Patto di provaFonte: Cod. Civ. Articolo 2096
30 Settembre 2024
Inquadramento Nell'impianto sistemico della collocazione delle fonti regolative, il principale addentellato normativo cui ricondurre la previsione del patto di prova è comunemente individuato nel dettato dell'art. 2096 c.c., in base al quale “Salvo diversa disposizione, l'assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L'imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l'esperimento che forma oggetto del patto di prova. Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro”. La ratio sottesa alla previsione di tale importante istituto regolativo del rapporto di lavoro, dunque, è quella di consentire, a ciascuna delle parti della vicenda lavorativa, di comprendere le effettive caratterizzazioni della connotazione prestazionale e del profilo stesso delle soggettività coinvolte, così da poter concretamente constatare, il datore di lavoro, le reali capacità professionali e di adattamento all'organizzazione produttiva del neo assunto, mentre, il prestatore, le specificità delle mansioni richiestegli e le condizioni lavorative in cui lo stesso è chiamato ad operare. In via di sintesi, pertanto, la funzione nodale del patto di prova è quella di consentire alle parti di sperimentare la reciproca convenienza al contratto, grazie alla specifica previsione legislativa della c.d. libera recedibilità ad nutum, ovvero della possibilità di sciogliersi dal vincolo contrattuale senza obblighi di motivazione o giustificazione e senza il rispetto di alcun obbligo di preavviso né di relativa indennità. Gli elementi caratterizzanti del patto di prova 1)- La forma del patto di prova Il primo dato di riferimento sul punto è rappresentato, senza dubbio, dalla forma scritta ad substantiam del patto di prova, chiaramente prevista a pena di nullità dello stesso, ma senza estensione dell'eventuale vizio in menzione alla validità del sotteso contratto di lavoro.
Il Supremo Collegio ha, infatti, chiarito che "la forma scritta necessaria, a norma dell'art. 2096 cod. civ., per il patto di assunzione in prova e richiesta "ad substantiam" e tale essenziale requisito di forma, la cui mancanza comporta la nullità assoluta del patto di prova, deve sussistere sin dall'inizio del rapporto, senza alcuna possibilità di equipollenti o sanatorie, potendosi ammettere solo la non contestualità della sottoscrizione di entrambe le parti prima della esecuzione del contratto, ma non anche la successiva documentazione della clausola verbalmente pattuita mediante la sottoscrizione, originariamente mancante, di una delle parti, atteso che ciò si risolverebbe nella inammissibile convalida di un atto nullo, con sostanziale diminuzione della tutela del lavoratore (Cass. Civ., Sez. Lav., 26 luglio 2002, n. 11122; conformi, Cass. Civ., Sez. Lav., 22 ottobre 2010, n. 21758; Cass. Civ., Sez. Lav., 14 aprile 2001, n. 5591; Trib. Monza, Sez. Lav., 14 febbraio 2020, n. 103). Va a tal riguardo segnalato come anche la dichiarazione di assunzione, sottoscritta «per ricevuta» dal lavoratore, integri il requisito della forma scritta, qualora nella lettera sia contenuto un invito a restituirla in segno di completa accettazione, oltre ad evidenziare la conclamata esclusione della natura vessatoria della clausola apponente il patto di prova, come tale non necessitate di approvazione specifica, in aderenza al disposto dell'art. 1341 c.c. La stipula del patto di prova Vi è poi il profilo della collocazione temporale, in quanto, come su accennato, è necessario che l'inserimento del patto di prova nel testo negoziale avvenga in un momento anteriore o, quantomeno, contestuale rispetto alla costituzione del rapporto, non essendo possibile sanare la sua originaria mancanza mediante successiva formalizzazione. Ai sensi dell'art. 2096 c.c., infatti, il patto di prova sottoscritto dopo che il lavoratore si è già stabilmente inserito nell'organizzazione del datore di lavoro con assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro è nullo, con conseguente illegittimità del recesso del datore di lavoro per mancato superamento della prova e applicazione della tutela contro i licenziamenti illegittimi.
Va, altresì, segnalato al riguardo come risulti nondimeno nullo il patto apposto a un contratto di lavoro per l'ipotesi in cui, tra i medesimi datore di lavoro e lavoratore, sia già intercorsa una vicenda lavorativa che abbia già permesso a parte datoriale di verificare l'attitudine del dipendente allo svolgimento delle stesse specifiche mansioni. Ciò in quanto il patto di prova, come visto, mira a tutelare l'interesse di entrambe le parti a sperimentare la reciproca convenienza del rapporto, di talché, una volta correttamente concluso il periodo di valutazione, non è possibile una rinnovazione similare, a parità di soggetti e caratteristiche lavorative. La specificità del patto di prova Viene, quindi, in rilievo il presupposto della specificità della prova, dovendo il patto inserito in sede negoziale indicare, in maniera precipua, le mansioni che ne costituiscono oggetto e l'attività richiesta al lavoratore. La mancanza di tale specifica indicazione, del resto, costituisce motivo di nullità del patto (con automatica conversione dell'assunzione in definitiva sin dall'inizio del rapporto) a prescindere dal livello contrattuale e dalla natura della mansione assegnata. Ciò in quanto, tanto la possibilità per il lavoratore di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini, quanto la correlata facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria valutazione sull'esito della prova, presuppongono che questa debba effettuarsi in relazione a compiti esattamente identificati sin dall'inizio, affinché non possa essere facilmente eluso l'intento della legge di richiamare l'attenzione degli stipulanti sull'importanza dell'atto, di garantire la serietà di quanto essi decidano di fare sulla base dell'atto stesso, e di rendere possibile, sempre e soprattutto, il controllo del contenuto della dichiarazione e dell'osservanza puntuale, nei fatti, di quanto da essa risultante. Del resto, come sancito dal granitico orientamento di merito in materia, in tema di periodo di prova, l'esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova, che va individuata nella tutela dell'interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest'ultimo, a sua volta, valutando l'entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto. Pertanto, come sancito ex multis dal Tribunale di Napoli, Sezione Lavoro, con la Sentenza 28 febbraio 2023 n. 1358 “… non è configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso, qualora le modalità dell'esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova”.
Tale previsione a carattere validante dello stesso patto di prova, dunque, potrà essere integrata mediante l'indicazione specifica, in sede contrattuale, delle mansioni dettagliate che saranno oggetto della valutazione delle parti in sede di espletamento della prova, ovvero anche mediante il richiamo alle declaratorie contrattuali dal quale ricavare mansioni concrete e ben definite sulle quali fondare la valutazione della prova. È stato, invero, da tempo avvallato il ricorso al meccanismo di specifica mediante rinvio per relationem al sistema classificatorio della contrattazione collettiva, purché tale riferimento rimandi alla nozione più dettagliata delle categorie, delle qualifiche, dei livelli e dei profili professionali prevista dal contratto collettivo applicabile. Su tale presupposto, dunque, se la categoria di un determinato livello accorpa una pluralità di profili, è necessaria l'indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria.
Ed invero, posto che la contrattazione collettiva prevede una molteplicità di mansioni e di figure professionali nell'esplicitazione delle rispettive declaratorie, il generico riferimento alla qualifica del livello, in assenza di ulteriori elementi di specificazione e atteso il tenore generico della dizione del contratto, potrebbe determinare un'indeterminatezza dell'oggetto dell'esperimento e comportare, quindi, la dichiarazione di nullità del patto di prova, con conseguente definitività del contratto di lavoro ab origine, trattandosi di clausola che vitiatur sed non vitiat. Va da sé, tuttavia, come l'integrazione del requisito della necessaria specificità delle mansioni vada coordinato con l'esercizio del potere di ius variandi datoriale, rientrando nell'autonomia delle parti eventualmente vincolare la prova alle sole mansioni di prima assegnazione (con la conseguenza che solo dopo l'espletamento e, quindi, il superamento della prova il datore di lavoro potrà esercitare le prerogative di cui all'art. 2103 c.c.), piuttosto che anticipare tale possibilità di modifica delle mansioni oggetto del patto di prova anche in “corso d'opera”, purché tale facoltà sia espressamente prevista e concordata tra le parti in sede di contratto. Durata del patto di prova Essenziale è, inoltre, il requisito della durata, dovendo il periodo di prova avere una estensione adeguata allo svolgimento delle mansioni per le quali il lavoratore viene assunto. Ebbene, sotto il profilo dogmatico, il primo riferimento in tal senso è da ancorare al disposto dell'art. 4 del R.D.L. 13 novembre 1924, n.1825, che indica la durata massima di tre mesi per il periodo di prova degli impiegati che non siano institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti, per i quali, invece, il periodo massimo di prova è cristallizzato in sei mesi. E si badi che tale termine di ancoraggio semestrale rinviene un proprio riferimento di conferma indiretta nel dettato dell'art. 10 della L. 604/66, laddove il legislatore dispone espressamente l'applicabilità della normativa de qua anche ai lavoratori assunti in prova, dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, dal momento in cui sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro. E, pur tuttavia, gran parte dell'autonomia previsionale in materia è rimessa alle disposizioni pattizie dei Contratti collettivi, potendo le parti sociali indicare un limite massimo di durata del periodo di prova per i vari comparti e settori ordinamentali, con salvezza, in ogni caso, della facoltà di deroga rimessa alle parti, sia in ipotesi di riduzione (sempre ammessa) che in ipotesi di estensione periodale, per le fattispecie caratterizzate da una particolare complessità delle mansioni affidate al lavoratore in prova. Nel silenzio del legislatore, inoltre, la giurisprudenza ritiene che la proroga del periodo di prova sia legittima, a condizione che essa sia redatta per iscritto e che la sua durata sia limitata entro il termine legale o pattizio di riferimento.
La reiterazione del patto di prova Senonché, uno spunto di riflessione va dedicato al profilo della possibilità di reiterazione del patto di prova nelle ipotesi di plurimi rapporti di lavoro tra datore e lavoratore, quando, ad una prima valutazione, la funzione connessa alla sperimentazione reciproca della convenienza contrattuale tra le parti parrebbe già essere stata attuata, all'esito dello svolgimento di una precedente vicenda lavorativa tra i medesimi soggetti. Ebbene, se deve ritenersi illegittimamente apposto un patto di prova che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione (per essere questa già intervenuta con esito positivo, attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, avente ad oggetto le medesime mansioni), nondimeno risulta ammissibile l'inserimento del patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati dalle stesse parti, qualora siano intervenuti nel tempo molteplici fattori attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute, con conseguente necessità di rivalutazione degli elementi di novità rispetto al rapporto di lavoro precedente.
La libera recedibilità dal patto di prova Come abbiamo visto in apertura, l'art. 2096 c.c. dispone che “… Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro”. È la cristallizzazione del c.d. principio di libera recedibilità ad nutum dal rapporto di lavoro, una ipotesi che è possibile considerare per così dire eccezionale, all'interno del contesto regolativo dell'ordinamento nostrano. Eppure, a ben vedere, la possibilità di recesso non risulta del tutto libera, essendo la valida esperibilità di tale opzione conclusiva del rapporto di lavoro comunque condizionata al rispetto di determinati presupposti, se pur incidenti a carattere indiretto. E così, il recesso datoriale potrà risultare illegittimo qualora non sia stato consentito al lavoratore di svolgere la prova o quando il periodo a tal fine previsto risulti del tutto inadeguato. Ovvero, ancora, quando il recesso non risulti collegato all'esito dell'esperimento della prova, ma sia invece imputabile a un motivo estraneo alla causa del patto, perché illecito o discriminatorio. Nonché, ancora, nel caso in cui il lavoratore sia stato utilizzato in mansioni difformi rispetto a quelle oggetto del patto, ma a condizione che esse siano significativamente diverse da quelle pattuite. Resta in ogni caso ferma la previsione di chiusura del sistema di tutela, che comporta l'illegittimità del recesso per mancato superamento del periodo di prova ogni qual volta risulti accertata la nullità del patto, con la conseguente qualificazione del rapporto di lavoro come definitivo ab origine ed applicazione delle norme in materia di licenziamento illegittimo.
In tema di riparto dell'onere probatorio, ai fini dell'applicazione della tutela reale o obbligatoria del licenziamento di cui sia stata accertata l'invalidità, sono fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l'attività e, sul piano processuale, dell'azione di impugnazione del licenziamento esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo, mentre le dimensioni dell'impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall'art. 18 St. Lav., costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi che devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. Casistica
Riferimenti Normativi: R.D.L. 13 novembre 1924, n.1825 art. 4 Codice Civile: art. 2096 Legge 15 Luglio 1966, n. 604: artt. 6 e 10 Legge 20 maggio 1970, n. 300: art. 18 Legge 28 giugno 2012, n. 92: art. 1 D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23: artt. 2, 3 e 11 Giurisprudenza Trib. Milano, sezione lavoro, sentenza n. 1556 del 26 marzo 2024 Corte d'Appello di Roma, Sezione Lavoro, Sentenza 26 settembre 2023 n. 3188 Tribunale di |Roma, Sezione Lavoro, sentenza 14 febbraio 2023 n. 1487 Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 27 febbraio 2023 n. 5881 Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 14 luglio 2023 n. 20239 Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 14 luglio 2023 n. 20239 Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 29 dicembre 2022 n. 38029 Tribunale di Novara, Sezione Lavoro, Sentenza 5 aprile 2022 n. 6 Trib. Roma, Sez. lav., 25 marzo 2021, n. 553 Trib. Prato, Sez. lav., 4 ottobre 2021, n. 150 Cassazione civ., Sez. lav., 21 aprile 2020, n. 7984 Trib. Bolzano, Sez. lav., 29 maggio 2020, n. 438 Cassazione civ. Sez. L., 9 marzo 2020 n. 6633 Corte Costituzionale 22 dicembre 1980, n. 189 Bussole di inquadramento |