Diritti ed obblighi lavoratore

08 Maggio 2024

Il prestatore di lavoro subordinato è titolare di molteplici diritti nei confronti del datore e, al contempo, è assoggettato ad una serie di obblighi. Tra i diritti va menzionato, in primo luogo, quello, previsto dall'art. 36 Cost., a percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità di lavoro prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla di lui famiglia una esistenza libera e dignitosa

Inquadramento

Il prestatore di lavoro subordinato è titolare di molteplici diritti nei confronti del datore e, al contempo, è assoggettato ad una serie di obblighi.

Ciò dipende dal fatto che il contratto di lavoro subordinato dà vita ad un rapporto di durata, in cui le obbligazioni delle parti sono adempiute in maniera continuativa nel tempo, cosicché la previsione di una serie di diritti ed obblighi reciproci è necessaria per garantire che il contratto possa conservare una sua utilità nel corso della sua esecuzione, anche in ragione degli eventi che possono di volta in volta verificarsi. 

L'entità dei diritti e degli obblighi trova poi giustificazione nel fatto che la prestazione del lavoratore dipendente ha ad oggetto la messa a disposizione continuativa delle proprie energie fisiche ed intellettuali a favore della controparte, nell'ambito di una struttura totalmente organizzata da questa; ciò fa sì che egli, nel rendere una prestazione siffatta, viene ad esserne coinvolto direttamente, ed in maniera incisiva, con la sua persona, la quale non può essere separata dalle energie anzidette.

Ciò, inoltre, rende ragione della particolare disciplina delle situazioni giuridiche soggettive nascenti dal contratto di lavoro subordinato, volta a contemperare la tutela dei diritti fondamentali della persona con quella dell'autonomia privata e delle libertà economiche.

Tra i diritti va menzionato, in primo luogo, il diritto a percepire, quale corrispettivo della prestazione lavorativa, una retribuzione, il quale riceve una tutela a livello costituzionale, in quanto l'art. 36 Cost. stabilisce che tale retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e qualità di lavoro prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla di lui famiglia una esistenza libera e dignitosa.

Viene poi in rilievo il diritto del lavoratore  a svolgere la sua prestazione in conformità alle sue competenze ed alla professionalità acquisita, e che l' art.2103 c.c. definisce come diritto allo svolgimento delle mansioni per le quali egli è stato assunto, o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a  mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Il prestatore ha poi diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, secondo quanto stabilito dagli artt. 36Cost. e 2109 c.c., nonché dalla L. n. 66/2003.

Sul versante degli obblighi, il lavoratore deve attenersi alle direttive del datore, espletando la propria attività con diligenza, ai sensi dell' art. 2104 c.c., ed osservando l'obbligo di fedeltà di cui all' art. 2105 c.c.

Il diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente

Fondamentale in materia è il parametro costituzionale di cui all'art. 36 Cost., al quale è oramai riconosciuta valenza non programmatica, ma immediatamente precettiva; in tale disposizione sono enunciati i criteri della proporzionalità e della sufficienza della retribuzione, quali caratteristiche della stessa che devono essere indefettibilmente assicurate, e che valgono a  riservare la sua determinazione non interamente al libero apprezzamento delle parti o al “valore di mercato”, e a fissarne quindi condizioni minime da garantire sempre (cd. minimo costituzionale).

In evidenza: Cassazione

Per Cass. sez. lav., 30 novembre 2016 n. 24449, l'art. 36, comma 1, Cost. garantisce due diritti distinti che "nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda", e cioè il diritto ad una retribuzione proporzionata, che assicura ai lavoratori una ragionevole commisurazione del proprio compenso alla quantità e qualità dell'attività prestata, sia quello ad una retribuzione sufficiente, ossia che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle condizioni concrete di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, sicché il mancato adeguamento della retribuzione all'aumentato costo della vita, per un lungo periodo lavorativo, comporta che quanto percepito non sia più proporzionato al valore del lavoro secondo la valutazione fatta inizialmente dalle stesse parti.

La retribuzione è stabilita per lo più a tempo, generalmente con riferimento al mese (cd. mensilizzazione), ed è corrisposta, ordinariamente, in moneta (art. 2099 c.c), nella misura determinata dall'accordo delle parti, nel quale di norma è recepito quanto stabilito nel contratto collettivo; esse, anche quando decidono di aderire ad un contratto collettivo o di recepirne i contenuti, sono però libere di libere di pattuire condizioni di maggior favore, le quali prevalgono quindi su tali contenuti.

Laddove la contrattazione collettiva non abbia una tale capacità determinativa della retribuzione - ad esempio per assenza di contratti collettivi per un determinato settore lavorativo, mancata iscrizione del datore all'associazione sindacale stipulante il contratto collettivo, neppure applicato in via di mero fatto – soccorre l'intervento suppletivo del giudice, ai sensi dell' art. 2099 c.c., il quale per stabilire il compenso dovuto in conformità ai criteri dettati dall'art. 36  Cost., adeguando secondo questi il compenso di fatto corrisposto,  può utilizzare, come normalmente avviene, il contratto collettivo di oggettivo riferimento, anche se non direttamente applicabile per le ragioni anzidette, oppure  quello più affine; al giudice è comunque consentito di discostarsene al fine di dare applicazione concreta ai criteri anzidetti, pur dovendo in ciò usare un prudente apprezzamento, attesa la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale.  

In evidenza: Cassazione

Per Cass. sez. lav., 26 novembre 2015 n. 24160, il comma 1 dell'art. 2070 c.c. (secondo cui l'appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell'applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l'attività effettivamente esercitata dall'imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune, realizzata cioè secondo procedure diverse da quelle stabilite dall'art. 39 Cost., la quale ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiamo prestato adesione.

Pertanto, nell'ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell'attività svolta dall'imprenditore, il lavoratore non può aspirare all'applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato.

Recentemente, Cass. sez. lav. 02 ottobre 2023, n. 27769 ha affermato che, nell'attuazione dell'art. 36 Cost. il giudice deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, in via preliminare, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, però, anche d'ufficio, quando entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dalla norma costituzionale e ciò anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, dovendo il giudice darne una interpretazione costituzionalmente orientata;

ai fini dell'individuazione della retribuzione adeguata e sufficiente, il giudice può, altresì, utilizzare in via parametrica il trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe e, nell'ambito dei propri poteri ex art. 2099, comma 2 c.c., può fare riferimento ad indicatori economici e statistici secondo quanto suggerito dalla Direttiva 2022/2041/UE, sull'introduzione nei Paesi dell'Unione di un salario minimo.

Il giudizio di adeguamento deve avere riguardo al trattamento economico globale percepito dal lavoratore; ed un tale accertamento va effettuato tenendo conto della retribuzione base stabilita dalla contrattazione collettiva, non direttamente applicabile, e dall'indennità di contingenza, nonché dalle componenti, connotate da stabilità, della retribuzione stessa, come lo stipendio base e la tredicesima mensilità, senza potersi estendere a componenti di valenza ed origine tipicamente contrattuale (come ad esempio la quattordicesima mensilità), componenti eventuali e non ordinarie, o legate ad indici di produttività e/o redditività.

Non vige nel nostro ordinamento un principio generale ed inderogabile di omnicomprensività della retribuzione ai fini della determinazione spettante per i cosiddetti istituti indiretti (es. retribuzione da corrispondere durante le ferie, le festività, la malattia, mensilità aggiuntive), salvo le eccezioni poste dalle previsioni di cui agli artt. 2120 c.c., in tema di trattamento di fine rapporto, e 2121 c.c., in tema di computo dell'indennità di mancato preavviso.

Del pari non vige nel nostro ordinamento, con riguardo al settore lavoristico privato, un principio di parità di trattamento retributivo, nel senso che tutti i dipendenti aventi un medesimo inquadramento professionale abbiano diritto a percepire il medesimo trattamento economico da parte del datore di lavoro.

Il diritto alla retribuzione non viene meno in alcuni casi di mancata esecuzione della prestazione lavorativa; si tratta di alcune specifiche fattispecie previste dalla legge per ipotesi di assenze dal lavoro, quali infortunio, malattia, gravidanza e puerperio (art. 2110 c.c.) o a servizio militare (art. 2111 c.c.), o altre ipotesi di astensione temporanea dal lavoro (es. permessi per assistere familiari disabili ai sensi della l. n. 104 del 1992 (art. 33).

Il diritto all'espletamento di mansioni conformi alla qualifica di assunzione o alla professionalità acquisita o riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte

L'art. 2103 c.c., così come modificato dall'art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015, prevede, al comma 1, che “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

La formulazione dell'art. 2103 c.c. precedentemente in vigore non conteneva il riferimento a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte, ma a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.

Ai fini del diritto del lavoratore di essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o che ha successivamente acquisito, e del correlativo potere del datore di modificare tale adibizione (cd ius variandi), acquisiva enorme rilevanza il concetto di equivalenza, sulla cui portata si è a lungo discusso.

Con riferimento a tale concetto, nella vigenza dell'art. 2103 c.c. prima della modifica anzidetta, si riconosceva, in via di principio, alla contrattazione collettiva un ampio margine di discrezionalità nella determinazione e classificazione delle aree di equivalenza tra le mansioni in sede di definizione del sistema di inquadramento, e tale classificazione assumeva valenza indiziaria dell'equivalenza; secondo quanto affermato dalla giurisprudenza (Cass., sez. un., 24 novembre 2006, n. 25033),  anche la previsione da parte della contrattazione collettiva della fungibilità funzionale tra le mansioni non faceva venir meno il requisito dell'equivalenza, il quale doveva sussistere in concreto, cosicchè a prescindere dalla valutazione convenzionale che ne avessero fatto le parti, doveva sempre essere verificato se l'assegnazione a mansioni nuove e diverse, ancorchè rientranti nella medesima classificazione stabilita nel contratto collettivo, compromettesse o meno la professionalità raggiunta dal lavoratore.

In una tale prospettiva, secondo l'indirizzo maggioritario (Cass., sez. lav., 2 maggio 2006, n. 10091) era necessario prendere in considerazione una nozione “dinamica” di equivalenza professionale, basata sulla conservazione dei tratti essenziali delle competenze richieste al lavoratore prima e dopo il mutamento di mansioni, affinché, per effetto dell'affidamento di compiti anche del tutto estranei rispetto all'attività precedentemente svolta ed alle cognizioni tecniche già acquisite, non venisse del tutto disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato dal dipendente.

In evidenza: Cassazione

Anche in tempi successivi è stato ribadito (Cass. Sez. lav. 6 novembre 2018, n. 28240) che nell'indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali.

Nello stesso senso si è pronunciata recentemente anche Cass. sez. lav. 18 marzo 2024, n. 7209, la quale ha però evidenziato come  nella regolamentazione dello ius variandi v'è un discrimine tra il periodo precedente e quello successivo alla riforma introdotta dal d. lgs. n. 81/2015.

In evidenza: Cassazione

Per Cassazione, sez. lav., sentenza 21 agosto 2014 n. 18121, in forza dell'art. 2103 c.c. (nella formulazione allora vigente) il diritto del prestatore di lavoro ad essere adibito alle mansioni corrispondenti al suo inquadramento professionale non può subire deroghe nemmeno nel caso in cui l'assegnazione a mansioni inferiori sia temporanea, o sia effettuata solo per il tempo occorrente alla realizzazione di una nuova struttura produttiva.

Le uniche deroghe riconosciute, prima della modifica apportata dall'art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015, riguardavano ipotesi eccezionali, quali la sopravvenuta inidoneità fisica del prestatore di lavoro o, più in generale, la sussistenza di esigenze aziendali straordinarie idonee a condurre, quale unica alternativa al demansionamento, al licenziamento del dipendente.

L'attuale art. 2103 c.c., come modificato dall'art. 3 d. lgs. cit., ha dettato una disciplina apposita per regolamentare tali situazioni, avendo disposto, ai commi da 2 a 6, che: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.

Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

 Nelle sedi di cui all'art. 2113, comma 4, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.

Al comma 9 dell'articolo in questione è altresì previsto che “Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma, e fermo quanto disposto al comma 6, ogni patto contrario è nullo”.

All'esercizio dello ius variandi, in ogni caso, non può accompagnarsi una diminuzione della retribuzione (c.d. principio di irriducibilità), fatta eccezione per le indennità remunerative di particolari modalità della prestazione lavorativa (ad esempio, l'indennità di reggenza).

L'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori può dar luogo all'insorgenza di differenti profili di danno: al complesso di attitudini e capacità proprie del lavoratore, generalmente definito come professionalità; alla persona ed alla sua dignità; alla salute fisica e psichica, con conseguente diritto a chiedere il risarcimento.

In evidenza: Cassazione

Per Cassazione sez. lav. 24 gennaio 2023, n. 2122 il lavoratore oggetto di demansionamento/dequalificazione può invocare un danno professionale, biologico o esistenziale ma la sua esistenza non può ritenersi in re ipsa, gravando sullo stesso lavoratore l'onere della prova in merito, il quale può essere soddisfatto anche allegando elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.

Per Cassazione, sez. lav., 20 aprile 2018, n. 9901, nell'ipotesi di demansionamento, il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. 

Per Cassazione, sez. lav., 05 dicembre 2017, n. 29047 , in tema di danno da demansionamento, il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento.

Il fenomeno opposto al demansionamento, e cioè l'assegnazione a mansioni superiori - che non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto –fa sorgere il diritto alla loro definitiva assegnazione dopo il loro svolgimento per un periodo di tempo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a sei mesi continuativi, (cosiddetta promozione automatica), salvo diversa volontà del lavoratore.

Il diritto al riposo settimanale e alle ferie

Il prestatore ha diritto di fruire del riposo settimanale e di godere di ferie annuali retribuite, sull'ovvio presupposto della necessità di ritemprare le proprie energie dopo un periodo di ininterrotto lavoro.

L'art. 2109 c.c. prevede che il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni settimana, di regola in coincidenza con la domenica.

La predetta disposizione codicistica dispone, ancora, che il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro.

Anche  il  diritto al riposo settimanale e alle ferie retribuite ha ricevuto una tutela a livello costituzionale, in quanto l'art. 36, comma 3, Cost. ha stabilito, in aggiunta, che esso è irrinunciabile.

In evidenza. Cassazione

Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 23 giugno 2022, n. 20216, in una tale prospettiva, ha affermato che  la retribuzione da corrispondere ai lavoratori subordinati durante le ferie, la cui determinazione è rimessa alla contrattazione collettiva in mancanza di apposite previsioni da parte delle fonti legali, deve essere di importo tale da non indurre il lavoratore a rinunciare al periodo di riposo e, a tale fine  deve includere pertanto tutte le  componenti della retribuzione che si pongano in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che siano correlate allo "status" personale e professionale del lavoratore.

Il D.Lgs. n. 66/2003 e successive modificazioni reca la disciplina di dettaglio del riposo giornaliero (art. 7), delle pause (art. 8), dei riposi settimanali (art. 9), delle ferie annuali (art. 10).

In particolare:

  • il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore, fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità;
  • qualora l'orario giornaliero ecceda il limite di 6 ore, il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto, anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo. Le modalità e durata della pausa sono stabilite dai CCNL, e, in difetto, al lavoratore deve essere concessa una pausa, tra l'inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a 10 minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo;
  • il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive ogni 7 giorni, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero; tale disposizione soffre alcune deroghe nei casi stabiliti dall'art. 9 del D.Lgs. n. 66/2003;
  • il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane; tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita ad alcune categorie, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione.

La mancata fruizione  del riposo settimanale può dar luogo alla pretesa risarcitoria del lavoratore.

In evidenza: Cassazione

Per Cassazione, sez. lav., 12 gennaio 2024 n. 1350,

- la mancata fruizione del riposo giornaliero e settimanale, in assenza di previsioni legittimanti la scelta datoriale, è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto quando il lavoratore faccia valere un danno da usura psico-fisica, perché l'interesse leso dall'inadempimento del datore ha una diretta copertura costituzionale nell'art. 36 Cost., sicché la sua lesione del predetto interesse espone direttamente il datore medesimo al risarcimento del danno;

- non può invece ritenersi presunto l'ulteriore pregiudizio alla salute o danno biologico - che si concretizza in una "infermità" conseguente all'attività lavorativa continua non seguita dai riposi settimanali che il lavoratore assuma di aver subito, dovendosene invece dimostrare la sussistenza ed il nesso eziologico, a prescindere dalla presunzione di colpa insita nella responsabilità nascente dall'illecito contrattuale.

Il mancato godimento delle ferie dà diritto al pagamento di una specifica indennità, (cd monetizzazione), ma solo se ciò è dovuto alla risoluzione del rapporto di lavoro ex  art. 10, comma 2, D. lgs. n. 66/2003; si è discusso in merito alla natura di tale indennità, essendosi pervenuti alla conclusione che essa abbia una finalità mista, risarcitoria e retributiva, e che a seconda del contesto può essere attribuita rilevanza all'una o all'altra finalità.

L'obbligo di diligenza

L' art. 2104 c.c. stabilisce che il prestatore di lavoro

  • deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale;
  • deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.

Il grado di diligenza dovuta dal lavoratore, variabile secondo le peculiarità del singolo rapporto, deve essere apprezzato secondo due distinti parametri, costituiti dalla natura della prestazione, ovvero dalla complessità delle mansioni svolte anche con riferimento all'assunzione di responsabilità alle stesse collegata, e dall'interesse dell'impresa, ovvero dal raccordo della prestazione con la specifica organizzazione imprenditoriale in funzione della quale è resa (Cass., Sez. lav. 12 gennaio 2018, n. 663). 

In tale prospettiva si ritiene che rientrino nel dovere di diligenza, oltre ai comportamenti richiesti dalla prestazione contrattualmente dovuta, i soli comportamenti accessori e strumentali al suo più esatto inserimento nel ciclo produttivo e nell'organizzazione dell'impresa. Non incorre nella violazione del dovere di diligenza, imposto dall'art. 2104 c.c., al lavoratore, l'omissione da parte di quest'ultimo di una condotta che non sia prevista tra quelle contrattualmente dovute né risulti funzionale ai fini di un'esecuzione più utile della prestazione di lavoro (Cass. sez. lav. 02 febbraio 2016, n. 1978).

La diligenza postula anche lo svolgimento della prestazione secondo certe modalità, inclusa anche la velocità di esecuzione del lavoro; la soglia al di sotto della quale il lavoratore può considerarsi inadempiente è costituita dalle capacità del lavoratore medio addetto alla medesima attività.

E' pertanto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (Cass., sez. lav., 4 settembre 2014, n. 18678).

In particolare:

  • la violazione dell'obbligo di diligenza (nonché di quello di fedeltà) da parte di un dipendente comporta, oltre all'applicabilità di sanzioni disciplinari, anche l'insorgere del diritto al risarcimento dei danni, e ciò tanto più nel caso in cui il medesimo occupi una posizione di particolare responsabilità, collocandosi al vertice dell'organizzazione aziendale e svolgendo mansioni tali da improntare la vita dell'azienda; ne consegue che, ove il dirigente consenta alla clientela della banca la formazione di una esposizione debitoria anomala facendo assumere alla banca stessa rischi eccedenti l'ordinata e corrente gestione dei rapporti di mutuo, si realizza una violazione dell'obbligo di diligenza, con la produzione di un danno risarcibile pari alla perdita subita dall'istituto di credito a causa della situazione di insolvenza dei beneficiari del credito (Cass., sez. lav., 12 gennaio 2009, n. 394);
  • resta fermo - ai fini dell'affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso verificatosi nel corso dell'espletamento delle mansioni affidategli - che è anzitutto onere del datore medesimo fornire la prova che l'evento dannoso è da riconnettere ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, e cioè in rapporto di derivazione causale da tale condotta. Solo una volta che risulti assolto tale onere, il lavoratore è tenuto a provare la non imputabilità a sé dell'inadempimento (Cass., sez. lav., 23 agosto 2006, n. 18375).

L'obbligo di fedeltà

L' art. 2105 c.c. dispone che il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

Il dovere di fedeltà - riferito esclusivamente ad attività "lecite" dell'imprenditore, non potendosi richiedere al lavoratore l'osservanza di detto dovere anche quando l'imprenditore medesimo intenda perseguire interessi che non siano leciti - si sostanzia nell'obbligo del lavoratore medesimo di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi; pertanto, rientra nella sfera di tale dovere il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l'imprenditore-datore di lavoro nel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che sia necessaria, allo scopo, la configurazione di una vera e propria condotta di concorrenza sleale, in una delle forme stabilite dall'art. 2598 c.c. (Cass., sez. lav., 19 aprile 2006, n. 9056; in senso analogo Cass. sez. lav., 30 gennaio 2017, n. 2239).

Ovviamente la violazione del divieto di concorrenza riguarda non già la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella svolta illecitamente, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto di lavoro, nel corso di quest'ultimo, nel quale deve essere ricompreso però anche il periodo di preavviso (Cass., sez. lav., 11 Febbraio 2021, n. 35432).

Perché il divieto di concorrenza possa essere esteso anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro è necessario che sia concluso un apposito accordo, nei limiti stabiliti dall'art. 2125 c.c. a pena di nullità (forma scritta, previsione di un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro, contenimento del vincolo entro determinati limiti di oggetto, luogo e tempo, non potendo essere prevista una sua durata superiore a cinque anni per i dirigenti e tre per gli altri lavoratori).

Lo svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze di un'impresa in concorrenza con il datore di lavoro può configurare la violazione del divieto, sotto il profilo della "trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l'imprenditore", solo ove tale concorrenza consista in atti rientranti in prestazioni di carattere intellettuale di notevole autonomia e discrezionalità, dato che proprio coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato sono in grado - al di fuori dell'ipotesi di divulgazione di notizie riservate o di metodi di lavoro peculiari - di porre in essere quella concorrenza più intensa che il legislatore ha inteso reprimere (Cass., sez. lav., 26 ottobre 2001, n. 13329).

Dal collegamento dell'obbligo di fedeltà, di cui all' art. 2105 c.c., con i principi generali posti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cass., sez. lav., 14 dicembre 2023, n. 35066).

Gli artt. 2104 e 2105 cod. civ., secondo la giurisprudenza (Cass. Sez. lav., 07 ottobre 2019, n. 24976), non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari, che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata avente ad oggetto un facere, e che l'obbligo di fedeltà vada inteso in senso ampio e si estenda a comportamenti che per la loro natura e le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa (In applicazione di tali principi, con la sentenza innanzi richiamata, è stato ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato al lavoratore che, arrestato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, restando assente dal lavoro, aveva provveduto a comunicare al datore di lavoro solo dopo quattordici giorni dall'avvenuto arresto il proprio stato di privazione della libertà personale).

Casistica

Diligenza

Vi rientra l'obbligo del prestatore di lavoro

- di comunicare tempestivamente al datore di lavoro eventuali impedimenti nel regolare espletamento della prestazione che determinino la necessità di assentarsi, sicché il mancato rispetto di tale obbligo può giustificare il licenziamento, poiché la mancata comunicazione dell'assenza dal lavoro, anche se in astratto dovuta a motivi legittimi, è idonea ad arrecare alla controparte datoriale un pregiudizio organizzativo, derivante dal legittimo affidamento in ordine alla supposta effettiva ripresa della prestazione lavorativa (Cass., sez. lav., 13 maggio 2014, n. 10352);

  - di non rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, benché connessa a mansioni non rispondenti alla qualifica, potendo il lavoratore invocare l'art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo (Cass., sez. lav., 20 luglio 2012, n. 12696; in senso analogo Cass. sez. lav., 19 aprile 2018, n. 9736);
  - di evitare che l'attività esterna svolta in periodo di malattia, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio (Cass., sez. lav., 2 settembre 2020, n. 18245);
  - di procedere alla cura della persona e dell'abbigliamento qualora svolga la sua attività a contatto con il pubblico.

Obbligo di fedeltà

Violazione, quando il prestatore

- esercita il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell'esposizione dei fatti), e del rispetto dell'altrui dignità, si traducano in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale (Cass., sez. lav., 18 gennaio 2019, n. 1379), suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro (Cass., sez. lav., 18 settembre 2013, n. 21362; Cass. sez. lav., 27 aprile 2018, n. 10280, concernente il licenziamento di un lavoratore che aveva diffuso su "facebook" un commento offensivo nei confronti del datore); oppure quando il diritto di critica sia suscettibile di pregiudicare l'esecuzione delle disposizioni impartite dai superiori nel quadro dell'organizzazione aziendale,  dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisce loro qualità manifestamente disonorevoli (Cass. sez. lav. 13 ottobre 2021, n. 27939).

- non si attiene, nei comportamenti extralavorativi, ai principi di correttezza e buona fede, sì da danneggiare il datore di lavoro (Cass., sez. lav., 26 novembre 2014, n. 25161);

 

- dotato di particolari responsabilità nella scala gerarchica - ad es.: vicedirettore di filiale bancaria - non avvisi il datore di lavoro delle gravi irregolarità commesse dall'immediato superiore (Cass., sez. lav., 8 giugno 2001, n. 7819);

 
 

- proceda alla costituzione di una società per lo svolgimento della medesima attività economica svolta dal datore di lavoro (Cass., sez. lav., 18 luglio 2006, n. 16377);

Non violazione

- in caso di pura e semplice intenzione, manifestata dal lavoratore, di svolgere la stessa attività d'impresa del datore di lavoro, in mancanza della prova che tale proposito fosse destinato ad attuarsi in costanza di rapporto di subordinazione, trattandosi di attività meramente preparatoria, irrilevante ai fini dell'art. 2105 c.c.; infatti, per ritenersi violato l'obbligo di non concorrenza, occorre che almeno una parte dell'attività concorrenziale, che pure non abbia ancora inferto danni al datore di lavoro, sia comunque stata messa in atto (Cass., sez. lav., 23 aprile 1997, n. 3528);

  - in presenza di produzione, in una controversia di lavoro, di copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa, anche ove i documenti prodotti non abbiano avuto influenza decisiva sull'esito del giudizio, operando, in ogni caso, la scriminante dell'esercizio del diritto di cui all'art. 51 c.p., che ha valenza generale nell'ordinamento, senza essere limitata al mero ambito penalistico (Cass., sez. lav., 4 dicembre 2014, n. 25682); a meno che le modalità di apprensione della documentazione non siano in contrasto con i criteri comportamentali imposti dal dovere di fedeltà (al riguardo, Cass. sez. lav., 8 agosto 2016, n. 16629, concernente un caso in cui il lavoratore aveva effettuato una registrazione di una conversazione tra presenti all'insaputa dei partecipanti e si era impossessato di una e-mail non destinata alla sua visione).

Dalla violazione del dovere di fedeltà può derivare un obbligo risarcitorio a carico del lavoratore.

Riferimenti

Normativi:

  • Art. 36 Cost.
  • Art. 2099 c.c.
  • Art. 2103 c.c.
  • Art. 2104 c.c.
  • Art. 2105 c.c.
  • Art. 2109 c.c.
  • D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66

Giurisprudenza:

Per i recenti orientamenti sul tema, v. C. Appello Catania , 4 aprile 2023, n. 628, con commento di S. Gentiluomo, Responsabilità del sindacato. Potere di disposizione dei diritti del lavoratore in assenza di specifico mandato. Mandato espresso, tacito e presunto; Cass. ,sez. lav., 28 giugno 2023, n. 18477, con commento di G. Livi, Previdenza complementare: le quote di TFR non versate al fondo pensione spettano al lavoratore; Cass., sez. lav., 31 maggio 2023, n. 15364, con commento di T. Zappia, Datore-pubblico, progressioni orizzontali e diritto del lavoratore: occorre sempre la copertura finanziaria? Cass. sez. lav., 20 dicembre 2023, n. 35576Cass. sez. lav., 14 luglio 2023, n. 20284

  • Cass. sez. lav. 18 marzo 2024, n. 7209
  • Cass. sez. lav. 12 gennaio 2024 n. 1350
  • Cass. sez. lav. 14 dicembre 2023, n. 35066
  • Cass. sez. lav. 2 ottobre 2023, n. 27769
  • Cass. sez. lav. 23 giugno 2022, n. 20216
  • Cass. sez. lav. 13 ottobre 2021, n. 27939
  • Cass. sez. lav. 11 Febbraio 2021, n. 35432
  • Cass. sez. lav. 2 settembre 2020, n. 18245
  • Cass. Sez. lav. 7 ottobre 2019, n. 24976

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