Ius variandi

24 Agosto 2015

ll datore di lavoro è titolare di poteri giuridici riconosciutigli dall'ordinamento, tra i quali vi è quello di adibire il prestatore a mansioni diverse rispetto a quanto convenuto contrattualmente, comunemente denominato ius variandi, letteralmente “diritto di variare” e vuole riferirsi, in generale, ad una variazione potestativa di una situazione o di alcune componenti di essa.Tale potere risulta giustificato dalle esigenze flessibili dell'organizzazione del lavoro che spesso, per il loro carattere di eccezionalità, richiedono modifiche non prevedibili e non rimediabili con l'assunzione di altri lavoratori.
Introduzione

ll datore di lavoro è titolare di poteri giuridici riconosciutigli dall'ordinamento, tra i quali vi è quello di adibire il prestatore a mansioni diverse rispetto a quanto convenuto contrattualmente, comunemente denominato ius variandi, letteralmente “diritto di variare” e vuole riferirsi, in generale, ad una variazione potestativa di una situazione o di alcune componenti di essa.
Tale potere risulta giustificato dalle esigenze flessibili dell'organizzazione del lavoro che spesso, per il loro carattere di eccezionalità, richiedono modifiche non prevedibili e non rimediabili con l'assunzione di altri lavoratori.
Nel nostro ordinamento il libero esercizio dello ius variandi è vincolato ai limiti imposti dall'art. 2103 c.c. che contiene il cd. “principio di contrattualità delle mansioni” ovvero quello dell'equivalenza delle mansioni e quello della irriducibilità della retribuzione.
Tali limiti sono volti anche alla tutela della dignità del lavoratore, che è anche uno dei limiti all'esercizio della libera iniziativa economica posto dal secondo comma del citato art. 41 della Costituzione.
Il punto critico è quello di stabilire quando le vecchie e le nuove mansioni possano dirsi “equivalenti”, a prescindere dall'aspetto retributivo.
La massima che si è ripetuta di sovente nella giurisprudenza è quella che richiede due condizioni contemporanee:
- la prima, di tipo oggettivo, richiede che le mansioni di destinazione siano inquadrate nello stesso livello contrattuale di quelle di partenza;
- la seconda, di tipo soggettivo, richiede che le nuove mansioni consentano l'utilizzazione, il perfezionamento e l'accrescimento, del corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto.

Dal 25 giugno 2015 è entrato in vigore il D.Lgs. 81/2015 che revisiona la disciplina delle mansioni riformulando l'articolo 2103 del codice civile. Ora il datore di lavoro può adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore ovvero a quelle riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Il nuovo articolo 2103 del codice civile

L'art. 3 del D.Lgs. n. 81 del 15 giugno 2015 pubblicato nella G.U. del 26.06.2015, riscrive l'articolo 2103 del codice civile in tema di mansioni dei lavoratori.

Il nuovo testo, entrato in vigore il 25 giugno 2015, prevede che il lavoratore possa essere assegnato a qualunque mansione del livello di inquadramento, così com'è previsto nel lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione ex art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001, purché rientranti nella medesima categoria legale e non più soltanto a mansioni «equivalenti», ovvero a mansioni che implicano l'utilizzo della medesima professionalità.

È modificato, quindi, radicalmente il cd. ius variandi, ovvero la facoltà del datore di lavoro di mutare le mansioni del lavoratore, senza necessità del consenso dello stesso.

Il 2103 c.c. già legittimava il datore di lavoro a cambiare le mansioni, ma nel limite dell'equivalenza oggettiva e soggettiva, concetto molto articolato. Per la giurisprudenza andavano fatte valutazione attente, nel rispetto del patrimonio professionale del lavoratore, allo svilimento che poteva accusare il lavoratore ed al percorso di carriera futuribile dello stesso.

Ora la nuova disposizione prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Quindi non si va più a vedere l'equivalenza sia oggettiva che soggettiva in chiave professionale, ma si fa riferimento soltanto all'inquadramento contrattuale.

Ad esempio, se nel 3° livello del CCNL viene classificato sia l'impiegato amministrativo che l'impiegato addetto alla logistica, ed il datore di lavoro decide di cambiare la mansione del lavoratore da una all'altra qualifica, l'equivalenza è rispettata legittimando lo stesso ad esercitare tale variazione contrattuale.

Nell'ipotesi di passaggio a mansioni superiori, l'assegnazione diviene definitiva se viene superato il periodo fissato dai contratti collettivi, o in mancanza dopo 6 mesi consecutivi, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio (congedi, servizio militare, ferie etc).

Oltre alla modifica dello ius variandi il nuovo articolo 2103 prevede due novità di assoluto rilievo riguardanti:

  • l'inquadramento a mansioni inferiori in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore;
  • la possibilità di fare validi accordi modificativi in sede di conciliazione protetta ovvero quelle previste dall'art. 2113 del codice civile.
Inquadramento a mansioni inferiori

Il nuovo articolo 2103 del c.c. prevede tre ipotesi di passaggio a mansioni inferiori, ovvero:

  1. modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore;
  2. ipotesi previste dai contratti collettivi;
  3. sottoscrizione di accordi individuali tra datore di lavoro e lavoratore.

Nella prima ipotesi, modifica degli assetti organizzativi ovvero in presenza di processi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro potrà modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore di un livello inferiore, senza modificare il suo trattamento economico, purché rientranti nella medesima categoria (operai, impiegati, quadro). Fanno eccezione le voci retributive legate a particolari modalità della precedente prestazione che non sono più presenti nella nuova mansione, come ad esempio, l'indennità di cassa, il lavoro notturno e le trasferte.

In merito alle ipotesi previste dai contratti collettivi, si fa riferimento sia ai contratti nazionali che a quelli stipulati a livello aziendale o territoriale da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Le mansioni devono essere quelle immediatamente inferiori e devono rientrare nella medesima categoria legale. Tale possibilità in effetti era già prevista dall'art. 8 del D.L. n. 138/2011, convertito in in L. 148/2011, titolato “Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”, norma finalizzata in particolare alla maggiore occupazione, agli incrementi di competitività e di salario ed alla gestione delle crisi aziendali.

Infine la terza ipotesi riguardante la possibilità di accordi individuali tra datore di lavoro e lavoratore “in sede protetta” presso una delle sedi di conciliazione abilitate dalla legge. Con l'accordo si può prevedere la modifica dell'inquadramento di uno o più livelli inferiori e della retribuzione. La norma prevede che deve sussistere un rilevante interesse che giustifichi il ricorso all'accordo individuale, che può essere o la conservazione dell'occupazione o l'acquisizione di una diversa professionalità o il miglioramento delle condizioni di vita.

Formazione

Qualora le nuove mansioni richiedono una formazione, la norma pone a carico del datore l'obbligo di impostare un percorso formativo finalizzato ad addestrare il dipendente in merito ai nuovi compiti da svolgere, a pena non della nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni, ma di una rivendicazione risarcitoria. Ad esempio obblighi risarcitori si possono presentare per infortuni capitati per la mancata formazione.

L'obbligo formativo, tuttavia, non deve essere rispettato qualora la formazione non sia necessaria per svolgere le nuove mansioni.

Requisito di forma

Il passaggio a mansioni inferiori, nell'ipotesi di modifica degli assetti organizzativi e nelle ipotesi che possono essere previste dai CCNL, è sottoposto a un requisito di forma molto rigoroso.

Il passaggio deve essere comunicato per iscritto, a pena di nullità. La legge non richiede l'indicazione scritta delle motivazioni, e pertanto la mancanza di tale elemento non dovrebbe comportare la nullità dell'atto; appare comunque consigliabile formalizzare per iscritto la motivazione organizzativa sottesa al cambio di mansioni.

Il passaggio a mansioni inferiori intimata in forma orale pertanto non produce nessun effetto.

La variazione delle mansioni prima della riforma dell'art. 2103 c.c.

Le mansioni assegnate dal datore di lavoro, nel corso del rapporto di lavoro, potevano mutare ottenuto il consenso del lavoratore, oppure per decisione unilaterale del datore di lavoro, c.d. ius variandi.
Tuttavia, in quest'ultimo caso, occorreva salvaguardare il patrimonio professionale del lavoratore, per cui le nuove mansioni che gli venivano assegnate dovevano essere equivalenti alle ultime effettivamente svolte, mantenendo comunque il precedente livello retributivo, oppure superiori.
L'adibizione a mansioni inferiori, differentemente, potevano avvenire soltanto in casi eccezionali, ovvero con il consenso del dipendente e quale unica alternativa al licenziamento, ed in questa ipotesi si parla di “patto di dequalificazione”.
Per mansioni equivalenti andavano intese gli inquadramenti che consentivanol'utilizzo ed il perfezionamento del bagaglio di nozioni, esperienza e perizia acquisiti nella fase precedente del rapporto lavorativo.
Il datore di lavoro poteva inoltre assegnare al dipendente mansioni superiori, con il conseguente diritto per lo stesso a ricevere il trattamento economico corrispondente.
Se ciò non avveniva soltanto per un periodo limitato, ma il lavoratore svolgeva le mansioni superiori in via continuativa per più di 3 mesi, allora egli aveva diritto anche al riconoscimento della relativa qualifica superiore.
Il lavoratore che veniva adibito a mansioni inferiori, rispetto a quelle concordate in sede di assunzione o svolte successivamente, poteva avvalersi di chiedere in giudizio la riammissione nelle precedenti mansioni o in altre di contenuto equivalente, sempre nel rispetto del legittimo ius variandi del datore di lavoro.
Ove provato, al dipendente poteva essere riconosciuto anche un risarcimento del danno alla professionalità, ed in tal caso veniva liquidato dal giudice in via equitativa, prendendo come parametro la sua retribuzione mensile per ogni mese di accertato demansionamento.

Orientamento della giurisprudenza fino al 24 giugno 2015

In merito all'art. 2103 c.c. si può rilevare che la giurisprudenza l'ha inteso in modo rigoroso, atto a bilanciare l'esercizio del potere direttivo da parte del datore di lavoro con la predisposizione di una “tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti del prestatore di lavoro” come dettato dagli artt. 1, 2, 3, 4, 32, 36, 40 della Costituzione e “finalizzata alla tutela della dignità del lavoratore per preservarlo dai danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine di professionalità”. Così, in particolare, la Corte cost. 6 aprile 2004, n. 113 e Cass., Sez. Un., 7 agosto 1998, n. 7755.
La dequalificazione viene vista come “comportamento discriminatorio” atto a ledere la “dignità sociale del lavoratore” non solo sotto il profilo dei diritti di libertà e di attività sindacale ma anche dei “diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della personalità morale e civile” dello stesso. Si citano la Cass. 26 maggio 2004, n. 10157, la Cass. 23 marzo 2005, n. 6326 e Cass. 24 marzo 2006, n. 6572).

Il giudizio di equivalenza viene collegato alla verifica del mantenimento della posizione tecnico-professionale raggiunta dal lavoratore all'interno dell'organizzazione produttiva.

La Cassazione con la sentenza del 17 luglio 1998 n. 7040, ritiene che la professionalità vada intesa come complesso di attitudini e capacità acquisite dal lavoratore, sicché l'accertamento dell'equivalenza deve avvenire sulla base del bagaglio di capacità ed esperienza che costituisce il patrimonio professionale del lavoratore.

Le nuove mansioni, infine, per essere ritenute equivalenti, devono essere collocate nel medesimo livello di inquadramento contrattuale o nella stessa area professionale di quelle di provenienza (Cass. 15 febbraio 2003 n. 2328).

Nell'ambito dello ius variandi riconosciuto al datore di lavoro, la recente sentenza della Cass., Sez. lav., 29 settembre 2008, n. 24293, osserva che, per il rispetto della nozione di equivalenza di cui all'art. 2103 c.c., occorre che le mansioni di destinazione del lavoratore devono consentire l'utilizzazione ovvero il perfezionamento e l'accrescimento del corredo di esperienze, nozioni e perizie acquisite nella fase pregressa del rapporto.

L'esame della copiosa giurisprudenza sul tema, consente di constatare l'elaborazione di una serie di indici rivelatori dell'equivalenza. Essi vengono usati dalla giurisprudenza, analogamente a quanto avviene per gli indici rivelatori della subordinazione, per stabilire l'avvenuto rispetto o meno del requisito dell'equivalenza, combinati tra loro in vari modi, a seconda delle varie pronunce.

Tra di gli indici principali si possono citare i seguenti:

  • la posizione gerarchica raggiunta;
  • l'autonomia decisionale e la responsabilità operativa;
  • il potere di controllo sugli altri lavoratori;
  • il grado di soggezione e controllo cui il lavoratore è sottoposto;
  • le aspettative di carriera professionale;
  • il grado di rischio e l'aggravio delle mansioni;
  • il prestigio nell'organizzazione aziendale;
  • la varietà e la quantità delle mansioni.
Caso peculiare (ante riforma art.2103)

Di seguito si riporta, in forma schematizzata, il parere della Direzione generale del Ministero del Lavoro ad interpello presentato dal Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Consulenti del Lavoro, in merito ad un duplice ordine di questioni:

  • il primo riguarda la corretta interpretazione del disposto di cui all'art. 56 del D.Lgs. n. 151/2001, con riferimento alle modalità di esercizio del diritto della lavoratrice al rientro e alla conservazione del posto di lavoro successivamente alla fruizione del periodo di astensione per maternità, alla possibilità di sottoscrizione di accordo per l'assegnazione a mansioni inferiori con eventuale decurtazione della retribuzione;
  • il secondo, in caso di eventuale licenziamento del lavoratore collocato in solidarietà per l'impossibilità di assegnazione a mansioni equivalenti ed a seguito del rifiuto opposto dal lavoratore medesimo alla sottoscrizione di un accordo di demansionamento, sia o meno consentito all'azienda continuare a fruire del contributo di solidarietà.

INTERPELLO

del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali 21 settembre 2011, n. 39

ISTANTE: Consiglio Nazionale Ordine Consulenti del Lavoro

QUESTIONE: possibilità di considerare lecito l'accordo per l'assegnazione a mansioni inferiori con eventuale decurtazione della retribuzione, a lavoratrice rientrante in servizio prima del compimento di un anno di età del bambino.
Inoltre, in caso di soluzione negativa, nonché a seguito del rifiuto opposto dal lavoratore medesimo alla sottoscrizione di un accordo per l'adibizione a mansioni di grado inferiore, viene chiesto se l'eventuale licenziamento scaturente dalla situazione innanzi descritta, produca effetti negativi in ordine all'erogazione dei contributi integrativi riconosciuti per i contratti di solidarietà.

MOTIVAZIONE: scaturisce dall'impossibilità di assegnare la lavoratrice alle mansioni da ultimo svolte, ovvero a mansioni equivalenti, a causa della soppressione della funzione o reparto cui la stessa era adibita anteriormente all'astensione

PARERE: la Direzione generale del Ministero ritiene che si può considerare lecito il patto di demansionamento, sottoscritto tra il datore e la lavoratrice madre, rientrante in servizio in epoca antecedente al compimento di un anno di età del bambino. Tuttavia, in tal caso, occorre verificare che il contesto aziendale sia tale che, per fondate e comprovabili esigenze tecniche, organizzative e produttive o di riduzione di costi, non sussistano alternative diverse per garantire la conservazione del posto di lavoro e per consentire aliunde l'esercizio delle mansioni.

Non appare invece lecito, finché dura il periodo in cui vige il divieto di licenziamento ovvero fino al compimento di un anno del bambino, che dalla soluzione innanzi prospettata, consegua anche la decurtazione della retribuzione, in quanto tale soluzione appare in contrasto con la finalità della norma che comunque preclude il recesso datoriale anche nelle ipotesi di soppressione del posto di lavoro (a meno che non si verifichi la cessazione dell'attività dell'azienda).

Con riferimento al secondo quesito, qualora l'azienda dovesse adottare, quale extrema ratio, il provvedimento di licenziamento nei confronti di alcuni lavoratori in solidarietà per soppressione della funzione, il Ministero ritiene che ciò potrebbe comportare il venir meno dell'erogazione dei benefici di cui all'art. 5, comma 5, D.L. n. 148 del 1993 convertito in legge L. n. 236/1993, in considerazione del fatto che non sussisterebbero più, in tale ipotesi, le condizioni in forza delle quali è stata avviata la procedura per la stipulazione dei contratti di solidarietà stessi.

Dipendenti pubblici

Per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni la materia delle mansioni oggetto del contratto di lavoro non è disciplinata dall'art. 2103 c.c., ma dall'articolo 52 del D.Lgs. n. 165/2001, come modificato dall'articolo 62, D.Lgs. n. 150/2009 (c.d. Riforma Brunetta) e, naturalmente, dalla specifica normativa contrattuale collettiva.

La normativa legale sopra richiamata, per quanto qui interessa, stabilisce che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento...”.

La differenza rispetto al rapporto di lavoro alle dipendenze di privati, come affermato fino ad ora dalla prevalente giurisprudenza, riguarda l'ambito dello ius variandi che, nel lavoro privato, incontra il limite della equivalenza professionale da verificare sia sotto il profilo oggettivo (e cioè in relazione alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione), sia sotto il profilo soggettivo, che implica l'affinità professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall'interessato durante l'intero rapporto lavorativo.

Diversamente, nell'ambito dell'impiego contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, si asserisce che nell'ipotesi in cui le mansioni attribuite ad un dipendente pubblico siano modificate come conseguenza di un atto amministrativo, il giudice deve avere riguardo solo al criterio oggettivo, ovvero quello della rispondenza delle nuove mansioni a quelle del livello contrattuale di appartenenza.

In merito alla questione in argomento, la Cassazione, con la sentenza del 5 agosto 2010, n. 18283, ha affermato che “la materia della mansioni del pubblico dipendente disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1) assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale in riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa aversi riguardo alla norma generale di cui all'art. 2103 c.c. e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione”.

Riferimenti

Normativi

Art. 3 D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81

Art. 2103 c.c.

Giurisprudenza

Cass. civ., Sez. lav., 5 agosto 2010, n. 18283

Cass. civ., Sez. lav., 29 settembre 2008, n. 24293

Cass. civ., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572

Corte cost., 6 aprile 2004, n. 113

Cass. civ., 15 febbraio 2003, n. 2328

Prassi

Ministero del Lavoro, Interpello 21 settembre 2011, n. 39

Ministero del Lavoro, Circolare Lettera 25 giugno 2001

Riferimenti normativi

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