siano riconosciute e trattate in modo rispettoso, sensibile, personalizzato, professionale e non discriminatorio in tutti i contatti con servizi di assistenza alle vittime o di giustizia riparativa (qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale) o con un'autorità competente operante nell'ambito di un procedimento penale.

All'art. 2, Definizioni si chiarisce che vittima è tanto la persona fisica che ha subito un danno, fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche causate direttamente dal reato, quanto il familiare della persona la cui morte è stata causata direttamente dal reato, e che da quella morte ha subito un danno.

Di seguito, leggiamo che familiare è il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle e le persone a carico della vittima.

Infine, per quel che riguarda questo lavoro, si sancisce che gli stati membri posso stabilire procedure: a) sia per limitare il numero di familiari ammessi a beneficiare dei diritti previsti nella direttiva, tenendo conto delle circostanze specifiche di ciascun caso, b) sia per determinare quali familiari hanno la priorità in relazione allo esercizio dei diritti previsti nella direttiva.

L'Europa, come risulta evidente, non ha problemi a riconoscere la qualità di familiare alla persona, non coniugata con la vittima ma che con questa abbia vissuto una relazione intima, stabile e continua, formando un nucleo familiare.

Il decreto legislativo 212 del 15 dicembre 2015

In Italia, come sappiamo, la situazione è fino ad oggi ben diversa.

Vero è che sembra in linea di arrivo una riforma legislativa che viene annunciata come profondamente innovatrice, introduttiva di una regolamentazione delle coppie di fatto, a prescindere dal sesso dei suoi componenti.

L'iter, però, non è stato e non si annuncia facile per i mille motivi etici, religiosi e culturali che vengono da più parti annunciati e sostenuti come irrinunciabili.

Per intanto, comunque, l'Italia ha riconosciuto anche in questo caso la supremazia del diritto comunitario ed ha emanato il decreto legislativo 212, con il quale – però – ha solo parzialmente aderito alla innovazione imposta dalla direttiva.

Piuttosto timida sembra, infatti, la modifica operata all'art. 90, comma 3, del codice di procedura penale, il cui testo integrato risulterà il seguente: Qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge sono esercitati dai prossimi congiunti di essa o da persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente.

Vero è che l'innovazione è comunque leggibile e che la sua sostanza, perdurante il dibattito culturale ed etico di cui sopra, non è trascurabile.

Tuttavia, la persona legata da relazione affettiva (intima, dice più coraggiosamente il legislatore europeo), che non può esser discriminata in relazione al sesso e può dunque aver formato una coppia omosessuale con la persona morta in conseguenza del reato, non viene qualificata come vittima ma semplicemente come soggetto che può esercitare diritti in alternativa ai familiari.

Non si aggiunge, quindi, agli aventi diritto ma si contrappone ad essi, in loro alternativa.

L'uso della disgiuntiva o non sembra legittimare altre interpretazioni.

In conclusione

Peraltro, la stessa normativa europea autorizza espressamente gli stati membri a limitare il numero di familiari ammessi a godere dei diritti e delle facoltà introdotte o, addirittura, a stabilire quali familiari debbano avere priorità sugli altri.

Per conseguenza di quanto sopra sottolineato, il figlio di chi è morto in conseguenza di un reato potrebbe avere, nel procedimento penale, non soltanto priorità ma addirittura esclusività di diritti, rispetto a chi con il morto aveva una relazione affettiva, stabile e duratura.

Sulla questione potrà di certo intervenire la dottrina e, nei lunghi tempi necessari perchè ad essa pervenga una questione sul punto, la giurisprudenza della Corte di cassazione.

Potrebbe però accadere, ed è forse auspicabile, che un giudice di merito si trovi a dover decidere se escludere la convivente dell'ucciso dal godimento dei diritti in oggetto e potrà, quindi, investire della questione la Corte costituzionale.

Da ultimo, si può provare a individuare di quali diritti si stia qui parlando.

L'azione civile per le restituzioni e il risarcimento, a mente dell'art. 74 del codice di rito, è concessa a chiunque abbia subito un danno come conseguenza del reato.

Di fatto, quindi, chiunque sostenga di averlo subito, può esercitare azione per il risarcimento di un danno. Sembra non esservi rapporto con il disposto dell'art. 90, innovato dalla novella in esame.

Eppure, a ben guardare, le cose potrebbero non essere così semplici.

Innanzitutto, è certamente possibile sostenere il diritto al risarcimento del danno morale per la morte del proprio compagno; tuttavia la fondatezza di un'azione del genere andrà vagliata in relazione a un valore che non trova riconoscimento e protezione in una legge diversa da quella processual-penalistica. Si tratta, oggi, di una semplice situazione di fatto, non prevista dalla legge e, tutto sommato, poco più che tollerata dalla nostra attuale società.

Riconoscere un diritto autonomo e concorrente rispetto a quello dei prossimi congiunti, usando la congiunzione invece che l'avversativa, avrebbe contribuito a rendere più chiara la situazione.

Stessa considerazione va fatta in relazione ai diritti alle restituzioni che, se esercitati dai prossimi congiunti, non potranno essere esercitati anche da altri.

Ancor peggiore è poi la situazione relativamente al diritto al risarcimento di danno economico.

Per il diritto comunitario, come esplicitato nella direttiva, è vittima chiunque abbia subito un danno come conseguenza di un reato.

Nel caso la persona morta in conseguenza di un reato contribuisse, in vita, al mantenimento di una persona a lui legata da relazione affettiva stabile e, al contempo, di un figlio nato da precedente matrimonio, la compagna superstite (perdurando l'attuale mancanza di una regolamentazione delle coppie non sposate) potrà agire per il risarcimento del proprio danno diretto o sarà esclusa, come conseguenza di quella avversativa, nel caso il figlio si costituisca parte civile?

Non sembra poter essere revocato in dubbio, infine, che gli altri diritti sanciti nel decreto legislativo di recente emissione siano destinati ai congiunti o ai compagni stabilmente conviventi; non ad entrambi.

Il compagno superstite, quindi, potrà non aver diritto alla traduzione degli atti, agli avvisi, ad una puntuale e precisa conoscenza dell'iter processuale, al patrocinio a spese dello Stato, ecc. ecc.

Tutto ciò sembra estraneo allo spirito della legge, soprattutto di quella comunitaria.

È una svista, un'illegittimità costituzionale o solo un po' di timidezza, cui si spero di dar rimedio con una prossima legge che valorizzerà le unioni di fatto, eterosessuali ed omosessuali?

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