Trasferimento del lavoratore

Gabriele Livi
17 Aprile 2018

Scheda in fase di aggiornamento

Il potere direttivo spettante al datore di lavoro nel contratto di lavoro subordinato ricomprende, fra l'altro, la possibilità, nel corso del rapporto, di attuare modifiche unilaterali della prestazione lavorativa sotto forma di assegnazione del dipendente a una diversa sede di lavoro. Tale prerogativa, a seguito della modifica dell'art. 2103 c.c. attuata dall'art. 13 St. Lav., può essere esercitata nella sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, determinandosi, in assenza, la nullità dell'atto (o di un accordo in tal senso). La norma si riferisce al trasferimento da un'unità produttiva ad un'altra e non a qualsivoglia mutamento di sede di lavoro. La contrattazione collettiva spesso integra la norma di legge prevedendo condizioni aggiuntive per l'esercizio del potere di trasferimento, collegate alla distanza del luogo di trasferimento, alla anzianità di servizio e ai trattamenti economici correlati. In ogni caso, ai sensi dell'art. 15 St. Lav., il trasferimento è nullo se integra gli estremi dell'atto discriminatorio. Fattispecie quali le trasferte, il distacco, l'attività dei trasfertisti presentano talune affinità con il trasferimento e tuttavia se ne differenziano per ratio, elementi costitutivi e relativa disciplina. Si è fuori dall'art. 2103 c.c. quando il trasferimento, contemplato nel codice disciplinare aziendale, ex art. 7 St. Lav., è irrogato quale sanzione disciplinare, in reazione ad illeciti appositamente indicati. Forme rafforzate di garanzia in materia di trasferimenti si applicano ai dirigenti di rappresentanze aziendali, ai pubblici amministratori locali e, su altro versante, ai sensi della L. n. 104/1992. La giurisprudenza ha approfondito la fattispecie del trasferimento nei suoi presupposti, nelle condizioni legittimanti e nelle conseguenze del mancato rispetto dei limiti legali.

Premessa

La tematica del trasferimento del lavoratore subordinato viene qui esaminata con riguardo alla disciplina del lavoro privato, in considerazione del fatto che per i dipendenti di pubbliche amministrazioni, nonostante il processo di privatizzazione attuato sin dal D.Lgs. n. 29/1993 (ora v. D.Lgs. n. 165/2001), valgono spesso criteri in parte derogatori, che tengono anche conto delle particolari regole che sovrintendono alla organizzazione delle pubbliche amministrazioni (atti di organizzazione e di gestione, definizione piante organiche, ecc.) e delle pubbliche finalità soddisfatte o perseguite dai dipendenti pubblici (v. per es. Cass. n. 24738/2008).

Il luogo di lavoro quale presupposto del potere di trasferimento

Il trasferimento del prestatore di lavoro subordinato chiama anzitutto in causa il rilievo che assume il luogo di lavoro quale elemento caratterizzante la fattispecie. Il luogo di lavoro nel lavoro subordinato - a differenza che in quello autonomo e professionale - afferisce la prestazione stessa: il mettere le proprie energie lavorative a disposizione della controparte (locatio operarum) presuppone l'individuazione di un ambito spaziale determinato per l'adempimento; tale presupposto non è messo in dubbio, allo stato, neppure dal processo di progressiva (parziale) smaterializzazione di significativi segmenti dell'attività lavorativa, conseguente alla rivoluzione tecnologica digitale, da cui derivano nuove forme di messa a disposizione della prestazione, come anche testimoniato dallo smart working (L. n. 81/2017). Certo è che la notevole spinta che l'emergenza epidemiologica ha impresso all'utilizzo del lavoro in modalità agile, imporrà una riconsiderazione di quegli aspetti della materia, che trovano, attualmente, nella sede/luogo di lavoro (tradizionalmente inteso quale ambito spaziale in cui si colloca l'azienda e le sue varie articolazioni) un elemento di riferimento tipico e caratterizzante (v. Pasqualino Albi “Il lavoro agile fra emergenza e transizione”, in Working papers n. 430 del 2020, Unict).

Non esistendo una disposizione specifica, nel Libro V del codice (“Del lavoro”), in tema di luogo della prestazione di lavoro subordinato (salve definizioni “settoriali” come per esempio in tema di sicurezza sul lavoro: art. 62, co. 1, D.Lgs. n. 81/2008), viene in evidenza la normativa generale sul luogo di adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 1182 c.c.

Dall'art. 1182 cit. si ricava che il luogo di adempimento della prestazione lavorativa subordinata - contrassegnata in termini di obbligazione di fare a carattere continuativo - è prioritariamente e normalmente quello indicato nel contratto di lavoro e che, in difetto di una determinazione contrattuale, lo stesso può desumersi dagli usi, dalla natura della prestazione o da altre circostanze correlate.

Si osservi peraltro che la conclusione di un contratto di lavoro non è subordinata al rispetto del requisito formale (salve specifiche eccezioni, es. contratto a tempo determinato, patto di prova, ecc.): questo può fra l'altro insorgere anche per “facta concludentia”, il che vuol dire che il luogo di lavoro “emerge” dalle concrete modalità di attuazione del rapporto, anche sulla base delle indicazioni che il lavoratore riceve dal datore nell'esercizio del suo potere direttivo (art. 2094 c.c.).

Non inficia quanto rilevato il fatto che il D.Lgs. n. 152/1997 preveda l'obbligo del datore di fornire alla controparte informazioni scritte in merito al contratto di lavoro, fra le quali anche quelle relative al luogo della prestazione o alle relative modifiche: trattasi di obbligo la cui violazione comporta l'applicazione di sanzioni amministrative, ma non incide sulla validità del contratto.

In ogni caso, sebbene normalmente nel contratto di lavoro subordinato, all'atto della stipula, si ricorra alla formalizzazione, concordata per iscritto, della volontà negoziale anche con riguardo al luogo di svolgimento della prestazione (spesso in attuazione di quanto previsto dalla contrattazione collettiva di riferimento), nondimeno nel corso del rapporto, trasferimenti ad altra sede sono disposti unilateralmente dal datore di lavoro nell'esercizio del potere direttivo attribuitogli dalla legge (art. 2094 cit.); potere che, come noto, rappresenta una manifestazione del più ampio potere di organizzazione dei fattori produttivi spettante - nel paradigma-tipo del lavoro nell'impresa (art. 2082 c.c.) - al datore di lavoro/imprenditore, che lo esercita secondo le modalità ritenute più consone agli obiettivi di utilità economica.

Trasferimento e fattispecie affini

Nell'esaminare la fattispecie del trasferimento del lavoratore è bene effettuare una preventiva delimitazione di campo distinguendo questa da altre situazioni contigue, quali in particolare la trasferta, il distacco e il lavoro dei trasfertisti, per le quali vigono regole specifiche, che sottendono finalità di tutela diverse da quelle riconducibili all'art. 2103 c.c., non applicabile.

La trasferta o missione. Trasfertisti

Così, l'Istituto della trasferta o missione – previsto e disciplinato per lo più dalla contrattazione collettiva e oggetto di tutela legislativa soprattutto per quanto riguarda i profili del trattamento fiscale e contributivo-previdenziale del relativo trattamento economico (art. 51, co. 5, 6 e 7 D.P.R. n. 917/1986 e art. 12, L. n. 153/1969) – realizza una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che si distingue dal trasferimento in quanto, a differenza di questo, dà luogo ad una assegnazione o invio solo temporanei del lavoratore ad una sede di lavoro diversa da quella abituale (v. Cass. n. 24658/2008, su ipotesi di provvedimento qualificato dall'azienda come trasferta ma che per la durata prolungata viene riqualificato giudizialmente in termini di trasferimento).

L'invio in trasferta rappresenta quindi una estrinsecazione dei poteri organizzativi dell'imprenditore che – senza necessità di comprovare le ragioni sottostanti – può valutare un utile, sebbene temporaneo, impiego della prestazione del dipendente in località o sede diversa da quella abituale, facendosi peraltro carico dei connessi oneri economici “aggiuntivi”, secondo quanto normalmente previsto dalla contrattazione collettiva, la quale tra l'altro spesso definisce anche gli elementi concorrenti alla definizione della trasferta, al di là del requisito della temporaneità.

Situazione ancora differente è data dal lavoro dei trasfertisti cioè coloro che, in forza delle previsioni contrattuali, svolgono la propria attività in modo continuativo fuori dalla sede di lavoro e per i quali non sia quindi prevista una sede di lavoro predeterminata (non rientra però in tale categoria, per es., il personale di volo che ha una sede di lavoro e per il quale l'impiego nei velivoli dà luogo a missione).

Il distacco

Altro fenomeno in certa misura limitrofo al trasferimento (e alla trasferta) è il distacco - istituto in origine “ricostruito” a livello giurisprudenziale (anche in analogia con la normativa pubblicistica in tema di comando di cui all'art. 56, D.P.R. n. 3/1957) - che ha formato oggetto di disciplina espressa con il D.Lgs. n. 276/2003, all'art. 30, ai sensi del quale “l'istituto del distacco si si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa” (co. 1); la norma riecheggia l'art. 2103 c.c. laddove (co. 3) richiede la sussistenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive” nei casi di distacco presso un'unità produttiva sita a più di 50 chilometri. In ogni caso, la fattispecie si differenzia nettamente dal trasferimento anche perché pone problemi organizzativi più complessi dati dall'intreccio di situazioni soggettive attive e passive fra due diversi datori di lavoro (distaccante e distaccatario). Elementi ritenuti dalla giurisprudenza necessari perché risulti integrata la fattispecie sono poi l'interesse del distaccante (che non deve essere di ordine meramente economico) e la temporaneità del distacco (la definitività testimonia la cessione del contratto).

Art. 2103 c.c.: disciplina delle mansioni e trasferimento

La modifica del luogo di lavoro non temporanea ma definitiva (o comunque “stabile”) del dipendente trova espresso punto di riferimento nell'art. 2103 c.c., alla base di taluni presidi di natura tecnico-funzionale posti dal legislatore all'esercizio del potere datoriale. Va con l'occasione sottolineata la contiguità esistente fra trasferimento e modifica delle mansioni, confermata dallo stesso art. 2103 il quale, rubricato “mansioni del lavoratore”, disciplina entrambe, seppure con norme distinte; in ambedue i casi si assiste a una modifica - unilaterale - della prestazione pattuita e oltretutto a volte la modifica di una (mansione) converge con la modifica dell'altro (luogo), dando luogo a situazioni in cui si sovrappongono le norme applicabili. Così, per es., in caso di soppressione di una unità produttiva è ritenuto legittimo il patto di demansionamento teso ad evitare il licenziamento o il trasferimento ad unità produttiva notevolmente distante (Cass. n. 19939/2015; anche Cass. n. 4060/2008).

In una prospettiva in certa misura opposta, il trasferimento ad una sede produttiva interessata da una programmata procedura di riduzione del personale (licenziamento economico), del lavoratore già reintegrato per precedente illegittimo licenziamento, configura fattispecie (art. 1344 c.c.) in fronde alla legge in quanto tale nulla (Cass. 29007 del 2020).

L'art. 2103 c.c. - nel testo introdotto, nel 1970, dall'art. 13 St. Lav. e poi novellato con il Jobs Act (art. 3, D.Lgs. n. 81/2015, che sul versante qui considerato, del trasferimento, non ha subito modifiche - prevede, al penultimo e ultimo comma che “il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” e che “salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo”.

L'unità produttiva

È evidente che ai fini della definizione l'ubi consistam del trasferimento del lavoratore – considerato nella norma – entra in gioco e assume rilievo anzitutto il concetto di unità produttiva, di modo che non ogni spostamento del dipendente da un posto/luogo di lavoro ad un altro configura ipotesi del trasferimento.

L'espressione unità produttiva è ampiamente utilizzata nello Statuto dei Lavoratori, ai fini della applicazione delle relative norme, fra le quali l'art. 13 che ha rappresentato, come accennato, la primigenia disciplina in tema di trasferimenti (tramite riformulazione dell'art. 2103 c.c.); in particolare l'art. 35 St. Lav. evidenzia come il legislatore, con l'espressione unità produttiva, intenda “ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo(peraltro individuando un requisito dimensionale - 15 dipendenti - per il riconoscimento, nella u.p., delle prerogative di cui al titolo III, relative allo svolgimento dell'attività sindacale).

La concreta portata della nozione ha formato oggetto di indagine nella giurisprudenza anche di legittimità che ha elaborato in materia taluni principi sintetizzabili nelle massime di seguito riportate:

a) ai fini del trasferimento per unità produttiva deve intendersi l'entità aziendale che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività produttiva aziendale. Ne consegue che deve escludersi la configurabilità di un'unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell'impresa, sia rispetto ad una frazione dell'attività produttiva della stessa (Cass. 4 ottobre 2004, n. 19837; Cass. 15 maggio 2006, n. 11103);

b) al fine di stabilire la “sede di lavoro” occorre aver riguardo, piuttosto che alla dislocazione urbana degli stabilimenti e degli uffici, alla nozione di “unità produttiva”, che va individuata in ogni articolazione autonoma dell'impresa, anche se composta da stabilimenti o uffici dislocati in zone diverse dello stesso Comune, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione dell'impresa, spettando al datore di lavoro di provare l'allegata esigenza tecnico-produttiva posta a base del trasferimento dei dipendenti, facendo riferimento ad una unità produttiva nel senso sopra specificato, e non genericamente ad una sede urbana di lavoro (Cass. 20520 del 2019; Cass. 22 marzo 2005, n. 6117);

c) in tema di trasferimento del lavoratore, poiché la finalità principale della norma di cui all'art. 2103 c.c. è quella di tutelare la dignità del lavoratore e di proteggere l'insieme di relazioni interpersonali che lo legano ad un determinato complesso produttivo, le tutele previste per il lavoratore trasferito rilevano anche quando lo spostamento avvenga in un ambito geografico ristretto (ad es. nello stesso territorio comunale) da una unità produttiva ad un'altra, intendendo per unità produttiva ogni articolazione autonoma dell'azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività dell'impresa medesima, della quale costituisca una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tale che in essa si possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale (Cass. 29 luglio 2003, n. 11660);

d) anche se la nozione di trasferimento del lavoratore, ai sensi dell'art. 2103, co. 1, c.c., implica di regola il mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione, è comunque configurabile come trasferimento pure lo spostamento definitivo del luogo di lavoro da una unità produttiva all'altra anche se lo stesso non richieda il mutamento della residenza del lavoratore (Cass. 2 novembre 2011, n. 22695).

e) Sebbene di norma il trasferimento non sia configurabile quando lo spostamento venga attuato nell'ambito della medesima unità produttiva, fanno eccezione a tale regola i casi in cui l'unità produttiva comprenda uffici notevolmente distanti tra loro, potendo quindi ammettersi per essi la tutela ex art. 2103 (Cass. n. 21668 del 2019; Cass. n. 17246 del 2018).

Vi sono comunque situazioni particolari come per esempio il caso della prestazione dell'informatore medico farmaceutico, rispetto al quale in giurisprudenza si è chiarito che l'unità produttiva, in tale evenienza, è individuata con riferimento al territorio in cui vanno eseguite le prestazioni (zona di assegnazione), con la conseguenza che la tutela ex art. 2013 c.c. viene in evidenza nel caso di spostamento ad altra zona (Trib. Milano, 2 maggio 2001; per i piazzisti Cass. 157 del 1984).

La soppressione di una unità produttiva a seguito di riorganizzazione che porta ad una sede unica aziendale è stato ritenuto faccia venir meno in presupposto stesso del trasferimento (cioè sussistenza di una sede a quo diversa dalla sede ad quem: Cass. n. 24112/2016).

Unità produttiva e beni oggetto di tutela

Dalle riportate massime si evince che la nozione di unità produttiva, a seconda del significato conferito all'espressione, può incidere sulla ampiezza della tutela assicurata al lavoratore e sui “beni” oggetto della tutela stessa. Se si ragionasse semplicemente in termini di “gravosità materiale” del trasferimento, questa sarebbe apprezzabile nei casi in cui si determinino effetti sulla organizzazione della vita personale del lavoratore, così come quando lo spostamento renda necessario un cambio di residenza, o anche un maggior impegno del lavoratore nel rendere disponibile la prestazione, il che per lo più può aversi nel caso di trasferimento presso un luogo di lavoro significativamente distante.

E tuttavia, l'unità produttiva cui ha inteso riferirsi il legislatore – come emerge dal combinato disposto dell'art. 2103 e 35 St. Lav., secondo la ricostruzione della giurisprudenza – è nozione che va oltre il profilo del significativo spostamento spaziale-territoriale: la qualificazione in termini di articolazione autonoma dell'azienda porta ad attribuire rilevanza a trasferimenti in cui quel tipo di gravosità non si abbia o sia trascurabile (es.: unità produttive in uno stesso Comune), con la conseguenza che l'ambito della tutela viene esteso a valori ulteriori quali “la dignità del lavoratore e … l'insieme di relazioni interpersonali che lo legano ad un determinato complesso produttivo”, quante volte non si valichi comunque il limite “minimo” rappresentato dall'autonomia del plesso aziendale interessato.

Definizioni convenzionali di unità produttiva nella contrattazione collettiva

Spesso nei contratti collettivi nazionali, o anche di secondo livello, sono contenute definizioni convenzionali di unità produttiva rilevanti anche ai fini dell'applicazione delle norme sui trasferimenti.

Così, per fare solo un esempio fra i tanti possibili, l'art. 24 CCNL del credito dispone che “ai fini dell'applicazione del presente contratto, per unità produttive si intendono quelle previste dall'art. 24 dell'accordo 25 novembre 2015 sulle libertà sindacali”; a sua volta l'art. 24 del citato accordo prevede che: “ai fini del presente accordo nonché dei contratti collettivi o delle norme che regolano i rapporti di lavoro nel settore si intendono per unità produttive: a) la direzione generale o centrale; b) il centro contabile (meccanografico od elettronico); c) il complesso delle dipendenze comunque denominate (sedi, filiali, succursali, agenzie, uffici, ecc.) operanti nell'ambito dello stesso comune”. La definizione convenzionale di u.p. si integra con quella, sempre convenzionale, in tema di trasferimenti (art. 88 CCNL credito) che precisa il portato dell'art. 2103 c.c. in riferimento allo spostamento in “u.p. situata in diverso comune”.

Sedi di lavoro che non configurano unità produttiva. Tutela generale contro gli atti discriminatori

Quanto detto evidenzia che le limitazioni poste al potere di trasferimento ex art. 2103 c.c. non si applicano alle ipotesi di spostamento a una sede di lavoro che non si connoti nei termini di autonomia richiamati, o rispetto alla quale, sebbene dotata di autonomia, la contrattazione collettiva abbia ritenuto convenzionalmente di escludere la qualificazione in termini di unità produttiva.

Per i trasferimenti di “sede di lavoro” che non configuri una “unità produttiva” (secondo la definizione legale o convenzionale) non è quindi necessario che emergano direttamente le sottostanti “comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive”, ma è chiaro che tali ragioni saranno comunque alla base del provvedimento datoriale in una prospettiva in cui l'impresa intenda trarre la massima utilità dai fattori produttivi di cui dispone. D'altra parte, anche per tali spostamenti è ritenuto sia applicabile il limite generale contro gli atti discriminatori di cui all'art. 15 St. Lav. che sanziona con la nullità qualsiasi patto o atto diretto a discriminare il lavoratore, fra l'altro, nei trasferimenti a causa della sua affiliazione o attività sindacale, ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero, o in relazione a qualsiasi finalità di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Insindacabilità del merito

Il trasferimento deve trovare quindi giustificazione in “comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive”, salvo i casi in cui avvenga su richiesta del lavoratore stesso, fattispecie che la giurisprudenza ha ritenuto possa superare la previsione della nullità di qualsiasi atto o patto contrario (v. Cass. n. 17095/2001).

Nell'interpretare la norma la giurisprudenza più recente ha evidenziato che nel disporre il trasferimento il datore non è tenuto a indicare al lavoratore, contestualmente, i motivi sottostanti, anche in considerazione del fatto che l'adozione della misura non è subordinata a requisiti formali, salvo che questi non siano resi necessari dalla contrattazione collettiva applicabile (v. Cass. n. 12029 del 2020; Cass. 22100 del 2019; Cass. n. 807/2017; Cass. n. 5434/2015; Cass. n. 109/2004 sulla libertà di forma dell'atto). Parte della giurisprudenza ritiene inoltre che il datore neppure abbia l'obbligo di rispondere al lavoratore che ne richieda l'enunciazione, ma che solo in caso di contestazione giudiziale incomba l'onere datoriale di allegare e provare le ragioni che giustificano il provvedimento (v. Cass. n. 807 cit.). Altra giurisprudenza (v. Cass. n. 12516/2009) ha ritenuto invece che “l'onere della indicazione delle regioni del trasferimento sorge a carico del datore - pena l'inefficacia sopravvenuta del provvedimento - … ove il lavoratore ne faccia richiesta, trovando applicazione analogica l'art. 2, L. n. 604/1966, che prevede l'insorgenza di analogo onere nel caso in cui il lavoratore licenziato chieda al datore di lavoro di comunicare i motivi del licenziamento”. Il quadro di riferimento risulta però modificato a seguito delle recenti modifiche dell'ora menzionato art. 2, L. n. 604/1966 (attuate con l'art. 1, co. 37, L. n. 92/2012 e art. 4, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015), con la previsione dell'obbligo di comunicazione scritta del licenziamento e dei motivi sottostanti.

Il concetto di “ragioni tecniche organizzative e produttive di trasferimento” è ovviamente ampio: vi rientra per esempio la mobilità aziendale finalizzata a evitare licenziamenti per esubero del personale (v. Cass. n. 6289 del 2020 per un inquadramento della questione ai sensi dell'art. 4 L. n. 223 del 1991 sulla possibilità di accordi sindacali in deroga all'art. 2103 c.c. per evitare la messa in esubero; Trib. Roma, 8 gennaio 2004); l'esigenza di disporre delle competenze proprie del bagaglio professionale del dipendente presso una diversa unità produttiva, o situazioni connesse a riorganizzazione aziendale finalizzata a una più economica gestione (Cass. n. 18827/2013 che ritiene legittimo il trasferimento anche se disposto anticipatamente rispetto alla riorganizzazione); il trasferimento volto a rasserenare i rapporti nella unità produttiva, a seguito di comportamenti di un dipendente che abbiano cagionato una situazione di c.d. incompatibilità ambientale (Cass. n. 27345 del 2019; Cass. n. 27226 del 2018; Cass. n. 22059/2008; Cass n. 24775/2013; Cass. n. 2143/2017 che esclude la natura disciplinare di tale trasferimento; Cass. n. 4265/2007 sulla incompatibilità aziendale per inadeguatezza del dipendente a ricoprire un ruolo quale ragione organizzativa che legittima il trasferimento e Cass. n. 3525/2001 e n. 2143/2017 sul trasferimento cautelativo in pendenza di procedimento penale); il trasferimento per permettere di integrare un invalido assunto ex L. n. 68/1999 nel posto di lavoro (Cass. n. 24091/2009). Si veda peraltro Cass. n. 807/2017 in cui si esclude rilevi un generico richiamo a una prassi aziendale di job rotation.

In pratica, afferma la giurisprudenza, vi deve essere una corrispondenza – accertabile nel processo – fra il provvedimento adottato e le finalità tipiche dell'impresa, senza che però possano essere oggetto di verifica profili ulteriori da ritenersi afferenti al merito della scelta operata dall'imprenditore “la quale inoltre non è richiesto evidenzi i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare” (v. Cass. n. 5099/2011; Cass. n. 27/2001). In tale prospettiva, neppure è sindacabile la scelta del lavoratore da trasferire (non essendo tenuto il datore a dimostrare di aver effettuato una procedura comparativa tra possibili destinatari del provvedimento di trasferimento), salvo che risulti diversamente disposto dalla contrattazione collettiva e salva altresì l'applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede (Cass. n. 11624/2002). Diversamente da quanto ritenuto da un giudice di merito, non sono presupposti del trasferimento (cioè non rientrano nelle “comprovate ragioni”), di cui debba essere data prova in giudizio, la inutilizzabilità della prestazione del lavoratore presso la sede di provenienza, né l'impossibilità di adottare presso di essa una diversa soluzione organizzativa, alternativa al trasferimento (Cass. n. 11126/2016).

È stato ritenuto possa prescindersi dall'applicazione stessa dell'art. 2103 c.c. e dalle relative tutele nel caso in cui il trasferimento del lavoratore “non consegua a un atto unilaterale del datore nel suo esclusivo interesse, ma costituisca piuttosto misura precipuamente adottata nell'interesse del lavoratore di evitare la perdita del posto, nell'impossibilità – non altrimenti ovviabile – di prosecuzione dell'attività lavorativa nella sede di origine, oggetto di successiva chiusura (Cass. n. 3827/2000).

Trasferimento disciplinare

La giurisprudenza ritiene che il trasferimento possa essere legittimamente irrogato quale sanzione disciplinare, se ciò è previsto nel relativo codice: nel qual caso si prescinde dall'applicazione dell'art. 2013 c.c. rientrando piuttosto la fattispecie nella disciplina di cui all'art. 7 St. Lav. (v. Cass. n. 14875/2011 e giurisprudenza ivi richiamata). Per converso, il trasferimento per incompatibilità aziendale o ambientale è ritenuto risponda ai presupposti della norma codicistica e non configuri sanzione disciplinare (v. sopra). Inoltre, la giurisprudenza ritiene che un certo comportamento del lavoratore può essere a fondamento di una previa sanzione disciplinare e di un successivo trasferimento fondato ex art. 2103 cit. (Cass. n. 12735/2003).

Disciplina collettiva in tema di trasferimenti

L'art. 2013 c.c. è ampiamente integrato a livello di contrattazione collettiva, sia nazionale che aziendale, da ulteriori forme di garanzia per i dipendenti: a seconda dei casi, sono in tal senso previsti forma scritta, motivazioni e termini di preavviso; limiti connessi alla distanza del trasferimento, alla anzianità di servizio del lavoratore, alle esigenze di famiglia e di salute; trattamenti economici e indennità correlati alle esigenze di trasloco, ai costi di abitazione, ecc. (v. in materia fra le altre Cass. n. 16801/2002; Cass. n. 9459/2001, ecc.).

Al mancato rispetto del previsto obbligo, di riconoscere al lavoratore trasferito d'uffico un periodo di preavviso, non può conseguire la nullità del provvedimento per il quale sussistano le comprovate ragioni giustificative. Il diritto al preavviso ha quindi natura solo obbligatoria che può quindi comportare conseguenze in termini di ristoro economico, in presenza di aggravi di costo subiti (Cass. n. 17246 del 2018).

Trasferimento nullo e conseguente rifiuto del dipendente. Licenziamento

Ai sensi dell'art. 2103 c.c., ultimo comma, il trasferimento che non soddisfa i requisiti legittimanti è nullo e “integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro” (Cass. n. 18178/2017).

La circostanza che i motivi del trasferimento non debbano essere previamente resi noti al lavoratore (v. sopra) sposta sul piano giudiziale le possibilità per il lavoratore di tutelarsi, se del caso sul piano dei procedimenti cautelari e d'urgenza (Cass. 18866/2016).

Ad ogni modo – a fronte di un trasferimento nullo e in presenza di palese evidenza di detta nullità – la giurisprudenza ritiene che il dipendente possa legittimamente disattendere il relativo provvedimento (rifiutando di assumere servizio presso la sede indicata), sia in attuazione di eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non sussistendo una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l'ottemperanza agli stessi fino ad un concreto accertamento in giudizio (Cass. n. 13905 del 2020; Cass. n. 23595 del 2018; Cass. n. 144/2018; ma in senso parzialmente differente Cass. n. 18866/2016). Tuttavia, il rifiuto deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria (Cass. n. 434 del 2019; Cass. 22656 del 2018; Cass. n. 29054/2017). Il licenziamento intimato al dipendente che si rifiuta di attenersi all'ordine di trasferimento è illegittimo se il trasferimento è nullo, cioè non sorretto dalle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (Cass. n. 14375/2016; Cass. n. 5780/2012; Cass. 4795 del 2019; v. Cass. n. 12736/2008 per ipotesi di licenziamento legittimo in presenza di rifiuto di trasferimento giustificato). Si consideri peraltro che, a detto licenziamento, sembrano dover far seguito effetti riparatori di tipo risarcitorio a seguito dell'introduzione del D.Lgs. n. 23/2015.

A seguito di riconoscimento giudiziale della illegittimità del trasferimento (non è qui in causa ipotesi di licenziamento), il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno e ad essere riammesso presso la sua precedente sede di lavoro (Cass. n. 9530/2002): in proposito il giudice può emanare una “pronuncia di adempimento in forma specifica, che pur non essendo coercibile, né equiparabile all'ordine di reintegrazione ex art. 18 St. Lav., disposizione che ha i caratteri della eccezionalità – ha un contenuto pienamente satisfattorio dell'interesse leso in quanto diretta a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento illegittimo” (Cass. n. 16689/2008; Cass. n. 23493/2010; Cass. 20242 del 2020 per ipotesi di deroga; Cass. n. 25673 del 2019).

Il risarcimento del danno, patrimoniale o non patrimoniale, cagionato dal licenziamento illegittimo, deve essere provato dal lavoratore il quale non può limitarsi a richiedere una somma corrispondente all'indennità di trasferta attesa la disomogeneità dei due istituti, in difetto di prova che il datore avrebbe disposto la trasferta se fosse stato consapevole della nullità del trasferimento (Cass. 7350/2010).

Trasferimento collettivo

Va tenuto distinto dalla fattispecie di cui all'art. 2103 c.c. il trasferimento collettivo, col quale si indica il trasferimento che coinvolge più lavoratori contemporaneamente e che tocca interessi più ampi di quelli sottesi alla norma codicistica; in quanto provvedimento rilevante in termini di riorganizzazione aziendale merita, in adempimento delle norme contrattuali collettive, una verifica preventiva con le rappresentanze aziendali (Cass. n. 1753/1999).

Trasferimento del lavoratore portatore di handicap grave o che assiste familiare disabile

L'art. 33, co. 6, L. n. 104/1992 prevede che “La persona handicappata maggiorenne in situazione di gravitàha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferita in altra sede, senza il suo consenso”. Al riguardo in giurisprudenza si è evidenziato il principio del “trasferimento solo concordato”, che può subire limitazioni a fronte di ragioni organizzative stringenti e indifferibili, diverse da quelle previste in via ordinaria dall'art. 2103 e tali da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto nella sede originaria, da dimostrare da parte del datore interessato (Trib. Roma, 17 febbraio 2017). Inoltre, si è ritenuto che possano rilevare ai fini della sussistenza di ragioni stringenti e indifferibili per il trasferimento anche situazioni di incompatibilità ambientale (Cass. n. 27226 del 2018; Cass. n. 24775/2013).

Analoghe norme di tutela sono previste in caso di lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile (art. 33, co. 5, L. n. 104/1992), il quale è ritenuto tale anche se la disabilità non sia qualificabile come grave (Cass. n. 25379/2016; Cass. n. 2969/2021 per una ricostruzione del quadro normativo nazionale e sovranazionale e dei principi giurisprudenziali).

In entrambe le ipotesi le limitazioni al potere di trasferimento sono riferite alla “sede di lavoro”, nozione più ampia (e tutelante) rispetto a quella di unità produttiva (Cass. n. 24015/2017).

Trasferimento del dirigente sindacale. Pubblici amministratori

Una particolare tutela – rafforzata in funzione del rilievo dell'interesse collettivo sottostante – assiste il dirigente di rappresentanza sindacale aziendale, ai sensi dell'art. 22 St. Lav.: per il suo trasferimento dalla unità produttiva in cui svolge il suo mandato è richiesto il previo nulla osta dell'associazione sindacale di appartenenza (tale tutela si estende per un anno dopo la fine dell'incarico). Ai fini considerati, la nozione di unità produttiva rilevante è la medesima rispetto a quella di cui all'art. 2103 c.c. (Cass. n. 5934/1998; Cass. n. 12349/2003).

Il trasferimento disposto senza nulla osta può integrare gli estremi di condotta antisindacale azionabile ex art. 28 St. Lav. (Cass. n. 1684/2003; Trib. Milano 28 gennaio 2004). Anche lo stesso dirigente della rappresentanza sindacale aziendale, oltre l'organizzazione sindacale al quale appartiene, è legittimato a proporre diretta ed autonoma azione volta a far valere l'illegittimità del trasferimento per mancata richiesta del nulla osta sindacale prescritto dall'art. 22 St. Lav. (Cass. n. 11521/1997).

Anche gli amministratori degli enti locali, in ragione della funzione pubblica svolta, godono di una particolare tutela, non potendo disporsene il trasferimento se non dietro espresso consenso dei medesimi durante l'esercizio del mandato (art. 78, co. 6, D.Lgs. n. 267/2000).

Riferimenti normativi
  • Art. 2103 c.c.
  • Art. 22, St. Lav.
  • Art. 15, St. Lav.
  • Art. 56, D.P.R. n. 3/1957
  • Art. 2, L. n. 604/1966
  • Art. 12, L. n. 153/1969
  • Art. 51, co. 5,6,7 D.P.R. n. 917/1986
  • Art. 33, L. n. 104/1990
  • Art. 1, D.Lgs. n. 152/1997
  • Art. 78, D.Lgs. n. 267/2000
  • Art. 30, D.Lgs. n. 276/2003
  • Art. 62, D.Lgs. n. 81/2008
Sommario