Patto di provaFonte: Cod. Civ. Articolo 2096
19 Febbraio 2015
Inquadramento
Il patto di prova è uno degli elementi contrattuali che contraddistinguono un rapporto di lavoro, caratterizzato da enormi profili di rischio per il datore, atteso che nella stragrande maggioranza dei casi la forma con cui viene steso è carente degli elementi essenziali in mancanza dei quali lo stesso è nullo. La giurisprudenza è oramai concorde nel riconoscere la massima sanzione al mancato rispetto dei canoni ermeneutici che devono esser propri del patto e pertanto nella redazione del testo contrattuale si dovrà prestare la massima attenzione a quanto prescritto. Ed infatti, il patto di prova apposto al contratto di lavoro mira a tutelare l'interesse di entrambe le parti contrattuali di sperimentare la reciproca convenienza al contratto e pertanto se da un lato c'è un indubitabile vantaggio in capo al datore, atteso il regime d libera recedibilità che contraddistingue tale status, dall'altro il lavoratore avrà necessità di guarentigie volte a limitare tale potere contrattuale del datore. Pertanto gli elementi caratteristici del patto di prova sono i seguenti:
Premessa
Il patto di prova è disciplinato dall'art. 2096 c.c., e con esso le parti di un contratto di lavoro subordinato disciplinano la prima parte del rapporto di lavoro in forma temporanea e precaria, o meglio in forma sperimentale prevedendo un periodo di lavoro durante le parti possono valutare la convenienza reciproca di un eventuale rapporto di lavoro definitivo.
È un elemento accidentale del contratto di lavoro atteso che è facoltà delle parti non inserirlo tra le clausole e la disciplina contrattuale.
In ogni caso, il patto di prova:
È prevista la libera recedibilità che comporta la facoltà di recedere senza preavviso e senza motivazione e/o giustificazione se non per quella relativa al mancato superamento della stessa. Durata del patto di prova
Connaturato alla natura dell'istituto in commento è la sua durata.
La durata del patto di prova è stata oggetto di interventi giurisprudenziali volti proprio a chiarire dubbi in termini di portata dell'art. 2096 c.c.
In particolare la Corte di Cassazione è intervenuta sancendo il principio per cui l'art. 2096 c.c., non costituisce l'unica fonte di regolamentazione dell'istituto dovendo e potendo la stessa norma essere integrata da altre fonti che possono disciplinare elementi e modalità particolari di conformazione del rapporto (come si vedrà il tema della indicazione delle mansioni ne è lo specchio).
Ed infatti, secondo la Corte, è da ritenersi operativo ed operante l'art. 4 del R.D.L. 13 novembre 1924, n.1825, “che fissa la durata massima di tre mesi per il periodo di prova degli impiegati che non siano institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti” (Cass. Lavoro, sentenza n. 24282 del 29 settembre 2008) per i quali invece, in virtù del medesimo articolo e del medesimo ragionamento, il periodo massimo di prova deve considerarsi di sei mesi.
Senza considerare poi che, come detto in premessa, il termine di sei mesi, peraltro, viene preso anche in considerazione dall'art. 10 della L. 604/1966, il quale precisa che tale legge si applica anche ai lavoratori assunti in prova, dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, dal momento in cui sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro.
I contratti collettivi possono poi prevedere, derogando alle norme citate, termini diversi a seconda della qualifica e mansione del lavoratore.
Pertanto, schematizzando, il patto di prova non può avere una durata superiore:
Indicazione delle mansioni
La giurisprudenza, ormai consolidata, ha stabilito che il patto di prova apposto al contratto di lavoro deve non solo risultare da atto scritto, ma anche contenere la specifica indicazione delle mansioni da espletarsi.
Tale specificazione può operarsi:
La mancata indicazione di tutto quanto precede costituisce motivo di nullità del patto di prova (con automatica conversione dell'assunzione in definitiva sin dall'inizio), a prescindere dal livello contrattuale e dalla natura delle mansioni assegnate, atteso che:
presuppongono che questa debba effettuarsi in ordine a compiti esattamente identificati sin dall'inizio. La giurisprudenza non ammette dubbi sul punto.
Ed ancora: “Il patto di prova apposto al contratto di lavoro deve non solo risultare da atto scritto ma contenere - se del caso ponendo riferimento, eventualmente, alle previsioni del contratto collettivo ove sia in esso riportata in modo sufficientemente chiaro e preciso - anche la specifica indicazione della mansione da espletarsi, la cui mancanza costituisce motivo di nullità del patto (con automatica conversione dell'assunzione in definitiva sin dall'inizio) a prescindere dal livello contrattuale e dalla natura della mansione assegnata, atteso che, da una parte, la possibilità per il lavoratore di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini, e, dall'altra, la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria valutazione sull'esito della prova, presuppongono che questa debba effettuarsi in relazione a compiti esattamente identificati sin dall'inizio” (Cass. Lavoro, sentenza n. 21698/2006).
Ed ancora: “Il patto di prova deve contenere - nella forma scritta, imposta ad substantiam - un'indicazione specifica delle mansioni, in relazione alle quali l'esperimento deve svolgersi, affinché non possa essere facilmente eluso "l'intento della legge di richiamare l'attenzione degli stipulanti sull'importanza dell'atto, di garantire la serietà di quanto essi decidano di fare sulla base dell'atto stesso, e di rendere possibile, sempre e soprattutto, il controllo del contenuto della dichiarazione e dell'osservanza puntuale, nei fatti, di quanto da essa risultante" (così, testualmente, Cass. Lavoro, sentenza n. 2357/2003; Cass. Lavoro sentenza n. 200/1986 nonchè Cass. Lavoro sentenze numeri 5811/95, 14538/99, 2579/2000, 3451/2000, 14950/2000, nonché n. 15432/2001).
L'importanza della specificazione delle mansioni risiede nella individuazione del vero motivo alla base della indicazione delle stesse, che è quello della univoca ed ‘insindacabile' valutazione dell'esito della prova, attività giuridicamente incompatibile con una indicazione generica dell'oggetto della stessa: pertanto, in assenza di sufficiente determinatezza nelle mansioni, mancherebbe qualsiasi elemento oggettivo per la correttezza di tale valutazione. A tal fine è stato ritenuto legittimo, ai fini della validità del patto di prova, inserire un più generico ed indiretto riferimento al sistema classificatorio contenuto nella contrattazione collettiva di categoria. Tale sistema di riferimento è stato dichiarato del tutto legittimo e rispettoso delle condizioni di determinatezza e specificità delle mansioni oggetto di prova, a patto che “rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata” In conclusione, la mancata indicazione o comunque il mancato riferimento nel patto di prova alle mansioni che ne saranno oggetto (mediante anche rinvio per relazione al CCNL applicato) comporta e costituisce motivo di nullità del patto (con automatica conversione dell'assunzione in definitiva sin dall'inizio) a prescindere dal livello contrattuale e dalla natura della mansione assegnata.
Ius variandi
Oggetto di molteplici interventi in sede dottrinale e giurisprudenziale è stato anche il tema della possibilità del datore di lavoro di mutare le mansioni oggetto di prova nel corso del relativo periodo.
E pertanto la Corte ritiene compatibili il periodo di prova e le indicazioni in esso contenute in termini di mansioni con la facoltà per il datore di mutare le stesse ai sensi dell'art. 2103 c.c. rientrando “nell'autonomia delle parti eventualmente vincolare la prova alle sole mansioni di prima assegnazione con la conseguenza che solo dopo l'espletamento (e quindi il superamento) della prova il datore di lavoro possa esercitare lo ‘ius variandi'”.
In buona sostanza è consentito e sarà possibile per il datore di lavoro modificare in “corso d'opera” le mansioni oggetto del patto di prova purché tale facoltà sia espressamente prevista e concordata tra le parti in sede di contratto. Reiterazione patto di prova
Caso particolare e discusso è la possibilità di reiterare il patto di prova nelle ipotesi di plurimi rapporti di lavoro tra datore e lavoratore, ossia in quei casi in cui in realtà la ratio del periodo di prova, ossia la valutazione delle professionalità del lavoratore, è esclusa in radice per aver lo stesso già superato la stessa. La Corte di Cassazione si è occupata del problema in diverse occasioni arrivando a soluzioni non univoche.
In particolare la Suprema Corte, nella sentenza n. 27330 del 17 novembre 2008, ha rilevato come la causa tipica del patto “mira a tutelare l'interesse di entrambe le parti contrattuali di sperimentare la reciproca convenienza al contratto”, e che “deve ritenersi illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo, attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, avente ad oggetto le medesime mansioni”. Nella fattispecie sottoposta all'attenzione del giudicante, la lavoratrice aveva lavorato durante il rapporto subordinato ‘in prova' con le stesse mansioni che aveva già svolto in precedenza in virtù di un patto di Inserimento Professionale stipulato con il medesimo studio professionale.
Di diverso avviso la Cassazione nella sentenza n. 27314/2008 dove si rileva che “è ben ammissibile il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati dalle stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”. Nel caso di specie, allora, risulta rilevante ed assorbente la circostanza per cui la “materiale prestazione di attività di lavoro all'interno dell'organizzazione imprenditoriale che ne ha tratto di fatto beneficio (e che ha poi proceduto all'assunzione del lavoratore), indipendentemente dalla circostanza, in concreto irrilevante, che il lavoratore fosse obbligato alla prestazione per l'attuazione di un diverso rapporto (nel caso ora in esame di società in una cooperativa di lavoro) e il destinatario effettivo della prestazione avesse diritto a pretenderla nei confronti di altro soggetto (la cooperativa)”.
L'ultima interpretazione della Corte di Cassazione, dunque, appare quella più coerente ed anche più seguita dalle successive pronunzie. In buona sostanza ai fini della valutazione della legittima e corretta ‘sperimentazione della convenienza' oggetto del periodo di prova andrà considerata l'aspetto sostanziale ossia lo svolgimento concreto delle mansioni e se le stesse sono state svolte con tempi diversi e caratteristiche diverse non sussiste illegittimità del secondo patto di prova. E proprio di recente la Cassazione lo ha ribadito nella sentenza 3 novembre 2014, n. 23381 dove la Corte è stata chiamata a stabilire “se l'Amministrazione, nel procedere all'assunzione a tempo indeterminato del ricorrente, dopo che il medesimo era stato in precedenza assunto dalla stessa Amministrazione a tempo determinato (sei mesi), con un periodo di prova di quindici giorni e con le medesime funzioni (Comandante del Corpo di Polizia Municipale di Prato), abbia legittimamente apposto il patto di prova di sei mesi previsto dal CCNL Comparto Regioni ed Autonomie locali, patto di prova conclusosi con esito negativo e che ha comportato la risoluzione del rapporto di lavoro”. La Corte nel rigettare il ricorso ha riferito come, ferma restando la natura e la finalità del patto di prova, è ammissibile lo stesso in due contratti successivamente stipulati tra le parti, qualora siano nel tempo intervenuti nuovi e molteplici fattori da valutare, attinenti sia alle capacità professionali, che anche alle abitudini di vita o a problemi di salute del lavoratore. Tale ampliamento del ventaglio di possibilità rende di fatto libera la possibilità di appore due periodi di prova, ben potendo il datore addurre in giudizio elementi di novità di un patto di prova rispetto a quello precedente. Recesso
Il regime di recedibilità durante il periodo di prova è del tutto differente da quello proprio di un normale rapporto di lavoro, nel quale si può essere licenziati solo ricorrendo una giusta causa o un giustificato motivo.
Tale libertà si scontra chiaramente con alcuni paletti fissati dalla giurisprudenza in assenza dei quali il recesso deve considerarsi illegittimo. Tali sono la forma scritta del patto, l'accettazione espressa dello stesso da parte del lavoratore, la contestualità all'inizio del rapporto.
In mancanza di questi requisiti, si genererebbe un effetto “a cascata” in virtù del quale il patto di prova sarebbe nullo, il rapporto di lavoro sarebbe sorto a tempo indeterminato e, pertanto, il lavoratore potrebbe essere licenziato solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo con conseguente illegittimità del licenziamento per mancato superamento della prova attesa anche la mancanza di procedimento disciplinare in un caso o di motivazioni aziendali e procedura in D.T.L. dall'altro.
Ulteriore principio che limita la libera recedibilità del datore di lavoro è l'obbligo in capo a quest'ultimo di consentire lo svolgimento della prova e pertanto:
In ogni caso, la libera recedibilità verrà meno allo scadere del periodo di prova, momento nel quale l'assunzione diviene definitiva e il datore di lavoro per poter licenziare potrà farlo solo ed esclusivamente sulla base delle norme e regole in tema di giusta causa e giustificato motivo. Aspetti processuali
Il recesso durante il patto di prova può legittimare il ricorso alla procedura veloce Fornero introdotta dalla Legge n. 92/2012 (di recente esclusa dal Jobs Act per i nuovi assunti).
Ed infatti, laddove un lavoratore lamenti e dimostri la nullità del patto di prova che lo ha visto legato alla Società vedrà di conseguenza qualificato il rapporto che lo vedeva legato alla stessa come definitivo ab origine. Pertanto si tratterà di questione relativa “alla qualificazione del rapporto” che legittima il ricorso al cd. rito Fornero.
Ed infatti, accertata tale nullità e la definitività del rapporto di lavoro tra le parti, quello che il datore ha definito come recesso durante il periodo di prova, altro non è che un licenziamento illegittimo in quanto mancante della procedura disciplinare o delle motivazioni proprie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, oppure un licenziamento nullo laddove si rinvengano in esso elementi di ritorsività. Orientamenti a confronto
Casistica
Riferimenti
Normativa:
Art. 2096 c.c. Art. 18 Legge 20 maggio 1970 n. 300 Riferimenti normativiRiferimenti giurisprudenziali |