DemansionamentoFonte: Cod. Civ. Articolo 2103
25 Marzo 2024
Inquadramento L'art. 2103 cod. civ. prevede in capo al datore di lavoro l'obbligo di garantire al lavoratore impiegato presso la propria azienda un inquadramento professionale ed economico adeguato alle mansioni che è chiamato a svolgere. Le parti sociali, nella loro autonomia contrattuale, determinano le qualifiche corrispondenti a mansioni catalogate. In relazione a questo principio, si parla di contrattualità delle mansioni. L'attribuzione della qualifica non deriva tanto dalla descrizione delle mansioni contenute nella lettera di assunzione quanto dalle mansioni effettivamente svolte (Cass., sez. lav., n. 32406/2023; Trib. Napoli, sez. lav., n. 5086/2022). Il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda ed è sindacabile in sede di legittimità qualora la pronuncia abbia respinto la domanda senza dare esplicitamente conto delle predette fasi (Cass., sez. lav., n. 10194/2023; Cass., sez. lav., n. 2972/2021). Introduzione L'art. 2103 cod. civ., come modificato dall'art. 3 del D.lgs. n. 81/2015, stabilisce che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Sussiste, pertanto, in capo al datore di lavoro l'obbligo di far conoscere al prestatore l'inquadramento, la categoria e la qualifica che gli sono stati assegnati in relazione alle mansioni per cui è stato assunto. Tale obbligo informativo va effettuato all'atto dell'assunzione, mediante la consegna del contratto di lavoro subordinato. Il significato dato dalla corrente dottrina al termine “mansione” è quello secondo cui le mansioni specificano, delimitandolo, l'oggetto della prestazione di mera attività, la quale sarà poi nel concreto determinata dal potere direttivo dell'imprenditore. Essa costituisce l'oggetto della prestazione dovuta, individuando l'insieme dei compiti che il lavoratore può essere chiamato a svolgere e che possono essere pretesi dallo stesso. Altro aspetto importante è quello relativo alla “qualifica” che esprime il tipo ed il livello di una figura professionale, concorrendo a determinare la posizione del lavoratore nella struttura organizzativa dell'impresa. Assegnate determinate mansioni al lavoratore, il datore di lavoro, nei limiti posti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, dovrà inquadrarlo nella qualifica corrispondente. Le “categorie” previste dalla legge e dai contratti collettivi, rappresentano il sistema di classificazione dei vari profili professionali ai fini della determinazione del trattamento economico. L'art. 2095 cod.civ. classifica i lavoratori subordinati in quattro categorie:
La contrattazione collettiva ha aggiunto a tali categorie quelle dei funzionari e degli intermedi. Mutamento delle mansioni L'art. 3 del D. Lgs. 81/2015, in attuazione dell'art. 1, c. 7, lett. e), L. n. 183/2014, revisiona la disciplina delle mansioni contenuta nell'art. 2103 cod. civ., ampliando l'ambito entro cui il datore di lavoro può modificare le mansioni del lavoratore senza il consenso dello stesso. Modifica di portata storica, basti pensare che l'ultima riscrittura del citato articolo risale al 1970, ad opera dell'art. 13 L. n. 300/1970. La nuova disposizione prevede che, affinché il datore di lavoro possa cambiare unilateralmente le mansioni assegnate al lavoratore, è sufficiente che le nuove siano riconducibili al precedente livello di appartenenza, come stabilito dai contratti collettivi. L'unica condizione richiesta, quindi, è che il mutamento rimanga all'interno dello stesso livello d'inquadramento, così venendo meno il concetto di “equivalenza” delle mansioni alle ultime svolte, intesa nel rispetto del medesimo livello di inquadramento contrattuale, del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore e del percorso di carriera futuribile dello stesso. In caso di mansioni promiscue, ove la contrattazione collettiva non preveda una regola specifica per l'individuazione della categoria di appartenenza del lavoratore, la prevalenza - a questo fine - non va determinata sulla base di una mera contrapposizione quantitativa delle mansioni svolte, bensì tenendo conto, in base alla reciproca analisi qualitativa, della mansione maggiormente significativa sul piano professionale, purché non espletata in via sporadica od occasionale (Cass., sez. lav., n. 2969/2021) Nell'ipotesi, invece, di inquadramento inferiore, il riformulato art. 2103 cod. civ. riconosce al datore di lavoro tale facoltà ancorandola alla sussistenza di una motivazione “oggettiva”, ovvero di una “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”. Dal tenore letterale della norma, si evince che il demansionamento può riguardare soltanto le mansioni relative al livello di inquadramento immediatamente inferiore a quello in cui è collocato il lavoratore al quale devono comunque essere riconosciuta la medesima retribuzione (ad esclusione degli elementi collegati alla precedente mansione come, ad esempio, l'indennità di cassa) e categoria legale. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.
Normativa in vigore fino al 24 giugno 2015 Il datore di lavoro, nell'ambito dei suoi poteri direttivi, poteva cambiare la mansione attribuita al proprio dipendente rispettando i seguenti criteri:
Le nuove mansioni attribuite al lavoratore venivano considerate equivalenti alle ultime effettivamente svolte solo quando era verificata la tutela del patrimonio professionale dello stesso. Questo poteva concretizzarsi anche con una nuova attività attribuita al lavoratore che gli consentiva di utilizzare ed arricchire il patrimonio professionale acquisito con la precedente mansione svolta (Cass., sez. lav., n. 16594/2020; Cass., sez. lav., n. 28240/2018; Cass., se. Lav., n.15010/2013). Demansionamento La professionalità del lavoratore è preservata dall'art. 2103 cod. civ., in forza del quale è fatto divieto di adibire il prestatore di lavoro a mansioni inferiori rispetto a quelle concordate in sede di assunzione, salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma (modifica degli assetti organizzativi ed ipotesi previste dai contratti collettivi). Norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sanciscono il nono e ultimo comma dell'articolo: "Ogni patto contrario è nullo". Il D.Lgs. n. 81/2015, novellando l'art. 2103 cod. civ., al sesto comma ha inoltre previsto che potranno essere stipulati accordi individuali, nelle sedi protette di cui all'art. 2113, co. 4, cod. civ. o davanti alle Commissioni di Certificazione, di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione. Tali accordi devono essere stipulati nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Pertanto, in mancanza delle condizioni di legge sopra indicate, il consenso del lavoratore non è sufficiente a dare validità al patto di demansionamento, che sarà nullo con la possibilità per lo stesso lavoratore di chiedere l'adibizione alle mansioni precedenti, le differenze retributive e l'eventuale risarcimento del danno (Cass., sez. lav., n. 19522/2021; Cass., sez. lav., n. 5621/2019). Si precisa, inoltre, che la mera tolleranza del dipendente all'attribuzione di compiti meno qualificanti rispetto al proprio inquadramento non vuol dire accettare il demansionamento (Cass., sez. lav., n. 16594/2020). Il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, viola l'art. 2103 cod. civ., sussistendo in capo al lavoratore non solo il dovere ma anche il diritto all'esecuzione della propria prestazione lavorativa, costituendo il lavoro non solo uno strumento di guadagno, ma anche una modalità di esplicazione del valore professionale e della dignità di ciascun cittadino; ne consegue che la forzata inattività del lavoratore determinata dal datore di lavoro comporta un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa. (Cass., sez. lav., n. 31182/2021). Deroghe al divieto di demansionamento In deroga a quanto previsto dall'art. 2103 cod. civ., la giurisprudenza ha ammesso in alcuni casi la possibilità di procedere all'assegnazione di mansioni inferiori. Nella tabella seguente si riportano alcune importanti sentenze e norme sul punto.
Risarcimento Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all'art. 2103 cod. civ., ma costituisce lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro. Pertanto, il lavoratore può lamentare di aver subito un pregiudizio sia patrimoniale che non patrimoniale (professionale, biologico ed esistenziale). In tale ultima ipotesi, si rammenta che la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale è una domanda di carattere onnicomprensivo e che l'unitarietà del diritto al risarcimento e la normale non frazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta; ne consegue che, laddove nell'atto introduttivo siano indicate specifiche voci di danno, a tale specificazione deve darsi valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà di escludere dal petitum le voci non menzionate (Cass., sez. lav., n. 33639/2022). Il giudice può liquidare il danno alla professionalità in via equitativa (Cass., sez. lav., n. 3131/2023; Cass., sez. lav., n. 21/219; Cass., sez. lav., n. 19923/2019; Cass., sez. lav., n. 25743/2018). Secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., incombe su quest'ultimo l'onere di provare l'esatto adempimento del proprio obbligo o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all'art. 1218 cod. civ., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass., sez. lav., 48/2024; Cass., sez. lav., n. 22488/2019; Cass., sez. lav. n. 1169/2018; Cass., sez. lav., n. 17365/2018). La natura di illecito permanente conferita alla condotta demansionante del datore di lavoro fa sì che la pretesa risarcitoria sia destinata a rinnovarsi in relazione al perpetrarsi dell'evento dannoso e che tale natura, impedendo il decorso della prescrizione fino al momento in cui il comportamento contra jus non sia cessato, consenta di ritenere insussistente alcun limite alla proposizione della domanda ed al conseguente soddisfacimento del diritto ad essa sotteso per tutta la durata in cui la condotta illecita è stata perpetuata, sempre entro i termini della prescrizione di legge (Cass., sez. lav., n. 31558/2021). Si evidenzia che la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni affermato che, non essendo configurabile nel demansionamento un danno in re ipsa, poiché quest'ultimo rappresenta una conseguenza possibile, ma non necessaria, della violazione delle norme in tema di divieto di mobilità professionale "verso il basso", l'oggettiva consistenza del pregiudizio derivante (e il nesso causale) deve essere provato dal lavoratore, il che può avvenire anche attraverso presunzioni, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, alla natura della professionalità coinvolta, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione ed alle altre circostanze del caso concreto, connesse al rapporto lavorativo (Cass., sez. lav., n. 24585/2019; Cass., sez. lav., n. 17365/2018; Cass., sez. lav., n. 13484/2018; Cass., S. U., n. 6572/2006). Sotto il profilo processuale, è stato precisato, inoltre, che ove il lavoratore richieda l'accertamento della illegittimità della destinazione ad altre mansioni e del diritto alla conservazione di quelle in precedenza svolte, costituendo il suddetto accertamento la premessa logica e giuridica per ulteriori domande di tipo risarcitorio, l'interesse ad ottenere la pronuncia permane anche dopo l'estinzione del rapporto di lavoro, incidendo quest'ultimo evento soltanto sull'eventuale domanda di condanna alla reintegrazione nelle mansioni svolte in precedenza, ma non anche sul diritto all'accertamento che tale obbligo sussisteva fino alla cessazione del rapporto (Cass., sez. lav., n. 4410/2022) Riferimenti Per i recenti orientamenti sul tema: T. Zappia, Novità sul fronte della liquidazione del danno da demansionamento?, 10 gennaio 2022; D. Tambasco, Sul rifiuto della prestazione lavorativa del dipendente in caso di demansionamento, 19 settembre 2022. Giurisprudenza Per i recenti orientamenti sul tema, v. Tribunale Bari, sez. lav., 4 maggio 2023; Cass., sez. lav., 18 ottobre 2023, n. 28923; Cass., sez. lav., 25 gennaio 2024, n. 2419. Cass. 14 aprile 2010 n. 8893 Cass. 26 giugno 2006 n. 14729 Cass. 9 marzo 2004 n. 4773 Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727 Cass. 9 settembre 2019 n. 22488 Cass. 1° luglio 2019 n. 17634 Cass. 29 marzo 2019 n. 8910 Cass. 25 settembre 2017 n. 22288 Normativa D.Lgs. 81/2015 L. 190/85 L. 300/70 Art. 2095 c.c. Art. 2103 c.c. |