Diritti ed obblighi lavoratore

Luigi Di Paola
20 Dicembre 2023

Il prestatore di lavoro subordinato è titolare di molteplici diritti nei confronti del datore e, al contempo, è assoggettato ad una serie di obblighi. Tra i diritti va menzionato, in primo luogo, quello, previsto dall'art. 36 Cost., al percepimento di una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità di lavoro prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla di lui famiglia una esistenza libera e dignitosa...

Inquadramento

Il prestatore di lavoro subordinato è titolare di molteplici diritti nei confronti del datore e, al contempo, è assoggettato ad una serie di obblighi.

Tra i diritti va menzionato, in primo luogo, quello, previsto dall' art. 36 Cost., al percepimento di una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità di lavoro prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla di lui famiglia una esistenza libera e dignitosa.

Viene poi in rilievo il diritto, sancito dall' art. 2103 c.c., allo svolgimento di mansioni per le quali il prestatore è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero all'espletamento di mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Il fenomeno opposto dell'assegnazione a mansioni superiori - che non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto - dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a sei mesi continuativi, determina il diritto alla cosiddetta promozione automatica, salvo diversa volontà del lavoratore.

Il prestatore ha poi diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, secondo quanto stabilito dagli artt. 36 Cost. e 2109 c.c., nonché dalla L. n. 66/2003.

Sul versante degli obblighi, il lavoratore deve attenersi alle direttive del datore, espletando la propria attività con diligenza, ai sensi dell' art. 2104 c.c., ed osservando l'obbligo di fedeltà di cui all' art. 2105 c.c.

Il diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente

Fondamentale in materia è il parametro costituzionale di cui all'art. 36 Cost., avente valenza immediatamente precettiva, ove è enunciato il criterio della proporzionalità e della sufficienza della retribuzione.

In evidenza: Cassazione

Per la Cass. sez. lav., 30 novembre 2016 n. 24449, l'art. 36, comma 1, Cost. garantisce sia il diritto ad una retribuzione proporzionata, che assicura ai lavoratori una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e qualità dell'attività prestata, sia quello ad una retribuzione sufficiente, ossia che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle condizioni concrete di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera dignitosa, sicché il mancato adeguamento della retribuzione all'aumentato costo della vita, per un lungo periodo lavorativo, comporta che quanto percepito non sia più proporzionato al valore del lavoro secondo la valutazione fatta inizialmente dalle stesse parti (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva riconosciuto, ad una lavoratrice subordinata con mansioni di addetta alle pulizie, l'adeguamento della retribuzione, fissata, fino al 1995, in lire settemila orarie e successivamente in lire dodicimila, quantificando, equitativamente in forza dell'art. 432 c.p.c., l'importo delle differenze retributive in euro venticinque mensili, in considerazione dell'orario di lavoro e dei minimi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva).

La retribuzione è stabilita per lo più a tempo ed è corrisposta, ordinariamente, in moneta, nella misura determinata dall'accordo delle parti (in difetto del quale opera l'intervento suppletivo del giudice, ai sensi dell' art. 2099 c.c.), nel quale di norma è recepito quanto stabilito nel contratto collettivo, la cui efficacia vincolante cessa in presenza di condizioni di maggior favore pattuite individualmente.

Laddove la contrattazione collettiva non abbia capacità determinativa - ad esempio per mancata iscrizione del datore all'associazione sindacale stipulante il contratto collettivo, neppure applicato in via di fatto - soccorrerà il giudizio del giudice, che per prassi utilizzerà, nell'operare l'adeguamento del compenso in conformità ai criteri sopra detti, il contratto collettivo, pur non direttamente applicabile, di oggettivo riferimento, o quello più affine, essendo comunque sempre consentiti scostamenti (sui quali non si registra ancora una uniformità di posizioni).

In evidenza: Cassazione

Per la Cass. sez. lav., 26 novembre 2015 n. 24160, il comma 1 dell'art. 2070 c.c. (secondo cui l'appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell'applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l'attività effettivamente esercitata dall'imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune, che ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiamo prestato adesione. Pertanto, nell'ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell'attività svolta dall'imprenditore, il lavoratore non può aspirare all'applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato.

Il giudizio di adeguamento deve avere riguardo al trattamento economico globale percepito dal lavoratore; ed un tale accertamento va effettuato tenendo conto della retribuzione base stabilita dalla contrattazione collettiva, non direttamente applicabile, e dall'indennità di contingenza, nonché dalle componenti, connotate da stabilità, della retribuzione stessa, ovvero allo stipendio base, alla tredicesima mensilità, al compenso per lavoro straordinario ecc …, senza potersi estendere a componenti di valenza ed origine tipicamente contrattuale (come ad esempio la quattordicesima mensilità) e per di più legate ad indici di produttività e/o redditività.

Il criterio di adeguatezza della retribuzione alla quantità di lavoro svolto comporta, in caso di effettuazione del lavoro straordinario, un aumento della retribuzione rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario.

Non vige nel nostro ordinamento un principio generale ed inderogabile di omnicomprensività della retribuzione ai fini della determinazione spettante per i cosiddetti istituti indiretti, salvo le eccezioni poste dalle previsioni di cui agli artt. 2120 c.c., in tema di trattamento di fine rapporto, e 2121 c.c., in tema di computo dell'indennità di mancato preavviso.

Del pari non vige nel nostro ordinamento, con riguardo al settore lavoristico privato, un principio di parità di trattamento retributivo.

Il diritto alla retribuzione non è escluso in caso di assenza dal lavoro del dipendente dovuta ad infortunio, malattia, gravidanza e puerperio (art. 2110 c.c.) o a servizio militare (art. 2111 c.c.).

Il diritto all'espletamento di mansioni conformi alla qualifica di assunzione o alla professionalità acquisita o riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte

L'art. 2103 c.c., così come modificato dall'art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015, prevede, al comma 1, che “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 21 agosto 2014 n. 18121, in forza dell'art. 2103 c.c. il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, non rilevando in alcun modo che l'assegnazione a mansioni inferiori sia temporanea, o effettuata solo per il tempo occorrente alla realizzazione di una nuova struttura produttiva.

Era fatta salva, nella vigenza della vecchia disciplina, la ricorrenza di ipotesi eccezionali, quali la sopravvenuta inidoneità del prestatore di lavoro o, più in generale, la sussistenza di esigenze aziendali straordinarie idonee a condurre, in difetto del demansionamento, al licenziamento del dipendente.

Ora, sul punto, l'attuale art. 2103 c.c. dispone, ai commi da 2 a 6, che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi. Nelle ipotesi di cui al secondo e al comma 4, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Nelle sedi di cui all'art. 2113, comma 4, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.

Al comma 9 dell'articolo in questione è previsto che “Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al comma 6, ogni patto contrario è nullo”.

Quanto, in particolare, alla portata del concetto di equivalenza, nella disciplina previgente si riconosceva, in via di principio, alla contrattazione collettiva un ampio margine di discrezionalità nella determinazione e classificazione delle aree di equivalenza tra le mansioni in sede di definizione del sistema di inquadramento, e tale classificazione assumeva valenza indiziaria dell'equivalenza.

Si riteneva che l'equivalenza delle mansioni dovesse sussistere in concreto, a prescindere dalla valutazione convenzionale che ne avessero fatto le parti; tuttavia in giurisprudenza (Cass., sez.un., 24 novembre 2006, n. 25033) si ammetteva che la contrattazione collettiva pootesse rendere fungibili per temporanee esigenze aziendali anche mansioni che esprimono professionalità di grado diverso (non legalmente equivalenti a norma dell'art. 2103, comma 1, c.c.) purché fossero contrattualmente equivalenti, in quanto classificate nella medesima categoria e allo stesso livello retributivo.

Secondo l'indirizzo maggioritario (Cass., sez. lav., 2 maggio 2006, n. 10091) era necessario aderire ad una nozione “dinamica” di equivalenza professionale, basata sulla conservazione dei tratti essenziali delle competenze richieste al lavoratore prima e dopo il mutamento di mansioni, affinché, per effetto dell'affidamento di compiti anche del tutto estranei rispetto all'attività precedentemente svolta ed alle cognizioni tecniche già acquisite, non venga del tutto disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato dal dipendente.

In evidenza: Cassazione

Per la Cass. sez. lav., 6 maggio 2015 n. 9119, in tema di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, l'equivalenza alle "ultime effettivamente svolte", di cui all'art. 2103 c.c., costituisce un parametro per valutare quali siano stati i compiti precedentemente adempiuti con sufficiente stabilità dal lavoratore, così da consentire un confronto con gli spostamenti disposti dal datore di lavoro, ma non costituisce titolo per una sostanziale inamovibilità di settore qualora le mansioni di nuova assegnazione siano coerenti con il bagaglio professionale già acquisito dal lavoratore (in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto legittimo lo spostamento di un giornalista redattore dal settore politica e cronaca italiana a quello della cronaca locale, non risultando che la diversa attività fosse incoerente con il patrimonio professionale del ricorrente e tale da integrare una dequalificazione suscettibile di risarcimento).

Allo ius variandi, in ogni caso, non può accompagnarsi una diminuzione della retribuzione (c.d. principio di irriducibilità); va tuttavia ricordato che la regola della irriducibilità non è assoluta, potendo venir meno le indennità remunerative di particolari modalità della prestazione lavorativa (ad esempio, l'indennità di reggenza).

Il demansionamento del lavoratore può dar luogo a conseguenze risarcitorie.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 19 settembre 2014, n. 19778, in tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, di natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 26 gennaio 2015, n. 1327, In tema di danno da demansionamento, il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, liquidando il danno non patrimoniale equitativamente, ne aveva desunto l'entità dalla durata del demansionamento e dall'anzianità del lavoratore, senza che questi avesse fornito, né specificamente allegato, elementi idonei a dimostrare, anche solo presuntivamente, il tipo e l'entità dei danni subiti).

Nella nuova versione dell'art. 2103, al comma 7, è previsto che “Nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Il diritto al riposo settimanale e alle ferie

Il prestatore ha diritto di fruire del riposo settimanale e di godere di ferie annuali retribuite, sull'ovvio presupposto della necessità di ritemprare le energie dopo un periodo di ininterrotto lavoro.

L'art. 2109 c.c. prevede che il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni settimana, di regola in coincidenza con la domenica. L'art. 36, comma 3, Cost. stabilisce, in aggiunta, che il diritto al riposo settimanale (al pari di quello alle ferie) è irrinunciabile.

La predetta disposizione codicistica dispone, ancora, che il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro.

Il D.Lgs. n. 66/2003 e successive modifcazioni reca la disciplina di dettaglio del riposo giornaliero (art. 7), delle pause (art. 8), dei riposi settimanali (art. 9), delle ferie annuali (art. 10).

In particolare:

  • il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore, fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità;
  • qualora l'orario giornaliero ecceda il limite di 6 ore, il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto, anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo. Le modalità e durata della pausa sono stabilite dai CCNL, e, in difetto, al lavoratore deve essere concessa una pausa, tra l'inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a 10 minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo;
  • il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive ogni 7 giorni, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero; tale disposizione soffre alcune deroghe nei casi stabiliti dall'art. 9 del D.Lgs. n. 66/2003;
  • il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane; tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita ad alcune categorie, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione.

La mancata effettuazione del riposo settimanale può dar luogo alla pretesa risarcitoria del lavoratore.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 23 maggio 2014, n. 11581, in caso di lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, ove il lavoratore richieda, in relazione alla modalità della prestazione, il risarcimento del danno non patrimoniale, per usura psicofisica, ovvero per la lesione del diritto alla salute o del diritto alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, è tenuto ad allegare e provare il pregiudizio del suo diritto fondamentale, nei suoi caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all'art. 36 della Costituzione, potendo assumere adeguata rilevanza, nell'ambito specifico di detta prova (che può essere data in qualsiasi modo, quindi anche attraverso presunzioni ed a mezzo del fatto notorio), il consenso del lavoratore a rendere la prestazione nel giorno di riposo ed, anzi, la sua richiesta di prestare attività lavorativa proprio in tale giorno, mentre non rileva la fruizione successiva di riposi maggiori, essendo il termine di riferimento quello del giorno e della settimana.

In materia di monetizzazione delle ferie non godute (su cui vi è il divieto – relativo – ex art. 10, comma 2, D.Lgs. n. 66/2003), vi è il problema dell'identificazione della natura di tale posta.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sez. lav., sentenza 11 settembre 2013, n. 20836, l'indennità sostitutiva delle ferie non fruite ha natura mista, avendo non solo carattere risarcitorio, in quanto volta a compensare il danno derivante dalla perdita di un bene determinato (il riposo, con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e social), ma anche retributivo, in quanto è connessa al sinallagma contrattuale e costituisce il corrispettivo dell'attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe dovuto essere non lavorato, in quanto destinato al godimento delle ferie annuali. Ne consegue l'inclusione dell'indennità nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto.

L'obbligo di diligenza

L' art. 2104 c.c. stabilisce che il prestatore di lavoro

  • deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale;
  • deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.

Ai fini della configurabilità della violazione, da parte del dipendente, del dovere di osservare la diligenza richiesta dall'interesse dell'impresa, assume rilievo che tale interesse sia stato specificamente valutato da organi o soggetti preposti che, in particolare, abbiano impartito specifici orientamenti o indicazioni, dovendosi escludere, in tal caso, il dovere del lavoratore di rivolgersi ad altri organi o soggetti sovraordinati (Cass., sez. lav., 7 aprile 2004, n. 6813).

La diligenza postula anche una determinata intensità della prestazione, intesa come velocità di esecuzione del lavoro; la soglia al di sotto della quale il lavoratore può considerarsi inadempiente è costituita dalle capacità del lavoratore medio addetto alla medesima attività.

E' pertanto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (Cass., sez. lav., 4 settembre 2014, n. 18678).

In particolare:

  • la violazione dell'obbligo di diligenza (nonché di quello di fedeltà) da parte di un dipendente comporta, oltre all'applicabilità di sanzioni disciplinari, anche l'insorgere del diritto al risarcimento dei danni, e ciò tanto più nel caso in cui il medesimo occupi una posizione di particolare responsabilità, collocandosi al vertice dell'organizzazione aziendale e svolgendo mansioni tali da improntare la vita dell'azienda; ne consegue che, ove il dirigente consenta alla clientela della banca la formazione di una esposizione debitoria anomala facendo assumere alla banca stessa rischi eccedenti l'ordinata e corrente gestione dei rapporti di mutuo, si realizza una violazione dell'obbligo di diligenza, con la produzione di un danno risarcibile pari alla perdita subita dall'istituto di credito a causa della situazione di insolvenza dei beneficiari del credito (Cass., sez. lav., 12 gennaio 2009, n. 394);
  • resta fermo - ai fini dell'affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso verificatosi nel corso dell'espletamento delle mansioni affidategli - che è anzitutto onere del datore medesimo fornire la prova che l'evento dannoso è da riconnettere ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, e cioè in rapporto di derivazione causale da tale condotta. Solo una volta che risulti assolto tale onere, il lavoratore è tenuto a provare la non imputabilità a sé dell'inadempimento (Cass., sez. lav., 23 agosto 2006, n. 18375).
L'obbligo di fedeltà

L' art. 2105 c.c. dispone che il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

Il dovere di fedeltà - riferito esclusivamente ad attività "lecite" dell'imprenditore, non potendosi richiedere al lavoratore l'osservanza di detto dovere anche quando l'imprenditore medesimo intenda perseguire interessi che non siano leciti - si sostanzia nell'obbligo del lavoratore medesimo di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi; pertanto, rientra nella sfera di tale dovere il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l'imprenditore-datore di lavoro nel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che sia necessaria, allo scopo, la configurazione di una vera e propria condotta di concorrenza sleale, in una delle forme stabilite dall'art. 2598 c.c. (Cass., sez. lav., 19 aprile 2006, n. 9056; in senso analogo Cass. sez. lav., 30 gennaio 2017, n. 2239).

Ovviamente la violazione del divieto di concorrenza riguarda non già la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella svolta illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso (Cass., sez. lav., 29 agosto 2014, n. 18459).

Lo svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze di un'impresa in concorrenza con il datore di lavoro può configurare la violazione del divieto, sotto il profilo della "trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l'imprenditore", solo ove tale concorrenza consista in atti rientranti in prestazioni di carattere intellettuale di notevole autonomia e discrezionalità, dato che proprio coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato sono in grado - al di fuori dell'ipotesi di divulgazione di notizie riservate o di metodi di lavoro peculiari - di porre in essere quella concorrenza più intensa che il legislatore ha inteso reprimere (Cass., sez. lav., 26 ottobre 2001, n. 13329).

Dal collegamento dell'obbligo di fedeltà, di cui all' art. 2105 c.c., con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cass., sez. lav., 4 aprile 2005, n. 6957; in senso analogo Cass. sez. lav.. 4 aprile 2017, n. 8711).

Casistica

Diligenza

Vi rientra l'obbligo del prestatore di lavoro

- di comunicare tempestivamente al datore di lavoro eventuali impedimenti nel regolare espletamento della prestazione che determinino la necessità di assentarsi, sicché il mancato rispetto di tale obbligo può giustificare il licenziamento, poiché la mancata comunicazione dell'assenza dal lavoro, anche se in astratto dovuta a motivi legittimi, è idonea ad arrecare alla controparte datoriale un pregiudizio organizzativo, derivante dal legittimo affidamento in ordine alla supposta effettiva ripresa della prestazione lavorativa (Cass., sez. lav., 13 maggio 2014, n. 10352);

- di non rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, benché connessa a mansioni non rispondenti alla qualifica, potendo il lavoratore invocare l'art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo (Cass., sez. lav., 20 luglio 2012, n. 12696; in senso analogo Cass. sez. lav., 16 gennaio 2018, n. 836);

- di evitare che l'attività esterna svolta in periodo di malattia, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio (Cass., sez. lav., 5 agosto 2014, n. 17625; in senso analogo Cass. sez. lav., 27 aprile 2017, n. 10416);

- di procedere alla cura della persona e dell'abbigliamento qualora svolga la sua attività a contatto con il pubblico.

Obbligo di fedeltà

Violazione, quando il prestatore

- esercita il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell'esposizione dei fatti), si traducano in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro (Cass., sez. lav., 18 settembre 2013, n. 21362; Cass. sez. lav., 27 aprile 2018, n. 10280, concernente il licenziamento di un lavoratore che aveva diffuso su "facebook" un commento offensivo nei confronti del datore);

- non si attiene, nei comportamenti extralavorativi, ai principi di correttezza e buona fede, sì da danneggiare il datore di lavoro (Cass., sez. lav., 26 novembre 2014, n. 25161);

- dotato di particolari responsabilità nella scala gerarchica - ad es.: vicedirettore di filiale bancaria - non avvisi il datore di lavoro delle gravi irregolarità commesse dall'immediato superiore (Cass., sez. lav., 8 giugno 2001, n. 7819);

- proceda alla costituzione di una società per lo svolgimento della medesima attività economica svolta dal datore di lavoro (Cass., sez. lav., 18 luglio 2006, n. 16377);

Non violazione

- in caso di pura e semplice intenzione, manifestata dal lavoratore, di svolgere la stessa attività d'impresa del datore di lavoro, in mancanza della prova che tale proposito fosse destinato ad attuarsi in costanza di rapporto di subordinazione, trattandosi di attività meramente preparatoria, irrilevante ai fini dell'art. 2105 c.c.; infatti, per ritenersi violato l'obbligo di non concorrenza, occorre che almeno una parte dell'attività concorrenziale, che pure non abbia ancora inferto danni al datore di lavoro, sia comunque stata messa in atto (Cass., sez. lav., 23 aprile 1997, n. 3528);

- in presenza di produzione, in una controversia di lavoro, di copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa, anche ove i documenti prodotti non abbiano avuto influenza decisiva sull'esito del giudizio, operando, in ogni caso, la scriminante dell'esercizio del diritto di cui all'art. 51 c.p., che ha valenza generale nell'ordinamento, senza essere limitata al mero ambito penalistico (Cass., sez. lav., 4 dicembre 2014, n. 25682). A meno che le modalità di apprensione della documentazione non siano in contrasto con i criteri comportamentali imposti dal dovere di fedeltà (al riguardo, Cass. sez. lav., 8 agosto 2016, n. 16629, concernente un caso in cui il lavoratore aveva effettuato una registrazione di una conversazione tra presenti all'insaputa dei partecipanti e si era impossessato di una e-mail non destinata alla sua visione).

Dalla violazione del dovere di fedeltà può derivare un obbligo risarcitorio a carico del lavoratore.

Riferimenti

Normativi:

  • Art. 36 Cost.
  • Art. 2099 c.c.
  • Art. 2103 c.c.
  • Art. 2104 c.c.
  • Art. 2105 c.c.
  • Art. 2109 c.c.
  • D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66

Giurisprudenza:

Per i recenti orientamenti sul tema, v. C. Appello Catania , 4 aprile 2023, n. 628, con commento di S. Gentiluomo, Responsabilità del sindacato. Potere di disposizione dei diritti del lavoratore in assenza di specifico mandato. Mandato espresso, tacito e presunto; Cass. ,sez. lav., 28 giugno 2023, n. 18477, con commento di G. Livi, Previdenza complementare: le quote di TFR non versate al fondo pensione spettano al lavoratore; Cass., sez. lav., 31 maggio 2023, n. 15364, con commento di T. Zappia, Datore-pubblico, progressioni orizzontali e diritto del lavoratore: occorre sempre la copertura finanziaria? Cass. sez. lav., 20 dicembre 2023, n. 35576Cass. sez. lav., 14 luglio 2023, n. 20284

  • Cass. sez. lav., 30 novembre 2016, n. 24449
  • Cass. sez. lav., 26 novembre 2015, n. 24160
  • Cass. sez. lav., 6 maggio 2015, n. 9119
  • Cass. sez. lav., 26 novembre 2014, n. 25161
  • Cass. sez. lav., 19 settembre 2014, n. 19778
  • Cass. sez. lav., 4 settembre 2014, n. 18678
  • Cass. sez. lav., 5 agosto 2014, n. 17625
Sommario