Michele Sbezzi
17 Ottobre 2018

La querela è la più comune tra le condizioni di procedibilità previste dal Legislatore Italiano il quale, con essa, concede all'offeso dal reato, e non all'apparato ordinamentale, il potere di decidere quando e se a un fatto di reato consegua un procedimento penale.In linea generale, ma non è sempre così, è sostenibile che ciò avvenga in tutti quei casi in cui la condotta, che deve pur sempre esser prevista dalla legge come reato, viola diritti disponibili e integra, quindi, una sorta di “reato minore”, che lede i diritti di una parte privata prima e più che quelli della generalità dei consociati; in favore della prima, e solo di riflesso a tutela della seconda, l'Ordinamento offre quindi una tutela giudiziaria “a chiamata”, che la parte attiva, appunto, proponendo querela.
Inquadramento

La querela è la più comune tra le condizioni di procedibilità previste dal Legislatore Italiano il quale, con essa, concede all'offeso dal reato, e non all'apparato ordinamentale, il potere di decidere quando e se a un fatto di reato consegua un procedimento penale.

In linea generale, ma non è sempre così, è sostenibile che ciò avvenga in tutti quei casi in cui la condotta, che deve pur sempre esser prevista dalla legge come reato, viola diritti disponibili e integra, quindi, una sorta di “reato minore”, che lede i diritti di una parte privata prima e più che quelli della generalità dei consociati; in favore della prima, e solo di riflesso a tutela della seconda, l'Ordinamento offre quindi una tutela giudiziaria “a chiamata”, che la parte attiva, appunto, proponendo querela.

Quest'ultima, dunque, è condizione di procedibilità: in sua mancanza il procedimento non ha ragione, né fondamento, per sorgere.

Per lo stesso motivo, nella generalità dei casi – ma non senza eccezioni – la sua remissione comporta la cessazione di ogni interesse pubblico alla prosecuzione del procedimento e alla reintegrazione dell'equilibrio violato; alla remissione segue, di diritto e tranne poche, tassative eccezioni, una dichiarazione sacramentale con cui il Giudice sancisce che non deve più andarsi oltre pronunciando la formula “non doversi procedere”.

La causa di tale dichiarazione (art. 531 c.p.p.: […] il giudice, se il reato è estinto […] enuncia la causa in dispositivo) va rinvenuta tanto nella necessità di stoppare ogni attività, quanto in una apparentemente contraddittoria “estinzione del reato”. Contraddittoria, o forse illogica, perché non si comprende, a prima vista, per qual motivo l'intervenuto difetto di una condizione di procedibilità dovrebbe estinguere il reato, di cui non sembra essere parte integrante.

La condotta costitutiva di reato, e il reato stesso, sono pur sempre lì a dispiegare i propri effetti, anche se il querelante ha, evidentemente, perso ogni interesse alla punizione del reo. Non siamo nel campo dell'effetto del tempo trascorso tra la condotta querelata e la decisione giudiziale. Né tantomeno può semplicemente sostenersi che la procedibilità sia elemento costitutivo del reato (condotta, antigiuridicità, evento, rapporto di causalità, volontà giuridica di commettere il reato), e che, quindi, l'improvviso suo venir meno possa comportare una sopravvenuta inesistenza del fatto o della sua contrarietà a norme penali.

Può quindi sembrare che riconnettere l'estinzione del reato al venir meno di una condizione di procedibilità sia l'effetto di un difetto di coordinamento tra norme eterogenee.

Si tratta però, semplicemente, di una questione mal posta, che si risolve nella perfetta legittimità e coerenza di una dichiarazione rispettosa della previsione espressa all'art. 152 c.p. («Nei reati punibili a querela della persona offesa, la remissione estingue il reato»)

È dunque infondata ogni perplessità.

Qualunque sia il giudizio che se ne voglia dare, il chiarissimo disposto codicistico non può suscitare dubbi. Il riconoscimento di perfetta legittimità della soluzione data nasce dalla considerazione del fatto che, sorto un procedimento per l'avvenuta proposizione di una querela, va vagliata la sussistenza di tutte le condizioni perché la condotta sia giudicata e, se del caso, perseguita e sanzionata. Tra tali condizioni rientra indiscutibilmente anche l'antigiuridicità, che va intesa anche come contrarietà a norme penali da tutelarsi a richiesta del danneggiato.

La remissione della querela è una revoca di tale richiesta e comporta il venir meno di quella quota di antigiuridicità che l'ordinamento rimette alla valutazione del soggetto offeso da reato. Più che corretta e coerente, quindi, la dichiarazione di estinzione del reato per remissione della querela, stante un sopraggiunto difetto di antigiuridicità.

Requisiti di forma e contenuto

Difettando una specifica previsione normativa che imponga quali forme debba assumere la querela, come per la totalità degli atti di rilievo penale, possiamo certo sostenere che anch'essa è un atto a forma libera.

Nessuna formula sacramentale, dunque, e nessuna intestazione o specificazione terminologica faranno diventar querela ciò che querela non è; o, al contrario, faranno mancare l'effetto della procedibilità a un atto che, redatto in qualsiasi forma dall'avente diritto, comporta che si proceda in ordine ai fatti denunciati.

La querela può essere sporta sia in forma scritta che in forma orale. Nel secondo caso, l'autorità che la riceve deve stendere un verbale in cui la narrazione del querelante viene riportata e poi, dallo stesso, sottoscritta.

Ciò che, invece, caratterizza la querela – e fonda quindi la procedibilità – è il suo contenuto. Si tratta di una questione dibattuta da parecchio tempo e, recentemente, risolta con forse troppa elasticità dalla Suprema Corte con la recente sentenza 52538 del 2017.

In essa, la quarta Sezione penale ha statuito che, in qualunque modo sia formulata, per esserci querela deve esserci la chiara e specifica espressione della volontà della parte offesa a che si proceda penalmente relativamente ai fatti che l'atto denuncia.

Il contenuto minimo – sommariamente descritto all'art. 336 c.p.p. – consiste quindi in una notizia di reato e nella espressione chiara della volontà che il reato stesso e il suo autore vengano perseguiti.

La forma chiara ed espressa è evidente manifestazione della volontà di procedere. Ma una tale volontà è altresì desumibile da qualunque espressione che, in ogni modo, manifesti una volontà in tal senso; così, la volontà espressa di esercitare l'azione civile, ad esempio, è stata ritenuta sufficientemente indicativa nel senso in argomento.

Perfino le manifestazioni non esplicite, poco chiare, devono essere intese come qualificanti un atto di querela, in adesione ad una considerazione per le ragioni della parte offesa che non costituisce certo novità (vedi la sentenza 23010/2013; ma anche 46994/2011).

In buona sostanza, quindi, purché provenga personalmente dalla parte offesa, qualsiasi dichiarazione dalla quale possa anche solo desumersi la volontà di far sorgere un procedimento penale può correttamente intendersi quale valida querela, e quindi come efficace condizione di procedibilità. Perfino l'informale e atecnica richiesta di «[…] prendere provvedimenti al più presto […]» è stata valutata come espressa richiesta a che si proceda (Cass. pen., Sez. V, n. 6333/2015) integrante valida querela.

Tutto ciò comporta, anche, che non è affatto indispensabile che, in querela, il fatto denunciato venga correttamente qualificato in relazione alla norma che si pretenda violata.

E neppure che ne sia identificato l'autore; o che sia suggerito un impianto indiziario.

Notizia di reato e volontà che si proceda comportano la procedibilità; tutto il resto competerà all'Autorità cui il querelante si è rivolto.

I soggetti legittimati all'esercizio del diritto di querela

Art. 120 c.p.: «Ogni persona offesa da un reato per cui non debba procedersi d'ufficio o dietro richiesta o istanza ha diritto di querela.

Per i minori degli anni quattordici e per gli interdetti a cagione d'infermità di mente il diritto di querela è esercitato dal genitore o dal tutore.

I minori che hanno compiuto gli anni quattordici e gli inabilitati possono esercitare il diritto di querela, e possono altresì, in loro vece, esercitarlo il genitore ovvero il tutore o il curatore, nonostante ogni contraria dichiarazione di volontà, espressa o tacita, del minore o dell'inabilitato».

Art. 336 c.p.p.: «La querela è proposta mediante dichiarazione nella quale, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, si manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato».

Con queste parole, il Legislatore ha sancito che la titolarità del diritto di querela non è riconosciuta a chiunque sostenga di aver subito un danno quale conseguenza di condotta costitutiva di reato. Solo il titolare della posizione tutelata dalla norma penale (la persona offesa, appunto, e non anche il semplice danneggiato) ha diritto di proporre querela e, così, di determinare l'insorgenza di un procedimento penale, volto all'accertamento dei fatti e delle responsabilità.

Come dire che se qualsiasi persona offesa è danneggiata (come minimo dal punto di vista morale), non tutti i danneggiati sono parti offese.

Tutti i danneggiati, invece, hanno certamente diritto di esercitare – ospitata nell'ambito del processo penale - un'azione civile finalizzata al risarcimento del danno, economico ma non solo, derivato dalla condotta oggetto di imputazione penale.

Nella trattazione delle questioni concernenti il diritto di querela, quindi, deve sottolinearsi la differenza tra parte offesa e danneggiato, figure che spesso coincidono in uno stesso soggetto.

Il danneggiato è figura più generale e omnicomprensiva, che riveste qualunque soggetto abbia subito un qualsiasi danno, anche indiretto, dal fatto di reato; la persona offesa dal reato, che non viene definita né nel codice penale né nel codice di procedura penale, deve invece identificarsi con il soggetto che ha un più stretto e diretto rapporto con la norma penale, essendo titolare del bene oggetto di tutela giuridica diretta. Ciò giustifica la decisione del Legislatore di concedere solo al secondo, e non anche al primo, il potere di determinare l'insorgenza di una procedimento penale.

Se entrambi possono certamente costituirsi parte civile per chiedere, ospiti del processo penale, il risarcimento del danno che al reato sia conseguito, la persona offesa (Cass. pen., 21090/2004) è il solo titolare dell'interesse direttamente protetto dalla norma penale, la cui lesione o esposizione a pericolo costituisce l'essenza dell'illecito. Solo costui può proporre querela, o opporsi alla richiesta di archiviazione della notizia di reato avanzata dal pubblico ministero (artt. 408 ss.) o esercitare i diritti e le facoltà previste all'art. 90 del codice di rito (nominare un difensore per partecipare al procedimento ancor prima del termine iniziale per costituirsi parte civile, presentare memorie in ogni stato e grado del procedimento, indicare elementi di prova, ecc.).

Trattandosi di diritto personalissimo, il diritto di querela non può essere delegato ad altri; può però esser demandata a un procuratore speciale la semplice proposizione materiale dell'atto di querela, che rimane atto della persona offesa e deve quindi recare la sua sottoscrizione, se del caso autenticata.

Nel caso l'offeso sia minore di età, o non sia capace, il relativo diritto può essere fondatamente esercitato dal genitore esercente la patria potestà, dal curatore, dal tutore, anche in presenza di precisa dichiarazione contraria del minore, dell'interdetto o dell'inabilitato.

La ratio di entrambe le soluzioni date dal Legislatore si rinviene nella risaputa circostanza che il minore e l'incapace non possono, fondatamente, esprimere una volontà con effetti giuridici diretti; non possono, da soli, decidere che un procedimento penale sorga. Né possono rinunciarvi, decidendo di non querelare.

È parso potersi intravvedere una sorta di apertura al semplice danneggiato di reato in alcune sentenze del giudice di legittimità (sentt. 5589/2014 e 20169/2015), che sembravano aver statuito una titolarità, in capo al danneggiato, del diritto di querela. In effetti, però, la miglior lettura e interpretazione di tali decisioni rendono chiaro che la Suprema Corte, in quei casi, ha semplicemente riconosciuto la plurioffensività dei reati in contestazione e la conseguenziale sussistenza di più parti offese dal medesimo reato.

La materiale proposizione

La querela può esser presentata presso un qualsiasi ufficio giudiziario o anche nelle mani di un ufficiale di polizia giudiziaria, il quale, in calce al testo o al verbale di querela orale, stenderà un verbale di ratifica con il quale identificherà con esattezza la persona che materialmente gli si sia presentato. Può esser proposta personalmente dalla persona offesa, o anche proposta dal delegato, munito di procura speciale. In tal caso, però, la sottoscrizione del querelante deve essere autenticata. Il difensore può autenticare la sottoscrizione. Diversamente, il querelante dovrà rilasciare procura speciale notarile.

A tal proposito, la Suprema Corte di cassazione ha dapprima chiarito (Sezioni unite 11 luglio 2006, n. 26549) che l'autenticazione della sottoscrizione effettuata dal difensore è perfettamente valida anche quando questi non abbia ancora ricevuto formale nomina, sempre che la volontà di nominarlo possa ricavarsi da altre dichiarazioni rese nel corpo dell'atto di querela, quale ad esempio l'elezione di domicilio presso lo studio del legale che autentica la firma.

La II Sezione penale della medesima Corte, però, con sentenza 9187 del 2 febbraio 2017, ha cambiato orientamento, dichiarando invalido l'atto di querela proposto con autenticazione apposta da parte di chi non era stato designato come difensore della persona offesa. Ciò perché era proprio l'atto di autentica ad esser in quel caso nullo, essendo esso riservato al difensore nominato, come previsto dagli artt. 96 e 101 c.p.p.

Va, da ultimo, rammentato che anche una persona giuridica può essere parte offesa di un reato e può, pertanto, aver interesse a sporgere una querela. In tal caso, sarà il legale rappresentante ad esercitare il diritto in parola, non dimenticando mai di indicare la fonte del relativo potere: una decisione assunta dalla persona giuridica, nelle forme previste dal suo statuto. Sul punto, la Suprema Corte (Sez. II, n. 39839/2012) ha statuito che la mancata indicazione della fonte del potere di querela, nel caso questo potere sia comunque sussistente, non comporta nullità dell'atto; impone però al Giudice di procedere alla verifica in concreto della sussistenza del potere stesso.

La trasmissione per via ereditaria dei diritti del querelante

Stante la particolarità della figura dell'offeso da reato, titolare di un diritto personalissimo non delegabile e non trasmissibile per via ereditaria, in caso di morte del querelante e secondo la giurisprudenza formatasi sul punto, non esiste soggetto che possa validamente esercitare remissione della querela già proposta.

Considerata permanente (o meglio sarebbe forse dire immanente) la volontà di perseguire il reato, quando non validamente revocata dal soggetto offeso, il procedimento già sorto sembra quindi destinato a proseguire fino alla sentenza di merito, nonostante la morte del querelante e la conseguente assenza di una “volontà attiva” a che il procedimento prosegua.

Il testo dell'art. 90 c.p.p. (Diritti e facoltà della persona offesa dal reato) è stato modificato dal d.lgs. 212/2015, che vi ha aggiunto un terzo comma; per effetto di quest'ultimo, i prossimi congiunti di chi sia deceduto in conseguenza del reato, o la persona a quella legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente, hanno diritto a proseguire nell'azione già sorta ed a sostituirsi nella richiesta di risarcimento o, comunque, nell'esercizio di tutti i diritti previsti dalla legge ed in vita appartenuti al querelante. La chiara dizione utilizzata dal Legislatore rende evidente che il successore dell'offeso non acquista un diritto a proporre querela per i fatti che abbiano eventualmente offeso il de cuius, ma solo a continuare un'azione proposta dall'offeso e coltivare i diritti che costui aveva come conseguenza del reato subito.

Peraltro, la norma indica che i nuovi titolari di diritti e facoltà sono gli eredi e i conviventi di chi è deceduto per conseguenza del reato; è fin troppo evidente, avendo comportato un decesso, che non possa trattarsi di un reato perseguibile a querela; e che, quindi, non vi sia questione alcuna circa la trasferibilità del diritto a proporne.

Stesso ragionamento deve farsi in ordine a un eventuale diritto a rimettere una querela proposta dal de cuius. Anche in questo caso, infatti, la norma è chiarissima nell'indicare che i nuovi facultati sarebbero, semmai, gli eredi e i conviventi di chi è morto per conseguenza del reato, cioè di un soggetto leso da un reato procedibile d'ufficio. Non sussiste, in tal caso, un diritto a rimettere alcunché.

Pertanto, allo stato attuale va assolutamente escluso che il diritto di proporre querela – così come quello correlativo di rimetterla – possano entrare, per diritto ereditario o per altro, nella disponibilità di soggetti diversi dalla parte offesa. Tuttavia va registrata l'apertura per la quale soggetti diversi perfino dagli eredi possano usufruire, in considerazione di uno stretto rapporto sentimentale, di diritti “processuali” prima appartenuti a chi non può più usarne. Per questa via potrà forse aprirsi ad una nuova considerazione dell'interesse a proseguire in un'azione penale sorta su querela di chi sia, frattanto, deceduto.

Il termine per l'esercizio del diritto di querela

Il diritto di querela si esercita, a pena di decadenza, nel termine di tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato (art. 124 c.p.). il termine è prolungato a sei mesi nel caso del reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e dei reati di violenza sessuale di cui agli artt. 609-bis, -ter e -quater, come disposto all'art. 609- septies c.p.

Nel caso dello stalking, la remissione di querela è ammessa esclusivamente in forma processuale; cioè solo se espressamente formulata al giudice o ad ufficiale di P.G. Nel caso dei reati di violenza sessuale, invece, la querela sporta è irretrattabile.

Non va sottovalutato, per essere invece a volte causa di dichiarazioni di improcedibilità per decadenza, il fatto che tre mesi non corrisponde a novanta giorni.

Secondo la regola imposta dal codice civile, infatti, i termini si computano a giorni o a mesi e, nel secondo caso, il mese decorre con il raggiungimento del corrispondente giorno del mese successivo. Così, il mese che decorre tra il 15 gennaio ed il 15 febbraio consta di 31 giorni; mentre in quello tra il 15 febbraio ed il 15 marzo ne passano solo 28. E così via.

Circa la decorrenza iniziale del termine per esercitare il diritto di querela sono sorte alcune questioni.

La formulazione letterale dell'art. 124 c.p. indica che il termine decorre dal momento in cui il danneggiato ha avuto conoscenza del compimento del fatto di reato. E non, quindi, dal momento in cui il fatto stesso sia stato commesso.

Può quindi trattarsi di due momenti anche parecchio distanti nel tempo tra oro.

È stato infatti chiarito in giurisprudenza che la conoscenza del fatto di reato deve essere certa, cioè certamente sussistente, tanto nella sua dimensione oggettiva che in quella soggettiva.

La parte offesa, cioè, deve conoscere compiutamente tanto il fatto che il suo autore.

Tra le altre, sostiene Cass. pen. 46485/2014 che non è sufficiente sapere che un determinato fatto è avvenuto. E neppure avere un fondato sospetto su chi ne sia stato l'autore perché il termine inizi a decorrere, occorrendo invece che si abbia completa e sicura conoscenza dell'accaduto in tutte le sue dimensioni.

Ancor più gravoso quanto emergente da una sentenza della IV Sezione penale della Corte di cassazione, che ha stabilito (n. 21527 del 2015) che il termine per proporre querela per le lesioni da colpa medica inizia a decorrere dal momento in cui la persona offesa sia venuta a conoscenza della possibilità che, sulla patologia asseritamente derivante da cure mediche, abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dei sanitari che tali cure hanno apprestato.

Si tratta di un momento che può differire di parecchio da quello in cui la parte offesa sia venuta a conoscenza della semplice insorgenza della patologia che lamenta.

Tutto ciò rischia di prolungare a tempo indeterminato il termine per la querela e, conseguentemente, la possibile sottoposizione di un soggetto a indagine, a procedimento, a processo.

Il principio è temperato da altra, ma precedente, giurisprudenza di legittimità (25986/2009), secondo la quale il soggetto leso deve ritenersi gravato dell'onere di procedere ai necessari accertamenti, non essendo possibile riconoscergli, come conseguenza di semplice inerzia, un indeterminato diritto di posticipare sine die il termine per la proposizione della querela.

Rientrando la querela tra i diritti dell'offeso, ed essendo la decadenza un limite a tali diritti, la dimostrazione della eventuale, mancata tempestività onera il querelato, nonostante in ciò possa fondatamente intravvedersi una inversione dell'onere probatorio.

Appare di tutta evidenza, per quanto sostenuto sopra, che in molti casi sarà arduo, se non impossibile, dimostrare il momento esatto in cui la conoscenza del fatto sia apparsa in tutta la sua completezza al danneggiato querelante e quando, invece, egli sia incorso in decadenza per inerzia.

Ciò appesantisce, e non di poco, la posizione dell'accusato, giacché, secondo la Suprema Corte, la decadenza va accertata in modo completo e certo; tanto che, nei casi di irrisolvibile incertezza, la querela dovrà ritenersi comunque tempestiva, nonostante il principio espresso nel noto brocardo in dubio pro reo.

Anche in questo caso, quindi, così come già registrato in ordine al contenuto obbligatorio ed alla possibilità di ritenere comunque sussistente – per via di interpretazione – una volontà di procedere seppur non troppo chiaramente emergente dal testo, l'ordinamento introduce elementi di favor nei confronti del querelante, il quale viene giustificato ed assistito sia quando usa formule espressive di significato non assolutamente univoco, sia quando non è assolutamente certo ed evidente che abbia sforato il termine temporale per il promovimento dell'azione.

Remissione espressa o tacita

Secondo l'art. 152 del codice sostanziale, la remissione di querela non può esser sottoposta a termini o condizioni. Essa è o non è, senza che possa dipendere dall'avveramento di fatti esterni o dal trascorrere del tempo. Può essere espressa o tacita; e cioè evidente e dichiarata, com'è nel caso della remissione processuale, che si esercita esclusivamente dichiarando al giudice (o, per effetto degli artt. 152 e 340 c.p.p., anche a un ufficiale di P.G.) la volontà di determinare – prima della condanna definitiva, ma comunque in ogni stato e grado – la fine del procedimento.

Oppure consistente in fatti contrastanti ed inconciliabili con la volontà di pervenire alla punizione dell'accusato.

In particolare, la volontà espressa che la remissione tacita possa desumersi solo da fatti, e cioè da condotte positive e non mai da omissioni o astensioni, ha dato per anni luogo all'interpretazione, anche e soprattutto dalla Suprema Corte (Sezioni unite 46088/2008; ma anche 6771/2005 e molte altre), per cui restava indimostrata una volontà di rimettere la querela in chi, semplicemente, avesse omesso di comparire in udienza a sostenere l'accusa, a rendere testimonianza, a costituirsi parte civile.

Così come nel caso della morte del querelante, cui nessuno può succedere a rimettere una querela validamente sporta, anche nel caso dell'assente si è sostenuto essere improduttiva di effetti processuali ogni forma di mancata attivazione; e, quindi, immancabile il compimento di un atto positivo, che fosse chiaramente inconciliabile con la volontà di procedere.

Più di recente, e non sia inteso irrispettoso l'intuibile fine deflattivo, è stata invece – e finalmente – validata anche dalle Sezioni unite penali della Suprema Corte (sent. 31668/2016) la dichiarazione di estinzione del reato nel caso in cui il querelante, assente all'udienza, continui a non presentarsi nonostante l'invito a comparire e il chiaro avvertimento che la perdurante, mancata comparizione verrà intesa quale condotta inconciliabile con la volontà di persistere in querela e, quindi, come remissione tacita.

La remissione, naturalmente, potrà efficacemente intervenire – e comportare l'improcedibilità dell'azione penale – fino a quando non sia divenuta irrevocabile una sentenza di condanna. Così, nessun dubbio circa l'efficacia di una remissione intervenuta anche nel corso di processo di legittimità avanti la Suprema Corte, che deve in tal caso pronunciare declaratoria di estinzione del reato (Sez. V, n. 28941/2003), da giudicarsi prevalente perfino sugli eventuali profili di inammissibilità del ricorso. Piena validità avrà la remissione perfino nel corso del giudizio di rinvio, conseguente ad annullamento pronunciato dalla Suprema Corte, seppur determinato solo dalla necessità di riformulare la pena originariamente inflitta (Cass. pen., Sez. I, 42994/2008).

Da ultimo, può annotarsi come appia invece incoerente, almeno formalmente, la disposizione contenuta al terzo comma dell'art. 153 del codice sostanziale, laddove si vuole che la remissione proposta dal legale rappresentante di minori o incapaci non abbia effetto se contrastata dalla volontà contraria del minore o dell'incapace.

Dunque, la manifestazione di volontà del rappresentante, contrastata dal minore o dall'incapace, è sufficiente a far sorgere un procedimento; ma non a determinarne la conclusione.

Per contro, nel caso di coindagati o coimputati dei quali solo uno sia beneficiario di remissione, e quindi nel caso in cui la remissione sia inequivocamente diretta a uno solo tra i soggetti cui il reato è ascritto, il procedimento si arresterà nei confronti di tutti coloro ai quali sia stato contestato il medesimo fatto di reato, per procedere invece solo nei confronti di coloro ai quali sia stato ascritto anche altro o altri fatti di reato.

La rinuncia alla querela

L'esercizio del diritto di querela può anche essere oggetto di rinuncia, da formularsi con atto che intervenga prima dello spirare del termine per la querela. La rinuncia, sotto pena di nullità, non può essere sottoposta a termini o condizioni e rende priva di conseguenze l'eventuale, successiva proposizione di querela.

Una rinuncia, se formulata dopo la proposizione di valida querela, ha la valenza di una remissione; ma, a differenza da questa, è immediatamente efficace e non abbisogna di accettazione.

Stabilisce l'art. 339 c.p.p. che, personalmente o per mezzo di procuratore speciale, o anche oralmente con dichiarazione personalmente sottoscritta, rilasciata a notaio o ad ufficiale di polizia giudiziaria, si può rinunciare alla querela.

La rinuncia, inoltre, può anche essere tacita; secondo l'art. 124 del codice penale, infatti, vi è rinunzia tacita quando chi ha facoltà di proporre querela ha compiuto fatti incompatibili con la volontà di querelarsi. Come osservato in precedenza per la remissione, anche in questo caso la norma pretende espressamente il compimento di un atto, restando apparentemente inefficace ogni “non azione”. Tuttavia, per ragioni di ordine sistematico, una volta mutata la giurisprudenza di legittimità – e per conseguenza quella di merito – circa la possibilità che anche una “non azione” sia ritenuta incompatibile con la volontà di pretendere la punizione del soggetto in precedenza querelato, non vi è ragione per ritenere che nel caso della rinuncia tacita alla querela possa pervenirsi a soluzione diversa.

Nell'uno come nell'altro caso, si tratterà ovviamente di atti o fatti (rinunce o omissioni), espressi o taciti, provenienti dalla parte offesa di un reato, che sia perfettamente a conoscenza del fatto di reato e del danno che ne sia conseguito. È un atto, o una condotta, che deve necessariamente provenire da chi abbia un compiuto diritto a sporgere querela e scelga, senza condizioni, di rinunciarvi.

La rinuncia, nell'uno come nell'altro caso, ha effetto nei riguardi di tutti gli autori del fatto astrattamente querelabile; ma non è opponibile a tutti i soggetti offesi dal reato, cui – anche in caso una delle parti offese esprima rinuncia - continuerà ad spettare un autonomo diritto a far sorgere procedimento penale.

L'unico problema interpretativo seriamente configurabile riguarda ovviamente la rinuncia tacita, per la difficoltà che può sorgere nella corretta individuazione delle condotte incompatibili con la volontà di querelarsi.

Una vecchia pronuncia della Suprema Corte (78/1988) sancisce che i fatti incompatibili devono essere seri, univoci e concludenti. Essi, quindi, non vanno individuati in una rinuncia al risarcimento del danno; né tantomeno nel raggiungimento di un accordo transattivo per il risarcimento del danno stesso (39184/2013).

Ancor più datata, una sentenza del 6 luglio 1983 della VI sezione penale della Suprema Corte ha sancito che i fatti incompatibili con la volontà di querelarsi «[…] devono essere non equivoci, obiettivi e concludenti, e vanno di volta in volta valutati dal giudice di merito con apprezzamento insindacabile in Cassazione».

Come si vede, il problema della più corretta individuazione delle condotte da individuarsi come incompatibili con la volontà di querelarsi non viene risolto in giurisprudenza, a causa della vastità dei casi che potrebbero esser sottoposti al vaglio del giudice; resta alle parti processuali la garanzia del provvedimento del Giudice che ne ritenga o ne escluda la ricorrenza, che va assistito da compiuta motivazione.

Utilizzabilità della querela

L'art. 431 c.p.p. sancisce che nel fascicolo per il dibattimento vengano ospitati gli atti relativi alla procedibilità dell'azione penale. Prima tra essi, naturalmente, la querela.

Questa si trova quindi legittimamente tra gli atti dei quali il giudice del dibattimento deve avere cognizione. Il problema è di stabilire chiaramente a qual fine, e fino a quale limite, tale cognizione possa essere utilizzata.

Innanzitutto, la querela comprova il legittimo inizio dell'azione penale esercitata. Per conseguenza, e solo a tal fine, essa fa parte degli atti di cui deve legittimamente darsi lettura quando il reato, oggetto di dibattimento, non è perseguibile d'ufficio.

Che non possano esservi altre finalità lo si evince dal chiaro dettato dell'art. 511, comma 4, c.p.p., secondo cui «la lettura dei verbali delle dichiarazioni orali di querela o di istanza è consentita ai soli fini dell'accertamento dell'esistenza della condizione di procedibilità».

In effetti, secondo Cass. pen., Sez. II, 9 dicembre 2011, n. 11691 «deve trovare applicazione la previsione normativa di cui all'art. 511, comma 4, c.p.p., in base alla quale la querela può trovare ingresso nel fascicolo dibattimentale ai soli fini di cui sopra, dato che la "natura" della querela è semplicemente quella di rappresentare la sussistenza di una condizione di procedibilità, la sua funzione è quella di consentire all'autorità procedente la sicura individuazione del fatto-reato e manifestare l'istanza di punizione in ordine al fatto-reato medesimo».

Ancor più chiaramente prosegue la Corte, quando sostiene che da tale condizione di procedibilità, «il giudice non può, dunque, trarre elementi di convincimento ai fini della ricostruzione storica della vicenda, a nulla rilevando in contrario che l'atto sia stato erroneamente dichiarato utilizzabile in difetto di opposizioni».

Peraltro, la chiarissima interpretazione giurisprudenziale è coerente con quella espressa dalla Corte costituzionale con la decisione 91 del 9 marzo 1992, ove si afferma: «[…] la querela è assoggettata a precisi limiti di utilizzazione processuale i quali, e non a caso, sono previsti dall'art. 511 del codice di rito con specifico ed esclusivo riferimento all'istituto delle letture, vale a dire a quel peculiare veicolo di utilizzazione che si colloca al termine della istruttoria dibattimentale e che assegna a determinati atti la qualità di “prove” suscettibili di essere valutate nella sentenza che definisce il giudizio».

Apparentemente e parzialmente difforme è la lettura data dalla VI Sezione penale della Suprema Corte, con sentenza 51711 del 2014, laddove si legge che: «In tema di letture consentite, ex art. 431 e 511 c.p.p., la querela può essere inserita nel fascicolo per il dibattimento ed è utilizzabile ai solo fini della procedibilità dell'azione penale, con la conseguenza che da essa il giudice non può trarre elementi di convincimento al fine della ricostruzione storica della vicenda, tranne che per circostanze o fatti imprevedibili risulti impossibile la testimonianza dell'autore della denuncia-querela; in tal caso, infatti, la lettura è consentita, ai sensi dell'art. 512 c.p.p., anche per utilizzarne il contenuto ai fini della prova. Ne consegue che, in assenza dei presupposti di cui all'art. 512 c.p.p., la querela non può essere utilizzata per le contestazioni ex art. 500 c.p.p., trattandosi di documento redatto dalla persona offesa e non di un verbale contenente dichiarazioni precedentemente rese dal testimone».

Se, con la sentenza richiamata, la Corte riafferma il principio consolidato secondo cui la querela è utilizzabile solo ai fini della procedibilità e quindi non per la ricostruzione storica della vicenda, né per le contestazioni ex art. 500 c.p.p., la stessa introduce altresì un temperamento del principio basilare, un'eccezione da valersi nel solo caso in cui sia divenuta impossibile, per fatti imprevedibili, l'audizione testimoniale del querelante; in quel caso, e solo in quello, la querela torna ad esser valutata come verbale di dichiarazioni rese da testimone. Si tratta di un contrasto irrisolvibile, inconciliabile sia con la pretesa sacramentata nel noto favore per l'imputato che con quello, altrettanto noto e fondamentale, della non opponibilità all'imputato di prove nei cui confronti egli non abbia potuto esercitare un pieno diritto al contraddittorio.

Com'è assolutamente evidente il contrasto è irrisolvibile soprattutto con il diritto difensivo dell'imputato di misurarsi con le dichiarazioni accusatorie, in un controesame che, secondo le regole del giusto processo, sia volto anche a verificare la credibilità e la fondatezza astratta della testimonianza avversa. In osservanza a tale diritto, la Sezione II penale della Suprema Corte ha ritenuto di dover mitigare la valenza della lettura della querela a fini di prova, stabilendo, con sentenza 16 gennaio 2015, che:

«una sentenza di condanna che si basi unicamente o in misura determinante su una testimonianza resa in fase di indagini da un soggetto che l'imputato non sia stato in grado di interrogare o fare interrogare nel corso del dibattimento, integra una violazione dell'art. 6 Cedu – così come interpretato, da ultimo, dalla sentenza della Corte Edu del 15 dicembre 2011, Al Khawaja e Tahery c/ Regno Unito – solo se il pregiudizio così arrecato ai diritti di difesa non sia stato controbilanciato da elementi sufficienti ovvero da solide garanzie procedurali in grado di assicurare l'equità del processo nel suo insieme».

Non limitandosi a quanto sopra, la sentenza continua indicando che «i diritti della difesa sono limitati in modo incompatibile con le garanzie dell'art. 6 quando una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l'imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria né in dibattimento […] e ciò anche quando il confronto è divenuto impossibile per morte del dichiarante o per le sue gravi condizioni di salute […] ovvero quando l'irreperibilità del dichiarante sia giuridicamente giustificata da un diritto di costui al silenzio, come nel caso di coimputati o di imputati di reato connesso».

In buona sostanza, il principio oggi vigente in giurisprudenza è che il diritto della difesa di misurarsi, confrontarsi con l'accusatore è incomprimibile, pur restando ipotizzabili elementi che, introdotti nel processo, siano tali da controbilanciare il vulnus e riportare ad equità lo svolgimento del dibattimento.

Evidente il fatto che tali elementi, di certo non ricompresi in elenchi tassativi ed anzi piuttosto difficili da enucleare, dovranno essere individuati dal Giudice e resteranno rimessi alla sua sola valutazione. Cosa che, in considerazione della possibilità evidente che più giudici decidano in più e diversi modi, apre le porte al possibile arbitrio, seppur temperato dalla garanzia dell'obbligo di motivazione.

Sulla procedibilità delle lesioni personali stradali gravi o gravissime

Nel testo attuale della norma codicistica, l'art. 590-bis del codice penale, sono previste pene molto severe, introdotte dalla legge 23 marzo 2016 n. 41 e aventi efficacia dal 25 marzo successivo.

Si tratta di un regime sanzionatorio giustificato, o meglio sarebbe forse dire generato, dal clamore eccitato da una serie di incidenti stradali, soprattutto da quelli provocati da soggetti in stato di ebbrezza alcoolica o di alterazione da stupefacenti.

Come purtroppo accade in questo come in altri casi di legislazione emergenziale, l'ordinamento italiano ha delegato la reazione all'introduzione di un aggravamento delle pene, che già in precedenza erano previste in termini severi ma che, però, la generalità dei consociati – e i media – ritenevano ormai troppo tenui. Ritenendo di poter scongiurare la ripetizione di fatti dolorosi, si è così prevista una reclusione da tre a cinque anni per le lesioni gravi; e addirittura da quattro a sette anni per quelle gravissime. Nulla stabiliscono, la legge di riforma come il nuovo testo del codice, in ordine alla procedibilità. Eppure, il problema non è da poco: si tratta di un reato autonomo o di circostanze aggravanti? E quindi di reato procedibile di ufficio o di reato procedibile a querela e semplicemente punito in modo assai più grave rispetto al reato base?

Secondo il sistema generale, ove si ritenesse che la norma abbia introdotto una nuova e autonoma fattispecie, del tutto svincolata dalla più generale previsione di reato di lesioni colpose – per la cui procedibilità è espressamente prevista la condizione di procedibilità in argomento - dovrebbe riconoscersi che siamo al cospetto di un reato procedibile d'ufficio.

Il reato sarebbe invece perseguibile solo a querela nel caso si potesse riconoscere nella novella legislativa una semplice aggravante della figura di reato di cui all'art. 590 c.p. (Lesioni personali colpose), punibile a querela tranne che nel caso di lesioni, gravi o gravissime, derivanti da fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.

Evidente appare che la lesione stradale non ha nulla a che fare con queste ultime fattispecie e che quindi, nel caso, sarebbe perseguibile a querela.

Gli elementi letterali, che possono trarsi dal testo delle due norme a confronto, non danno aiuto sufficiente, ad esclusione della sola intestazione della legge 41/2016, che recita: «Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali». Non si fa menzione dell'introduzione di aggravamenti sanzionatori; ma è anche vero che l'intestazione è l'unico elemento testuale che suggerisca la pretesa di introdurre una nuova figura di reato.

Ad aiutarci potrebbe invece essere l'analisi della novella sotto l'aspetto del criterio teleologico: del fine, cioè, che la norma ha tentato di perseguire. Nel caso in questione, non sembra che il Legislatore abbia voluto introdurre una tutela nei confronti di beni di natura diversa rispetto a quelli tutelati dalla norma “generale” di cui all'art. 590. Sembra invece evidente che l'intento “emergenziale” sia stato quello di aggravare la previsione sanzionatoria, con evidenti fini di dissuasione rispetto a certe condotte devianti e di ”consenso” verso istanze media-popolari.

Sembra si possa fondatamente sostenere che la norma fondamentale, quella prevista all'art. 590, contenga in se tutti gli elementi essenziali del reato; e che il reato di lesioni stradali sia soltanto un aggiustamento, nel senso dell'aggravamento sanzionatorio.

Se così è, la nuova previsione di “lesioni stradali gravi e gravissime” introdurrebbe una circostanza aggravante, ad effetto speciale, del più generale rato di lesioni colpose e, come questo, sarebbe quindi procedibile solo a querela, con esclusione delle figure più sopra richiamate, la cui elencazione va ovviamente intesa come tassativa.

In questo senso milita la sentenza 4 maggio 2017 resa dal Gip di Milano, che ha ritenuto di dover autorizzare l'archiviazione della notizia di reato di lesioni stradali gravi per mancanza della condizione di procedibilità.

La Suprema Corte, invece, ritiene fondata l'opposta tesi.

In sentenza 42346 del maggio 2017, infatti, la quarta sezione penale ha ritenuto di dover sottolineare che il testo della novella è chiaramente indicativo della volontà del Legislatore di introdurre “ … due nuove figure di reato che, seppur specializzanti rispetto alle fattispecie base dei reati di omicidio colposo e lesioni colpose, assumono caratteristiche particolari a se stanti, che le distinguono da queste ultime e le rendono meritevoli di una disciplina autonoma.”

La Corte, ancora nel testo della sentenza richiamata, dà atto del fatto che la ratio della legge va individuato nell'esigenza di «[…] operare efficace contrasto al crescente numero di vittime causate da condotte di guida colpose o sotto l'effetto di alcool e di sostanze stupefacenti, al fine di emanare un assetto normativo idoneo a regolamentare specificamente, in maniera autonoma e indipendente dalle generali figure colpose di omicidio e lesioni, i reati che conseguono alle indicate condotte, caratterizzate dalla violazione della disciplina della circolazione stradale».

In buona sostanza, con l'autorevole fermo, la Cassazione sottolinea come il Legislatore abbia risposto all'esigenza di contrastare un fenomeno crescente; egli ha però perseguito il proprio scopo introducendo una figura autonoma e nuova di reato.

Che, per conseguenza, è e resta perseguibile d'ufficio.

La sentenza del Gip di Milano, sopra richiamata, è quasi contemporanea a quella della Suprema Corte; la questione, dunque, potrebbe essere riaperta, stante la piena rispondenza a logica di entrambe le opinioni e, sia inteso con massimo rispetto, la apparentemente non inferiore forza di convincimento contenuta nel ragionamento che fa militare per la tesi della procedibilità a querela.

Il decreto legislativo 10 aprile 2018, n. 36

Con il decreto legislativo 36 del 10 aprile 2018, in vigore dal 9 maggio 2018, il Legislatore ha modificato il regime di procedibilità in un certo numero di casi, rendendo procedibili a querela taluni reati prima procedibili d'ufficio.

La riforma, naturalmente, non interviene “a bocce ferme”; essa modifica in corso di trattazione il regime di procedibilità di diversi reati, mentre sugli stessi è in corso l'indagine o addirittura il dibattimento.

Cosa accadrà in tutti quei casi in cui alle condotte, astrattamente previste come reato, non sia seguita una querela, che a quel tempo non era richiesta per la procedibilità, e un procedimento sia comunque sorto per impulso d'ufficio?

A rispondere è la stessa, nuova normativa, che all'art. 12 d.lgs. 36/2018, rubricato Disposizioni transitorie in materia di perseguibilità a querela regola due diversi casi:

a) la persona offesa, la quale abbia avuto notizia del fatto costituente reato in data precedente all'entrata in vigore della riforma, potrà proporre querela entro tre mesi dal 9 maggio 2018;

b) Nel caso sia invece già pendente un procedimento, evidentemente promosso d'ufficio, il pubblico ministero nel corso delle indagini o il giudice nel corso del dibattimento sono tenuti a informare la parte offesa della facoltà di proporre querela nel termine consueto, decorrente però dal giorno in cui egli sia stato informato.

In buona sostanza, un reato commesso prima della data sopra indicata, non querelato e non ancora fatto oggetto di alcun procedimento ma del quale l'offeso avesse piena conoscenza, poteva essere querelato entro il 7 agosto 2018, a prescindere dal tempo già trascorso dal momento della consapevole conoscenza da parte dell'offeso.

Va rilevato che, così facendo, si è concesso diritto di querela riguardo a fatti vecchi anche di anni e sui quali non fosse ancora sorto procedimento, sostanzialmente con il solo limite – in qualche modo desumibile dalla sentenza delle Sezioni Unite di cui si parlerà più avanti - della prescrizione.

Nel secondo caso, l'allungamento del termine risulta in pratica addirittura maggiore, seppur meno sconvolgente agli effetti pratici: anche in questo caso, infatti, il reato da querelare potrebbe ben esser vecchio di anni; ma qui il termine decadenziale di cui all'art. 124 c.p. può non avere ancora iniziato a decorrere. Nessun termine per agire è stato, infatti, imposto al P.M., né al giudice del dibattimento, i quali sono molto probabilmente – in innumerevoli casi nelle tante sedi giudiziarie italiane – ancora in attesa di prendere atto della nuova situazione venutasi a determinare in relazione a reati su cui hanno aperto un'indagine, o che giungeranno al vaglio nelle prossime udienze.

Per conseguenza, innumerevoli possono essere i soggetti che non sanno ancora di avere un diritto a querelare fatti, già posti a base di procedimenti penali in corso.

Lo sconvolgimento, tuttavia, è qui inferiore a quello indotto nel primo caso, visto che un procedimento è già in corso e che l'allungamento della vicenda processuale potrà essere, per conseguenza, sostanzialmente inferiore.

La norma transitoria rende comunque uguali, forse ingiustamente, posizioni assai diverse tra loro. E non sembra affatto in linea con il fine deflattivo della riforma, parzialmente vanificato da un allungamento sine die del termine per integrare la condizione di procedibilità.

Può ritenersi che il Legislatore, con l'art. 12 d.lgs. 36/2018, abbia tentato di impedire l'insorgere di improbabili questioni circa la successione della legge penale nel tempo, in relazione però a un istituto che, certamente processuale, non potrebbe avere applicazioni retroattive.

Con esso, però, è stato parzialmente limitato il chiarissimo fine deflattivo della riforma, voluta per contrastare l'enorme affollamento di procedimenti pendenti in tutte le aule di Giustizia – che rende legittimo e non rinviabile ogni strumento atto a diminuire il carico, risaputamente responsabile, almeno in parte, di un funzionamento a dir poco difficoltoso della macchina giustizia in Italia.

Il problema della successione della legge nel tempo

Anche nel caso di questa riforma, che interviene sulla materia viva e che riguarderà moltissimi processi in corso di trattazione, nonostante il tentativo del Legislatore di predisporre ripari efficienti, potrebbero sorgere questioni circa l'applicabilità delle norme che si succedono nel tempo.

Il problema, ampiamente e diffusamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza, è stato causa di notevoli contrasti. Sappiamo bene che una cosa è la successione delle leggi penali sostanziali, governata dal disposto dell'art. 2 del codice penale, e un'altra è la successione delle norme di procedura, governata invece dall'art. 11 delle preleggi.

Principio fondamentale, ancor prima, è espresso dal secondo comma dell'art. 25 della nostra Costituzione repubblicana «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». La norma, in epoca più recente ricompresa anche nel testo della Cedu, ha introdotto in Italia il principio dell'irretroattività delle norme penali, che quindi tengono all'obbligo di stretta osservanza solo dal momento in cui entrano a far parte dell'ordinamento; esse non possono intervenire a punire fatti commessi o accaduti in precedenza. Possono però avere effetto riguardo a fatti già accaduti e a procedimenti già iniziati.

È noto come il fondamento della disposizione in argomento sia da rinvenire nella precisa volontà, di alto valore civile e caratterizzante gli ordinamenti democratici, di tutelare il cittadino dalla possibilità di ritenere illecite e, quindi di punire, condotte da lui attuate in un momento in cui non meritavano rimprovero.

In attuazione del medesimo principio, e della medesima esigenza di tutela, il secondo comma dell'art. 2 del codice penale dispone che non si può esser puniti per fatti che non sono più considerati reati. È il noto caso dell'abolitio criminis.

Va a questo punto almeno citato il problema della successione di norme più favorevoli, che in quanto tali e in applicazione del medesimo principio di alto valore morale e civile, si applicano retroattivamente. Quando la politica sceglie di non ritenere più meritevole di rimprovero penale una determinata condotta, il suo autore andrà esente da pena nonostante l'abbia attuata tempo prima.

Persino le condanne e i decreti penali di condanna vanno revocati, seppur definitivi, se la norma penale sia stata abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima.

Dobbiamo quindi certamente dire che le norme penali hanno applicazione retroattiva quando introducono innovazioni più favorevoli per il reo; e che esse, pur vigenti, non si applicano neppure a chi ha commesso, durante la loro vigenza, un reato che sia stato poi abrogato.

Esattamente antitetica la normativa che riguarda la successione delle norme procedurali nel tempo.

Per esse vale, infatti, il principio tempus regit actum.

Secondo l'art. 11 delle preleggi, più sopra richiamato, la legge non dispone che per l'avvenire. Non può dunque applicarsi retroattivamente; neppure nel caso la nuova disposizione sia più favorevole. Per lo stesso principio, la norma introdotta dopo il compimento del fatto sarà comunque applicata nel suo periodo di vigenza nonostante sia più sfavorevole al reo o all'imputato.

La legge processuale vigente si applica in ogni caso per tutto il periodo di vigenza. È il corollario del tempus regit actum.

Se il carattere sostanziale, punitivo e/o afflittivo, caratterizza la natura sostanzialistica di una norma, che dunque va applicata oltre il suo periodo di vigenza, anche a condotte adottate prima della sua promulgazione se “migliorativa”, il carattere non sostanziale delle norme procedurali non consente la loro applicazione in tempi diversi da quelli della loro vigenza.

Sono note le polemiche, i ricorsi e le decisioni conseguenti all'entrata in vigore della legge Cirielli, che introdusse una limitazione della retroattività di norme sostanziali più favorevoli, ritenuta però ragionevole ed eccezionale – e dunque legittima e ammissibile – dalla Corte costituzionale.

Nel caso in esame, invece, nessun dubbio può sorgere circa il carattere processuale della nuova normativa, la cui applicabilità si conforma dunque al principio sopra indicato.

Le norme in argomento, infatti, non hanno carattere afflittivo o punitivo, né sostanziale. Esse, dunque, vanno applicate per tutto il periodo di vigenza.

La riforma riguarda, evidentemente, un notevole numero di casi in cui reati, prima procedibili d'ufficio, sono divenuti procedibili solo a querela. L'intento deflattivo potrebbe leggersi nella speranza che un certo numero di procedimenti, già sorti a causa del diverso e più severo regime di procedibilità, non siano sorretti dall'esercizio del diritto di querela da parte di chi non sia particolarmente attento alle riforme penalistiche, o non intenda comunque attivarsi in risposta alle informazioni che gli proverranno da un pubblico ministero o da un giudice.

Il numero dei casi potrebbe, infatti, essere elevato.

L'art. 12 d.lgs. 36/2018, alla luce di quanto sopra esposto, introduce un'eccezione, giustificabile per il citato e mal perseguito intento deflattivo.

La riforma, di carattere francamente processuale, in mancanza di tale eccezione, avrebbe forse potuto essere applicata in conformità all'art. 11 delle preleggi e quindi a tutti i casi pendenti durante la sua vigenza. Con la conseguenza che i procedimenti, già sorti per reati divenuti procedibili a querela, potevano andare incontro a una dichiarazione di improcedibilità. Mentre per reati commessi in precedenza, e rispetto ai quali fosse già spirato il termine di cu all'art. 124 c.p., poteva anche non sorger mai procedimento alcuno.

Sull'argomento interviene un interessantissimo passaggio della sentenza cui si farà cenno nel paragrafo seguente.

Leggiamo, infatti, in sentenza che la querela, collocata nel vigente codice di procedura penale tra le condizioni di procedibilità e sempre più dotata di vocazione processuale, presenta però dati caratterizzanti non perfettamente univoci, che ne rilevano un'attitudine a condizionare la concreta punibilità del reato. Per questo, la giurisprudenza penale ha sottolineato la coesistenza, nell'istituto in parola, di un profilo sostanziale, così aderendo alla c.d. teoria mista.

Per conseguenza, le questioni relative alla querela, conseguenti a una successione della legge nel tempo, possono non esser trattate solo in base al sopra richiamato principio tempus regit actum. Al contempo, però, non sembra corretto neppure considerare la querela come un elemento essenziale del reato, che contribuisca quindi alla stessa esistenza del reato e, in conseguenza, della modifica del regime di procedibilità, possa comportare l'applicazione del principio di cui all'art. 2, comma 2, del codice penale e il travolgimento del giudicato penale o del ricorso.

Dottrina e giurisprudenza, piuttosto sembrano prediligere una collocazione della querela tra gli istituti che determinano sia l'an che il quomodo dell'applicazione del precetto penale e arrivano a ritenere quindi ammissibile l'applicazione retroattiva dei mutamenti favorevoli anche in assenza di una norma transitoria che la disponga.

In definitiva, dunque, per via interpretativa e in aderenza alla corrente sopra cennata, la Giurisprudenza sarebbe comunque pervenuta a ritenere corretta e fondata l'applicazione retroattiva della novella, in quanto norma successiva più favorevole, anche se il Legislatore avesse omesso di formulare l'art. 12 d.lgs. 36/2018.

La disposizione transitoria al vaglio delle Sezioni unite penali della Cassazione

Condannato per il reato di appropriazione indebita, perchè aveva omesso di versare a una dipendente le indennità spettanti per la sua maternità, un imputato ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione per motivi che non attengono affatto alla nostra trattazione.

Il ricorso è stato, però, segnalato al primo presidente per l'invio alle Sezioni unite penali in vista del particolare interesse della questione inerente la riforma oggetto del presente scritto.

In primo luogo, di grande interesse è stato ritenuto il problema se l'avviso del diritto a proporre querela per un reato ormai procedibile in tal regime – come nel caso oggetto di giudizio nel procedimento portato alle Sezioni unite – debba esser dato anche nel caso di ricorso pendente in Cassazione.

In secondo luogo, posta la pendenza avanti la Suprema Corte, se l'avviso debba esser dato anche nel caso di ricorsi selezionati per l'inoltro alla sezione speciale per le inammissibilità, ricorsi cioè nei quali non è riconosciuta idoneità alla instaurazione di un valido rapporto processuale, insensibili ad una serie di eventi processuali successivi, quali la maturazione del termine di prescrizione o l'equiparabile diritto a proporre querela ai sensi della novella introdotta con il d.lgs. 36/2018, che sembra doversi configurare come operativa fino alla condanna, e quindi fino alla formazione del giudicato.

Di grande e ulteriore interesse è stata infine giudicata la questione se debba ritenersi sospeso il termine di prescrizione del reato, ex art. 159 c.p., durante il termine trimestrale decorrente dall'avviso del diritto a proporre querela.

Per la precisione, le questioni sottoposte alle Sezioni unite sono state:

a) se, in presenza di un ricorso inammissibile, debba darsi alla persona offesa l'avviso previsto dal d.lgs. 10 aprile 2018 n. 36, art. 12, comma 2, per l'eventuale esercizio del diritto di querela;

b) se durante i novanta giorni (?!?) decorrenti dall'avviso dato alla persona offesa, ai sensi dell'art. 12 d.lgs. citato, operi la sospensione del termine di prescrizione.

Strana l'indicazione di un termine di novanta giorni, che appare francamente mal citato.

A prescindere da ciò, va sottolineato che il procuratore generale ha ritenuto di sostenere che anche nel caso dei ricorso in oggetto doveva percorrersi la via tracciata con la nota sentenza Chiasserini, secondo la quale, nel rapporto tra ricorso inammissibile e remissione di querela, va data prevalenza all'evento che fa venir meno la condizione di procedibilità, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio ex art. 609, comma 2, c.p.p.

Nello stesso senso, e criticando la distinzione giurisprudenziale tra giudicato formale e giudicato sostanziale – perchè solo il primo è previsto e regolato dal codice di rito all'art. 648 – il rappresentante massimo della pubblica accusa ha ritenuto di sottolineare che, fino a quando non sia maturato un giudicato formale, che renderebbe assolutamente irricevibile ogni ricorso, il procedimento deve esser giudicato “sensibile” alla successione della legge nel tempo e, ancor più, alle modificazioni più favorevoli, come dovrebbe ritenersi la norma che modifica la procedibilità d'ufficio in procedibilità a querela.

La nota sentenza Chiasserini, però, non ha mai avuto particolare fortuna; soprattutto in tema di maturazione del termine di prescrizione in pendenza del ricorso per Cassazione, come gli Avvocati sanno molto bene.

La sentenza n. 40150/2018

La Corte, dopo aver dato atto che il ricorso proposto era inammissibile perchè fondato su ragioni diverse da quelle proponibili al giudice di legittimità, ha innanzitutto dichiarato che la prescrizione astrattamente riguardante alcune delle condotte ascritte all'imputato-ricorrente non era maturata, perchè un ricorso inammissibile non fa nascere una ulteriore, valida fase processuale. (come in Cass. pen., Sez. unite, 17 dicembre 2015, n. 12602, Ricci)

Ciò posto, la Corte spazza via ogni dubbio in ordine all'applicabilità della norma transitoria anche ai giudizi pendenti avanti a se. E lo fa con argomenti definitivi, riguardanti la struttura della legge di riforma ed il significato da attribuire alla Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, in cui si legge che il Legislatore ha voluto ampliare le ipotesi di procedibilità a querela al fine di migliorare l'efficienza del sistema penale, condizionando la repressione di alcuni fatti alla valutazione ed alla sovranità della persona offesa, da non vanificarsi in grado di legittimità.

Peraltro, ricorda la Corte, anche in occasione della legge di depenalizzazione 689/1981 venne introdotta una disciplina transitoria, operativa finanche in Cassazione. Per conseguenza di quella legge, la Corte (Cass. pen., Sez. unite, 17 aprile 1982, n. 5540, Corapi) ritenne perfettamente legittimo che il termine per querelare venisse ritenuto decorrente dalla data di entrata in vigore per i procedimenti non ancora sorti e, per quelli già pendenti fino al grado di legittimità, dalla data in cui la persona offesa fosse stata avvisata del diritto a proporre querela.

Nessuna ragione può intravvedersi, oggi, perchè la similare norma transitoria in esame sia trattata diversamente. Per conseguenza, essa ha applicazione anche nei procedimenti pendenti in grado di Cassazione.

La sentenza in esame spiega, tuttavia, che vanno comunque evitate le conseguenze aberranti che conseguirebbero a una applicazione formalistica e letterale della norma transitoria. L'avviso alla persona offesa, quindi, va omesso se il diritto di querela sia già stato esercitato, nel caso l'offeso abbia comunque già evidenziato una precisa volontà di veder punito il colpevole, ad esempio costituendosi parte civile (cosa che, come in precedenza sostenuto, il giudice può motivatamente ritenere parificabile alla proposizione di una querela); ed ancora nel caso il diritto di querela si sia estinto ex art. 126 c.p.p., per morte dell'offeso, o sia stato rinunciato ex art. 124 c.p.p. Anche nel caso la querela sia stata rimessa nessun avviso va dato, così come nel caso in cui la persona offesa non sia stata identificata o risulti irreperibile.

Con ciò, la Suprema Corte sembra sancire che l'avviso non va dato in tutti i casi in cui esso rappresenterebbe solo un inutile appesantimento del procedimento, privo di vantaggio o, addirittura, di effetti. In tutti tali casi, andrà invece subito dichiarata l'improcedibilità dell'azione per mancanza o remissione di querela.

Va nella stessa direzione anche l'indicazione della Suprema Corte secondo cui, nel caso di maturata prescrizione del reato, o di morte dell'imputato, non va dato avviso alcuno alla parte offesa. Nessun giudizio potrebbe, infatti, instaurarsi e procedere fino alla sentenza finale in simili casi. In essi, la causa di estinzione del reato ha il sopravvento e, ex art. 129 c.p.p., sottrae immediatamente al giudice ogni potere di esaminare e decidere qualsiasi altra questione.

Allo stesso modo, nel caso di inammissibilità del ricorso perchè tardivo, introduttivo solo di “un simulacro” di pendenza di giudizio, ci si trova in un'ipotesi indiscutibile di ostatività alla rilevazione di cause di non punibilità o improcedibilità.

In ordine alla prima questione e ritenuta comunque l'operatività della norma transitoria in argomento anche ai giudizi pendenti in grado di Cassazione, la Corte ha affermato il seguente principio di diritto:

«in presenza di un ricorso inammissibile non deve darsi alla persona offesa l'avviso previsto dal d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, art. 12, comma 2, per l'eventuale esercizio del diritto di querela».

Tutto ciò, in coerenza con la nota giurisprudenza della Corte, secondo cui i ricorsi inammissibili non introducono un ulteriore e valido grado di giudizio, causando invece solo un passaggio in giudicato che attende di essere dichiarato. Il giudizio comunque instaurato a seguito di ricorso inammissibile è insensibile alle modifiche legislative introdotte dopo il grado di appello.

Sulla seconda questione, se cioè durante il termine trimestrale per l'eventuale proposizione di una querela, debba intendersi sospeso il decorso del termine di prescrizione del reato, la Corte ha chiaramente risposto di no.

L'art. 159 del codice penale, infatti, va inteso come regolante una casistica assai dettagliata e di stretta interpretazione, cioè come norma che introduce un elenco tassativo di casi in cui può essere applicata per incidere sulla ragionevolezza del tempo da impiegarsi per la definizione del processo.

In tal norma si legge, al primo comma, che la sospensione del corso della prescrizione va ritenuta in tutti i casi in cui una particolare disposizione di legge abbia imposto la sospensione del procedimento o del processo. Non, quindi, quand'anche una norma di legge abbia imposto una certa, ulteriore attività.

Nel silenzio inequivoco della legge, non può neppure ritenersi che il Legislatore abbia voluto sottintendere una sospensione di fatto, che si risolverebbe in un arbitrio o in un abuso, anche perchè categoria peraltro del tutto estranea alla normativa vigente. Per conseguenza, l'allungamento del termine di prescrizione rischierebbe di essere un'interpretazione in malam partem del disposto di cui all'art. 159 codice penale, assolutamente inammissibile.

In conclusione, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto: «Nel tempo necessario a dare attuazione alle disposizioni transitorie previste dal d.lgs. 36/2018, art. 12, il corso della prescrizione non resta sospeso».

I singoli reati a procedibilità modificata

Da ultimo, si propone qui di seguito l'elenco dei reati cui è espressamente applicata la novella in argomento.

Minaccia (art. 612 c.p.): diventa procedibile a querela, tranne che nei casi in cui la minaccia stessa debba ritenersi particolarmente grave perchè portata con armi, da persona travisata, da più persone riunite, con scritto anonimo, in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o supposte. Si tratta, com'è specificato chiaramente nel testo di legge, di quei modi tassativamente indicati all'art. 339 del codice penale.

Violazione di domicilio commessa da pubblico ufficiale (art. 615 c.p.): la nuova norma introduce una procedibilità a querela ma solo nel caso in cui il pubblico ufficiale si sia introdotto nei luoghi di privata dimora (cioè non solo nell'abitazione, ma anche in tutte le proiezioni spaziali della persona in cui possa esercitarsi la libertà individuale e vi sia, quindi, interesse alla tranquillità e alla sicurezza della vita privata) violando le formalità che il codice di procedura penale impone per le perquisizioni personali e locali (artt. 352, 247, 250 e 251).

Il reato in argomento è integrato, secondo dottrina, quando tra l'abuso e la violazione di domicilio sussista un nesso teleologico, quando cioè l'abuso delle formalità sia stato finalizzato alla condotta con cui il domicilio è stato violato e l'abbia resa più facile.

Le particolari modalità di commissione e la pena edittale, che con evidenza non è frutto di una semplice diminuzione rispetto a quella prevista al primo comma, fanno si che la fattispecie in argomento sia ritenuta reato autonomo, e non circostanza di quello previsto al primo comma.

Falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art. 617-ter c.p.): dal 9 maggio 2018, diventa procedibile a querela nei casi in cui parte offesa non sia un pubblico ufficiale.

Falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche, (art. 617-sexies c.p.): è adesso procedibile solo a querela.

Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza commesse da persona addetta al servizio delle poste, dei telegrafi o dei telefoni (art. 619 c.p.): la nuova normativa introduce una procedibilità a querela se i fatti riguardino la condotta di un addetto che prenda cognizione del contenuto di corrispondenza chiusa, sottragga o disperda una corrispondenza chiusa al fine di prenderne o farne prendere cognizione, o ancora la distrugga o la sopprima.

Rivelazione del contenuto di corrispondenza, commessa da persona addetta al servizio delle poste, dei telegrafi o dei telefoni (art. 620 c.p.): diventa adesso procedibile a querela della persona offesa.

Truffa (art. 640 c.p.): si introduce una modifica: dalla procedibilità d'ufficio nel caso di ricorrenza di una qualsiasi circostanza aggravante comune prevista nelle varie ipotesi dell'art. 61 c.p., si passa alla procedibilità d'ufficio nel solo caso di cui all'art. 61 n. 7, di danno patrimoniale di “rilevante gravità”. In buona sostanza, la riforma ha ‘tolto' alle altre circostanze aggravanti comuni, di cui al citato art. 61 c.p., l'effetto di comportare la procedibilità d'ufficio.

Frode informatica (art. 640-terc.p.): il nuovo regime è espresso al terzo comma, che stabiliva la procedibilità d'ufficio in caso ricorresse una qualsiasi delle aggravanti comuni e nel caso in cui il reato fosse stato commesso contro lo Stato o altro ente pubblico, ovvero con la finalità di far esonerare taluno dal servizio militare. Dal 9 maggio le circostanze aggravanti comuni che comportano procedibilità d'ufficio sono solo l'aver profittato di circostanze di persona, anche in riferimento all'età, (non anche di tempo o di luogo) tali da ostacolare la pubblica o privata difesa nonché l'aver cagionato un danno economico di rilevante gravità. Restano ferme le aggravanti previste negli altri commi e la conseguente procedibilità d'ufficio.

Appropriazione indebita (art. 646 c.p.): invece, è stato abrogato l'intero terzo comma, che stabiliva procedibilità d'ufficio per il caso di reato commesso abusando di autorità, relazioni domestiche, d'ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione o di ospitalità, ovvero commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario. Per effetto della novella, dunque, il reato di appropriazione indebita è procedibile esclusivamente a querela.

In chiusura di questa breve e schematica trattazione, va sottolineato che la riforma è comunque attenuata dalle norme previste agli artt. 7 e 11 del decreto in esame.

L'art. 7 introduce il Capo III bis Disposizioni comuni sulla procedibilità, che aggiunge al codice penale il nuovo art. 623-ter Casi di procedibilità d'ufficio. Il testo, evidentemente mal coordinato, sembra ridondante e ripetitivo, visto che sancisce una procedibilità d'ufficio per la minaccia grave, come peraltro era già chiaro per l'espressa dizione dell'art. 1 lett. b del decreto di riforma, riguardante appunto il reato di minaccia, quando aggravato perchè commesso nei modi di cui all'art. 339 c.p..

L'articolo in esame, infine, reintroduce una procedibilità d'ufficio – che il resto della normativa sembrava aver escluso - nel caso di ricorrenza di circostanze aggravanti a effetto speciale, che sappiamo essere quelle che comportano un aumento di pena superiore a un terzo, ovvero l'applicazione di una pena di specie diversa.

Ripetitivo e mal coordinato, infine, l'art. 11 del decreto riformatore, che aggiunge al contesto del nuovo Capo III-bis del codice penale, l'art. 649-bis, con l'effetto di estendere ai reati di truffa, frode informatica e appropriazione indebita la procedibilità d'ufficio quando ricorra una circostanza aggravante a effetto speciale.

Nessun dubbio sul fatto che il testo della nuova normativa poteva certamente essere meglio coordinato e più chiaro.

Pare comunque potersi intendere dalla novella, complessivamente esaminata ed anche in prospettiva futura, che il regime ordinario di procedibilità a querela per il reati non particolarmente gravi potrà essere inteso come regime ordinario, normale, cui contrapporre una perseguibilità d'ufficio eccezionale solo in presenza di un certo tipo di aggravanti.

«Far emergere e valorizzare l'interesse privato alla punizione del colpevole, onde evitare il rischio che restino impuniti fatti comunque lesivi di beni primari o che resti frustrata l'esigenza di ristoro, anche morale, della vittima del reato», come affermato dal Legislatore in relazione, potrebbe assurgere a criterio principe di procedibilità, nel rispetto del principio costituzionale della obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale ma nella piena considerazione di altre esigenze, cui non sembra poter essere estranea quella di limitare il ricorso a una Giustizia Penale ormai allo stremo da sovraffollamento, cui era già venuto in soccorso il Legislatore con l'introduzione degli istituti di cui agli artt. 131-bis e 162-ter codice penale.

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