28 Giugno 2024

La retribuzione è l'obbligazione contrattuale posta a carico del datore di lavoro e si sostanzia in una dazione patrimoniale in favore del lavoratore subordinato, quale corrispettivo dovutogli per la prestazione lavorativa eseguita. Rappresenta la prestazione fondamentale e principale del datore di lavoro per l'attività lavorativa ottenuta dal lavoratore.

Nozione

Causalità, onerosità e corrispettività

La retribuzione è l'obbligazione contrattuale posta a carico del datore di lavoro e si sostanzia in una dazione patrimoniale in favore del lavoratore subordinato, quale corrispettivo dovutogli per la prestazione lavorativa eseguita. Rappresenta la prestazione fondamentale e principale del datore di lavoro per l'attività lavorativa ottenuta dal lavoratore.

Connota di onerosità il rapporto contrattuale e gli conferisce natura lavoristica, giacché il contratto di lavoro subordinato ha, tra i suoi elementi costitutivi, “onerosità” e “corrispettività”, secondo quanto emerge dall'art. 2094 c.c., che, nel qualificare il prestatore di lavoro subordinato, stabilisce che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”.

Il principio per cui il rapporto di scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione rappresenti uno degli elementi costitutivi del contratto di lavoro subordinato, con chiara fonte nella norma codicistica citata, è pacifico in giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 3975/2001).

Ne consegue che, in assenza di un corrispettivo a titolo oneroso, il rapporto instaurato non può costituire e non può essere inteso come contratto di lavoro subordinato.

L'interpretazione della retribuzione nel delineato schema di corrispettività, in cui, in uno meccanismo sinallagmatico, essa è connessa e dipendente dalla prestazione lavorativa, potrebbe essere fuorviante, se intesa solo in senso formalistico, in quanto nel rapporto di lavoro subordinato l'elemento della corrispettività può subire una compressione e una mutazione, fino ad essere limitato. Accade nei casi legalmente previsti di sospensione del rapporto lavorativo, essenzialmente per cause riconducibili al lavoratore, quali quelle di cui agli art. 2110 c.c., relative alla malattia, all'infortunio, alla gravidanza o puerperio, ovvero nelle altre ipotesi di breve sospensione lavorativa, come nelle ipotesi dei permessi sindacali, per motivi di studio o per altre fattispecie previste dalla legge o contrattualmente. In questi casi, il datore di lavoro, pur non ricevendo la prestazione lavorativa, è tenuto, comunque, in tutto o in parte, all'obbligo retributivo in favore del lavoratore, non corrispondente più ad un diretto e pieno nesso di corrispettività. L'attenuazione del principio di corrispettività è conseguenza dei diritti e delle tutele garantite ai lavoratori, di ampio spettro, in parte a copertura costituzionale, a cui corrispondono, nell'ambito del rapporto contrattuale instaurato, obblighi di connotazione sociale che il datore di lavoro è chiamato a sostenere.

Requisiti e funzione

I principi di proporzionalità e sufficienza

La retribuzione si contraddistingue, oltre che per le caratteristiche e la nozione sopra delineata, per due fondamentali ed essenziali requisiti, che, con un addentellato normativo di carattere superiore, di natura costituzionale, delineano la funzione che essa svolge e che è chiamata a perseguire.

Si tratta dei requisiti di proporzionalità e sufficienza, che devono necessariamente contraddistinguere la retribuzione, previsti espressamente dall'art. 36, comma 1, della Costituzione, che stabilisce, appunto, che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Proporzionalità e sufficienza, dunque, come criteri strutturali della retribuzione nella sua dimensione economica e patrimoniale, che divengono principi – l'uno, la sufficienza - con finalità di carattere sociale e con baricentro posto al di fuori della vicenda contrattuale, mentre l'altro – la proporzionalità – si eleva a canone di determinazione del corrispettivo, con un evidente radicamento all'interno del rapporto contrattuale.

Due principi congiunti a favore del lavoratore ma distinti nella loro identità e nel loro scopo.

  • Il principio di proporzionalità costituisce commisurazione della retribuzione in rapporto alla prestazione lavorativa eseguita, che dunque deve risultare determinata in base alla quantità e alla qualità del lavoro reso, ovvero considerando mansioni espletate, inquadramento contrattuale, competenze professionali e anzianità di servizio, nonché durata della prestazione. Si esplica nel rapporto di lavoro, nel cui ambito prende forma e si sostanzia, attraverso parametri oggettivi.
  • Il principio di sufficienza sancisce un criterio di determinazione della retribuzione che prescinde dalla prestazione lavorativa resa, risultando sottratto allo schema sinallagmatico della corrispettività e allo specifico assetto negoziale del rapporto, per essere congiunto ad un'obbligazione di carattere sociale e solidale, che trova affermazione anche nella funzione costituzionale assegnata al lavoro, oltre che a quella più specifica della retribuzione sancita dall'art. 36 Cost.

La misura della retribuzione richiesta dal principio di sufficienza deve essere tale da assicurare al lavoratore non solo il minimo vitale ma una dimensione esistenziale libera e dignitosa, per il soddisfacimento dei propri bisogni e della propria famiglia, permettendogli al contempo una piena collocazione individuale ed una attiva partecipazione nel proprio contesto sociale di riferimento, ovvero un tenore di vita socialmente equo. In questa sua dimensione, è assegnato alla retribuzione un valore sociale, quale mezzo di sostentamento che non può essere inferiore ad una soglia minima, per conseguire lo scopo sopra specificato, fermandosi qui la funzione che le è riconosciuta, giacché per altre finalità, a carattere più marcatamente solidaristico o previdenziale, sono chiamati a rispondere altri istituti.

I principi di proporzionalità e sufficienza sono immediatamente precettivi, possono cioè essere invocati direttamente dal lavoratore, trovando piena applicazione nei rapporti contrattuali privati. Sono sottoponibili al vaglio giudiziale, per accertarne o richiederne il rispetto, con un intervento volto a garantire quella soglia minima retributiva sancita dalla Costituzione. La giurisprudenza ha da sempre affermato il carattere immediatamente precettivo della disposizione di cui all'art. 36 della Cost., fin dalla celebre e storica sentenza n. 461 del 21.02.1952, a cui seguì l'altrettanto storica sentenza della Suprema Corte del 25 marzo1960, n. 636, con cui i suddetti principi hanno iniziato a trovare affermazione giurisprudenziale.

La retribuzione minima costituzionalmente garantita

L'art. 36, comma 1, Cost. non conferisce soltanto al lavoratore, che ritenga economicamente inadeguato il salario corrispostogli, il potere di agire direttamente, in via giudiziale, per invocare la violazione di quanto disposto dalla norma costituzionale e per chiedere al giudice la rideterminazione del corrispettivo dovutogli, ma sancisce, innanzitutto, un principio cardine, quello della retribuzione minima.

Il principio ha trovato sostengo ed elaborazione piena attraverso la giurisprudenza, sempre attenta sul tema, con orientamenti che lo hanno definito e consolidato nel tempo, fino alle recenti pronunce di merito e di legittimità degli ultimissimi anni, soprattutto quelle dell'ottobre 2023. Il ruolo della giurisprudenza ha supplito all'inerzia del legislatore, giacché in Italia, a differenza di tanti altri Paesi, manca una definizione e determinazione legislativa di salario minimo, una disciplina legale che lo riconosca e lo regolamenti. Il dibattito sul punto è stato sempre molto acceso e vissuto su fronti ideologici contrapposti; da ultimo, in Parlamento, è divenuto più concreto, con proposte di legge articolate, che tengono conto delle evoluzioni degli orientamenti sulla materia, delle problematiche sociali ed economiche emerse in ambito occupazionale nell'ultimo periodo, ovvero delle condizioni dei cosiddetti woorking poors. Malgrado queste stringenti necessità e l'attualità della questione, nessuna proposta di legge si è, però, al momento concretizzata.

Vi è da segnalare anche come la questione del salario minimo sia oggetto, seppur non proprio direttamente, di una recente direttiva dell'Unione Europea, che l'Italia è chiamata a recepire all'interno del proprio Ordinamento entro il 15 novembre 2024. Si tratta della Direttiva UE 2022/2041 relativa a salari minimi adeguati nell'Unione Europea, più precisamente volta a prevedere condizioni normative e contrattuali tali da promuovere salari minimi adeguati al fine di conseguire condizioni di vita e di lavoro dignitose per i lavoratori.

È stata, dunque, la giurisprudenza a svolgere un ruolo determinante nell'affermazione del principio di retribuzione minima, sviluppato attraverso una valorizzazione piena dei principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza.

Il primo passaggio di questo percorso è stato riconoscere la portata immediatamente precettiva dell'art. 36 Cost., premessa del potere affidato al giudice di sindacare, nell'esercizio della sua funzione giurisdizionale, se la singola e specifica retribuzione corrisposta ad un lavoratore sia conferme ai principi enunciati dalla norma.

La soglia minima retributiva è stata, comunemente, identificata nei minimi tabellari stabiliti dalla contrattazione collettiva, ovvero si è adottato, quale parametro di riferimento, quanto previsto dai contratti collettivi della categoria di appartenenza o del settore economico e produttivo di riferimento, i cui minimi retributivi hanno orientato nell'accertamento di adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost.

Vi è da dire che tale impostazione valutativa è risultata maggiormente sbilanciata a favore del principio di proporzionalità, giacché la contrattazione collettiva, nel definire i minimi retributivi tabellari, li pone in genere in rapporto alla prestazione lavorativa, ricercando un giusto ed equo equilibrio tra prestazione e controprestazione, valorizzando la natura corrispettiva della retribuzione. Il principio di sufficienza assolve ad una funzione sociale, di tutela delle condizioni esistenziali del lavoratore e della sua famiglia, che, da un lato, non può essere in assoluto generalizzato, dall'altro non è adeguatamente indagato e ricercato dalla contrattazione collettiva, al fine di determinare la retribuzione tabellare.

Proprio per questo i minimi tabellari hanno costituito, fin da subito, un indicatore solo orientativo, ovvero un mero parametro di riferimento, senza vincolare il giudice nel suo processo decisionale, il quale se ne può discostare, in considerazione delle specificità del singolo caso, prendendo a riferimento altri criteri, con adeguata motivazione a supporto. Il giudice può fare riferimento ad altri criteri, rappresentati, storicamente, dall'equità, dal tipo e dalla natura dell'attività svolta, dal raffronto con situazioni analoghe (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 2835/1990), dalle condizioni di mercato (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 9759/2002). L'evoluzione della giurisprudenza sul tema ha indotto a valorizzare anche altri criteri, considerati ai fini di un giudizio di conformità della singola retribuzione al dettato normativo di cui all'art. 36 Cost., quali l'importo Istat individuato come soglia di povertà assoluta, (Corte Ap. Milano, Sez. Lav., n. 579/2022; Trib di Milano, Sez. Lav., n. 673/2022); l'importo minimo impignorabile delle somme dovute a titolo di stipendio e salario ai sensi dell'art. 545 c.p.c. (Trib. di Catania, Sez. Lav., 21 luglio 2023); l'importo massimo erogato a titolo di Reddito di cittadinanza, al di sotto del quale risulterebbero violati i principi di proporzionalità e sufficienza (Trib. di Catania, Sez. Lav., 21 luglio 2023).

La giurisprudenza più recente si è messe sempre più a baluardo a difesa dei principi sanciti dall'art. 36 Cost., sancendo che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, anche ad opera delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, sia da presumersi sì conforme alle disposizioni di cui alla disposizione costituzionale ma non esonera il giudice dall'accertare che quel trattamento retributivo possa risultare in concreto lesivo del principio di proporzionalità e sufficienza (Trib. di Torino, Sez. Lav., Sent. n. 1128/2019).

Queste enunciazioni giurisprudenziali hanno trovato piena e complessiva riaffermazione in un gruppo di pronunce emesse dalla Cassazione nell'ottobre del 2023, la quale, nel ribadirle, ne ha anche in parte definito meglio ed ampliato la portata. Si tratta di sei sentenze emesse tutte il 14 settembre 2023 e pubblicate il 2 ed il 10 ottobre 2023; più precisamente trattasi delle sentenze nn. 27711, 27713, 27769, 28320, 28321 e 28323 del 2023. Hanno forza innovativa perché compendiano in maniera chiara ed ampia il tema della retribuzione minima costituzionalmente garantita, con inedite affermazioni circa l'onere della prova.

Ribadiscono, innanzitutto, che i due principi di proporzionalità e sufficienza, nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda. La retribuzione «proporzionata» è volta a garantire ai lavoratori una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata; mentre quello della retribuzione «sufficiente» dà diritto ad una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo, ovvero ad una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Il giudice è tenuto ad accertare, nel caso concreto, la sussistenza di entrambi gli elementi.

In questa attività valutativa di adeguatezza e conformità della retribuzione ai canoni costituzionali, dunque nell'individuazione dei criteri di determinazione della retribuzione minima, il giudice non deve arrestarsi ai concetti e ai parametri Istat sulla soglia di povertà e agli importi che la identificano, giacché l'art. 36 Cost. richiede che la retribuzione minima da garantire ai lavoratori non si limiti ad essere al di sotto della soglia di povertà, richiedendosi che essa permetta, al lavoratore, in un dato momento storico, di vivere con dignità e partecipazione la propria vita sociale, nel proprio ambiente di riferimento.

Inoltre, le sentenze in commento riaffermano il principio che il giudice, in questo percorso di apprezzamento della retribuzione, debba avere, come parametro di riferimento, i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva, anche quelli stabiliti in contratti collettivi di altri settori affini per mansioni analoghe, comunque ben potendosi e dovendosi discostare all'occorrenza. Il giudice può, infatti, correggerne i contenuti (in diminuzione ed in aumento), attraverso il ricorso a criteri idonei e ad indici nazionali (ed oggi anche Europei) comunemente utilizzati per l'individuazione del salario adeguato, con l'unico obbligo della motivazione congrua.

Uno degli aspetti più significativi di queste pronunce è rappresentato dal regime probatorio delineato dalla Suprema Corte, secondo cui spetta al giudice di merito valutare la conformità la retribuzione corrisposta ai criteri indicati dall'articolo 36 Cost., mentre il lavoratore, che contesti tale conformità, deve provare solo il lavoro svolto e l'entità della retribuzione, e non anche l'insufficienza o la non proporzionalità che rappresentano i criteri giuridici che il giudice deve utilizzare nell'opera di accertamento. È richiesta, comunque, la cooperazione del lavoratore, in quanto egli sarebbe tenuto a fornire utili elementi di giudizio, indicando parametri di raffronto.

Infine, le sentenze in questione tracciano, richiamando i precedenti della giurisprudenza della Corte, il percorso che permette al giudice di disapplicare la pattuizione relativa alla retribuzione giudicata non conforme ai parametri costituzionali, con sostituzione ed adeguamento giudiziale del livello retributivo. Il percorso è quello della dichiarazione di nullità della clausola del contratto individuale, per violazione di norma imperativa, con sostituzione con un livello retributivo quantificato secondo i canoni di proporzionalità e sufficienza, ai sensi e per l'effetto dell'art. 2099, comma 2, c.c. e dell'art. 1419, comma 1, c.c.

Invero, sul punto, come è stato fatto notare in dottrina, in base ai principi della nullità parziale di cui all'art. 1419 c.c., la nullità di una clausola essenziale, come è certamente la clausola sulla retribuzione, dovrebbe determinare la nullità dell'intero contratto. Senonché, soccorre, secondo la tesi affermatasi in giurisprudenza, quanto previsto dall'art. 2099 c.c., che stabilisce che, in mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice. È stato evidenziato, però, come questa lettura rappresenti una forzatura interpretativa, in quanto l'attività del giudice non è integrativa ma sostitutiva, ossia si verte in ipotesi in cui non manca una determinazione consensuale della retribuzione, giacché sussiste una previsione retributiva, che è giudicata però insufficiente. Il percorso delineato dalla giurisprudenza può trovare più solida presa richiamandosi ai principi previsti in tema di prezzi e clausole imposte dagli artt. 1419, comma 2, e art. 1339 c.c., secondo cui, in caso di difformità contrattuale, il rimedio previsto non sarebbe quello della nullità totale del contratto, che lascerebbe la parte più debole sguarnita e senza risultato utile, bensì quello più efficace e in linea con gli interessi del lavoratore,  dell'inserzione automatica della clausola o del prezzo nel contratto, che, nella fattispecie in esame, si traduce, con l'inserimento del livello retributivo ritenuto adeguato ai parametri costituzionali (Pera; Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu; Mazzotta).

I principi sanciti dalle sei sentenze dell'ottobre 2023 sono stati fatti propri dalla successiva giurisprudenza di merito, segnalandosi a tal fine Tribunale di Bari, Sez. Lav., Sent. n. 2720/2023 e Corte di Appello di Milano, Sez. Lav., n. 960/2023.

Caratteri ulteriori della retribuzione

Obbligatorietà e continuità

Carattere distintivo ulteriore della retribuzione è l'elemento dell'obbligatorietà, che deve necessariamente accompagnare la prestazione retributiva. Se la prestazione posta a carico del datore di lavoro è priva di questo elemento, ovvero risulti essere di carattere liberale, spontaneo o discrezionale, essa non configura un obbligo retributivo e, dunque, non può parlarsi di retribuzione.

Tale caratteristica discende direttamente dall'art. 2099 e dall'art. 2094 c.c.

Il vincolo obbligatorio può sorgere non solo per derivazione pattizia ma anche per condotte reiterate, continuate nel tempo, cioè per corresponsioni che si protraggono con continuità, così da far discendere e determinare l'assunzione di un impegno, trasformandosi in una prassi o in uso aziendale. In tal caso si tratta di accertare se una corresponsione, elargita originariamente in maniera spontanea e liberale, sia diventata rappresentativa di un uso negoziale ed abbia assunto natura obbligatoria, in forza di una sua ripetitività, costante ed uniforme nel tempo, così da divenire elemento integrativo del compenso (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 19123/2003).

Il requisito della continuità deve essere inteso in senso relativo, per cui, affinché sorga un vincolo obbligatorio di carattere retributivo, è sufficiente che il corrispettivo riconosciuto al lavoratore non abbia carattere transitorio, eventuale o saltuario, ma che abbia carattere di regolarità e frequenza in un determinato arco di tempo, senza che rilevi che, in presenza di determinate condizioni, possa eventualmente essere sospeso e non attribuito (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 19123/2003 e n. 15841/2003).

Di per sé, dunque, la continuità è un mero indice presuntivo dell'obbligatorietà della dazione datoriale, ma non è sua espressione diretta, dal momento che vi possono essere elargizioni occasionali a carattere retributivo (indennità una tantum), nonché, al contrario, corresponsioni non retributive, sebbene elargite con continuità, come i rimborsi spese continuativi.

Il principio di onnicomprensività

Il principio di onnicomprensività ha trovato la sua teorizzazione nelle prime elaborazioni giurisprudenziali inerenti alla nozione di retribuzione, affermandosi così storicamente a fronte dell'assenza di un criterio univoco legislativo della nozione di retribuzione. Quasi quale conseguenza di tale lacuna legislativa, ovvero per la sussistenza di plurime definizioni di retribuzione rilevanti in differenti ambiti, la giurisprudenza aveva delineato, in un primo momento, una nozione onnicomprensiva di retribuzione, strutturata da singoli elementi enucleati dalle varie differenti nozioni legali di retribuzione rintracciabili nell'Ordinamento, quali la determinatezza, l'obbligatorietà, la continuità e la corrispettività.

Il concetto di onnicomprensività è stato così costruito intorno a questi elementi, arrivando a sostenere che tutti i compensi da essi contraddistinti, riconosciuti dal datore di lavoro, al lavoratore, in dipendenza del rapporto lavorativo instaurato, fossero da considerarsi “retribuzione”, con l'eccezione essenzialmente dei rimborsi spesa.

Tale tesi è stata fin da subito, però, criticata da una buona parte della dottrina, che ha evidenziato come il principio di onnicomprensività ampliasse forzatamente il concetto di retribuzione, non rinvenendosi nell'Ordinamento una base normativa da cui potesse prender fonte, rinvenendosi un'unica sporadica fattispecie di computo onnicomprensivo, rappresentato dall'indennità di mancato preavviso di cui all'art. 2121 c.c., con l'effetto, peraltro distorsivo, ben evidenziato dalla critica, che tale ampliata nozione di retribuzione incidesse sul calcolo, amplificandolo, di alcuni istituti di matrice retributiva.

Il dibattitto determinatosi ha inciso sulle posizioni della giurisprudenza, che, recependo i rilievi della dottrina, ha modificato il suo orientamento sul tema, con la significativa sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 1073/1984. Tale pronuncia ha sancito che il principio di onnicomprensività non ha valore assoluto di regola generale, rilevando, ai fini dell'individuazione della determinazione della retribuzione, nonché delle modalità e dei termini di corresponsione della stessa, quando voluto dall'autonomia collettiva ed individuale, sempre nei limiti e nel rispetto dell'art. 36 Cost.

Pertanto, in mancanza di un'esplicita previsione di legge o di espressa previsione contrattuale, uno specifico emolumento non può essere preso in considerazione come base di calcolo di altri istituti retributivi, così come la contrattazione collettiva può legittimamente escludere alcuni emolumenti retributivi ai fini del computo di alcuni istituti retributivi indiretti (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 11834/2003).

Tale nuovo principio ha contribuito a strutturare la nozione di retribuzione minima garantita costituzionalmente, nella libertà riconosciuta alle parti contraenti di determinare e qualificare aspetti e modalità delle corresponsioni retributive.

Il concetto di onnicomprensività ha trovato successivamente una nuova dimensione, proiettandosi nella nozione di retribuzione globale di fatto, inglobante tutto quanto corrisposto dal datore di lavoro obbligatoriamente ed in via continuativa e ricorrente.

L'irriducibilità della retribuzione

L'istituto della retribuzione è affiancato dal principio di irriducibilità, che prevede che la retribuzione concordata contrattualmente non possa essere rideterminata in negativo, neanche a seguito di accordo tra le parti, essendo – appunto – irriducibile. Un'eventuale pattuizione di segno contrario sarebbe nulla.

Il principio va coordinato con il legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello “ius variandi”, assistendo, dunque, solo la retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non quelle componenti della retribuzione corrisposte per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 23205/2023).

In deroga al principio di irriducibilità, l'art. 2103, comma 6, c.c. prevede che, nelle cosiddette sedi protette, possano essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e della relativa retribuzione, quando ciò si ponga nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Parità di trattamento retributiva

La questione della parità di trattamento retributiva si pone in conseguenza diretta dei principi costituzionali che assistono l'istituto della retribuzione e delle tutele di egual matrice che garantiscono i lavoratori da ogni sorta di discriminazione lavorativa.

Tali principi sembrerebbero richiedere anche una parità di trattamento sul fronte retributivo tra lavoratori riconducibili, per varie ragioni, a gruppi tra loro omogenei (per mansioni svolte, per requisiti personali o professionali etc.), ovvero tutelare i lavoratori da discriminazioni dovute a differenti regimi retributivi riconosciuti dal datore di lavoro. In realtà, non è proprio così.

La questione si è posta significativamente a livello giurisprudenziale, essendone stata investita anche la Corte Costituzionale, nonché la Cassazione, a Sezioni Unite, che si sono pronunciate con due importanti sentenze: Corte Cost. Sent. n. 103/1989 e Cass. Civ., SS.UU., n. 6030/1993 (capofila di una serie di sentenze tutte di egual contenuto emesse in immediata successione, nn. 6031, 6032, 6033 e 6034/1993, con orientamento confermato successivamente da Cass. Civ., Sez. Lav., 9643/2004).

Il dibattito e le prese di posizioni, anche venate da contraddizioni interpretative, sono approdata ad una tesi che ormai in giurisprudenza si è consolidata, secondo la quale, sebbene nel nostro Ordinamento trovi collocazione un principio generale del diritto del lavoro, con riferimenti nelle norme interne e sovrannazionali, per il quale a parità di mansioni corrisponde parità di retribuzioni, esso non trovi nelle norme interne forza tale da trasformarsi in norma imperativa. Mancando, quindi, una norma imperativa di tal portata, trova piena affermazione l'autonomia delle parti, la contrattazione individuale e collettiva, senza che un presidio giurisdizionale possa intervenire per limitarla a favore del principio della parità di trattamento, laddove a lavoratori addetti ad identiche mansioni siano riservati trattamenti differenti, in relazione a determinate circostanze personali (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 16015/2007).

Gli elementi della retribuzione

Il primo elemento che struttura la retribuzione è rappresentato dalla cosiddetta retribuzione base, detta anche comunemente minimo tabellare. È data dal corrispettivo dovuto in conseguenza dell'inquadramento contrattuale del lavoratore, ovvero in forza della sua appartenenza ad una specifica categoria e qualifica, determinata dalla tipologia e dalla qualità della prestazione lavorativa resa, ovvero dalle mansioni. In giurisprudenza la retribuzione base è qualificata come quella retribuzione remunerativa, in via presuntiva, della prestazione normale e ordinaria del lavoratore (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 7696/1996).

Ulteriori voci della retribuzione sono le seguenti.

  • L'indennità di contingenza, che è un istituto finalizzato ad allineare la retribuzione alle dinamiche del costo della vita. Trova determinazione nella contrattazione collettiva e ciò ne fa un meccanismo di carattere retributivo in senso sostanziale.
  • Gli scatti di anzianità, che si sostanziano in aumenti retributivi che vengono riconosciuti periodicamente, generalmente ogni due anni, in base all'anzianità di servizio del lavoratore, in rapporto dunque alla durata del rapporto di lavoro in corso. Periodicità e misura vengono definiti dalla contrattazione collettiva. Tali aumenti periodici non sono attratti dai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, attinenti alla giusta determinazione della retribuzione, per cui regimi di applicazione differenti in ordine a categorie di lavoratori diverse sono ammessi e non in contrasto con le norme costituzionali (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 13544/2008).
  • I superminimi: trattasi di elementi accessori della retribuzione, costituiti da quella porzione della retribuzione che si pone al di sopra dei minimi tabellari stabiliti dai ccnl di riferimento. Hanno fonte nella contrattazione collettiva, e in questo caso hanno portata generale, nonché nel contratto individuale di lavoro, e in questo caso sono somme assegnate al singolo lavoratore. In ordine al superminimo si è posto il problema del cosiddetto assorbimento di queste somme da parte degli aumenti previsti dalla contrattazione collettiva, successivamente alla loro previsione (principio dell'assorbimento). La giurisprudenza prevalente ha risolto la questione stabilendo che i superminimi debbano ritenersi assorbiti dai futuri aumenti dei minimi tabellari, a meno che non sia espressamente previsto il contrario dalle parti (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 10495/2016) o per quei superminimi riconosciuti, su base strettamente fiduciaria, per particolari meriti del singolo lavoratore (intuitus personae).
  • Le gratifiche: trattasi di elementi aggiuntivi della retribuzione, in origine a carattere liberale o incentivante, poi strutturatesi stabilmente assumendo natura obbligatoria. La più comune e tipica è la tredicesima mensilità.
  • I premi: sono anch'essi elementi accessori della retribuzione e ne costituiscono una voce variabile. Hanno una funzione incentivante e sono, chiaramente, di carattere aleatoria, essendo la loro corresponsione dipendente dal raggiungimento di un obiettivo (aziendale o individuale), predeterminato, individuato su parametri che possono riguardare il rendimento, la produzione, il profilo economico-aziendale. Possono essere individuali o collettivi.
  • Le indennità: trattasi di voci retributive, individuate e previste dalla contrattazione collettiva, finalizzate a soddisfare le più differenti esigenze lavorative e a compensare, rectius indennizzare, differenti e specifiche condizioni di lavoro o di modalità di esecuzione della prestazione lavorativa (indennità di trasferta, indennità estera, indennità di rischio etc.).

Le forme della retribuzione

Ai sensi dell'art. 2099 c.c., la retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a cottimo e deve essere corrisposta con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito. La norma codicistica prevede che il lavoratore possa anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura.

La forma più diffusa è costituita dalla retribuzione a tempo, così che la sua determinazione si pone in rapporto alla durata temporale della prestazione, prescindendo dal rendimento lavorativo e dal risultato della prestazione. A tal fine, la retribuzione può definirsi su vari parametri temporali: retribuzione oraria, giornaliera, settimanale, mensile. Circa la retribuzione mensile, ci si è posti il problema dell'individuazione del divisore, cioè del dato numerico da utilizzare per pervenire alla retribuzione giornaliera, risolto, in giurisprudenza, passando da una tesi che lo identificava nel numero ventisei, giorni presumibili di effettiva prestazione lavorativa su base mensile, ad una tesi prevalente che lo identifica nel numero trenta, sulla base della tesi che la retribuzione è finalizzata a remunerare l'intero lasso di tempo di disponibilità del lavoratore, prescindendo dai giorni lavorativi effettivi (Cass. Civ., Sez. Lav. n. 2547/1990).

Differentemente dalla retribuzione a tempo, si pone la retribuzione a cottimo, in cui assume rilievo il risultato lavorativo, ovvero la quantità della prestazione lavorativa; quindi, più propriamente il rendimento e non tanto il risultato ottenuto, che spesso dipende da variabili non riconducibili al lavoratore. La retribuzione a cottimo trova la sua previsione negli artt. 2100 e 2101 c.c. Le due norme, che, comunque, hanno perso centralità a favore delle disposizioni della contrattazione collettiva, prevedono, la prima, il cottimo obbligatorio per quei rapporti lavorativi in cui il lavoratore, in conseguenza dell'organizzazione del lavoro, è tenuto ad un certo ritmo produttivo;  mentre, la seconda, stabilisce alcuni principi generali in ordine alla determinazione della retribuzione a cottimo, che si sostanziano nella preventiva comunicazione, ai lavoratori interessati, degli elementi costitutivi della tariffa a cottimo, le lavorazioni da eseguirsi e il compenso unitario, nonché dei dati relativi quantità di lavoro eseguito e sulla sua durata temporale.

La retribuzione in natura si pone in antitesi con la prestazione retributiva più comune, che è quella per cui vige un obbligo pecuniario in capo al datore di lavoro. La controprestazione datoriale è resa in natura, cioè con beni e servizi, secondo uno schema non trova pieno favore nell'Ordinamento, tant'è che è regolato essenzialmente in sede di contrattazione collettiva. Il tema ha investito la giurisprudenza più che altro per dirimere la natura retributiva o meno di determinate prestazione rese dal datore di lavoro, al lavoratore, come per i cosiddetti fringe benefits, arrivandosi alla conclusione, in via generale, che debba ritenersi a carattere retributivo tutto ciò che viene elargito in forza e in dipendenza del rapporto di lavoro, con continuità e periodicità (alloggio o affitto; autovettura etc.), escludendovi i rimborsi spesa e le corresponsioni a carattere risarcitorio.

Le provvigioni sono una forma di retribuzione parametrata, su base percentuale, al volume d'affari trattati o conclusi dal lavoratore, ovvero in rapporto ai contratti da questi conclusi. Può formare oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che autonomo; ha carattere aleatorio e, sovente, costituisce parte variabile del compenso. Inserita quale corrispettivo nel rapporto di lavoro subordinato, deve affiancarsi, come - appunto – parte variabile, ad una parte fissa del compenso, affinché la retribuzione possa dirsi conforme ai dettami di cui all'art. 36 Cost.

La partecipazione ai prodotti è una forma retributiva utilizzata essenzialmente nell'ambito del settore agricolo e della pesca, come retribuzione parziale e quale specie di retribuzione. Mentre, per la partecipazione agli utili, il corrispettivo è dato da un elemento non esclusivamente intrinseco all'attività lavorativa resa ma, comunque, coeva alla stessa, dato dai risultati dell'impresa, che beneficia della prestazione, i quali dipendono anche da altri fattori. Ai sensi dell'art. 2102 c.c., gli utili devono essere determinati, salvo patto contrario, in base agli utili netti o a quelli risultanti dai bilanci approvati e pubblicati.

La retribuzione nel pubblico impiego

Nel pubblico impiego privatizzato, la retribuzione, nella sua portata e in ogni suo elemento, è dettata dalla legge e dalla contrattazione collettiva e, secondo principi giurisprudenziali pacifici, non possono essere riconosciuti trattamenti retributivi non previsti dalle suddette fonti, anche se di maggior favore per il lavoratore. Ai sensi dell'art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165/2001, l'attribuzione dei trattamenti economici è riservata alla contrattazione collettiva, tant'è che non è sufficiente a tale scopo un atto deliberativo della P.A. ma occorre che il suo contenuto sia conforme a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, a pena di nullità. Tale conformità deve essere valutata in relazione al contratto collettivo di comparto correttamente applicato, a cui è vincolata l'amministrazione datrice di lavoro e in base al quale si attua e si sostanzia il principio della parità di trattamento economico di cui all'art. 45 D.lgs. n. 165/2001.

I principi testé espressi sono affermati costantemente dalla giurisprudenza e da ultimo ribaditi da Cass., ord. 11 giugno 2024, n. 16150, che ha richiamato – tra l'altro – Cass., ord. 4 marzo 2021, n. 6090; Cass., ord. 2 dicembre 2019, n. 31387; Cass., ord. 18 agosto 2020, n. 17226.

Riferimenti

Giurisprudenza:

Per i recenti orientamenti sul tema, v.   Cass. Civ. sez. lav., 22 novembre 2023, n. 32418, con commento di V.M. Manzotti - G. Lavizzari,  La retribuzione del periodo di guardia notturna in regime di reperibilità;

Tribunale Grosseto, sez. lav. 10-maggio 2023, n. 120, con commento di B. Mandelli, La retribuzione feriale e la sua quantificazione in ambito nazionale e comunitario

  • Cass., ord. 11 giugno 2024, n. 16150
  • Cass., ord. 4 marzo 2021, n. 6090
  • Cass., ord. 2 dicembre 2019, n. 31387
  • Cass., ord. 18 agosto 2020, n. 17226
  • Cass. sez. lav., 26 maggio 2000, n. 6928
  • Cass. sez. lav., 22 ottobre 1999, n. 11916

Normativi:

  • L. 27 dicembre 2017, n. 205
  • Art. 36 Cost.
  • Art. 2094 c.c.
  • Art. 2099 c.c.

Prassi:

  • INL, Nota prot. 22 maggio 2018, n. 4538
  • Agenzia delle Entrate, Circolare 19 gennaio 2007, n. 1/E

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