Lavoro
ilGiuslavorista

Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro

28 Ottobre 2024

Nell'impianto sistemico del nostro tessuto ordinamentale, un rapporto di lavoro subordinato può essere sciolto per volontà unilaterale di una delle due parti (con conseguente distinzione semantica tra la fattispecie di licenziamento e quella delle dimissioni, a seconda della attribuibilità dell'intenzione risolutiva), oppure di comune accordo, quando i soggetti coinvolti ritengono che sia venuta meno la reciproca convenienza alla prosecuzione della vicenda contrattuale. In quest'ultimo caso, viene in rilievo la fattispecie di risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, tematica su cui concentreremo la presente analisi di sintesi. 

Inquadramento

Prendendo le mosse dal profilo di ancoraggio normativo dell'istituto in menzione, il riferimento primario va operato al dettato dell'art. 1372 c.c., in combinato disposto con le previsioni degli artt. 2118 e 2119 c.c.

Ed invero il legislatore nostrano, nel disciplinare, al Libro IV del Codice civile, il profilo generale dell'efficacia contrattuale, espressamente sancisce, nel primo articolo summenzionato, come il contratto, che ha forza di legge tra le parti, non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge.

Ed in ambito lavorativo, tra queste, viene in rilievo senza dubbio quanto stabilito dalle citate previsioni inserite nel libro V, dedicato al Lavoro, espressamente disponendo, l'art. 2118 c.c., come ciascuno dei contraenti possa recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità; e, l'art. 2119 c.c., come ciascuno dei contraenti possa recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

Se, dunque, una ampia letteratura, una importante stratificazione legislativa, una approfondita analisi ed una folta produzione a carattere dottrinale e giurisprudenziale si è indubbiamente sviluppata, per un verso, in merito ai profili della giusta causa e giustificato motivo di licenziamento, nonché, per altro verso, in riferimento al fenomeno delle dimissioni dei lavoratori, siccome entrambe espressioni della volontà risolutiva unilaterale del rapporto di lavoro, oggi affrontiamo, se pur in via di sintesi e con mera funzione direzionale, la diversa casistica della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, quale incontro di volontà delle parti finalizzato allo scioglimento del vincolo contrattuale.

La risoluzione consensuale e la sua formalizzazione

Appare, invero, di immediata percezione la funzionalità sottesa alla scelta delle parti del rapporto di lavoro di provvedere alla risoluzione per mutuo consenso della vicenda tra le stesse in essere, potendo beneficiare ognuna di un effetto di vantaggio non altrimenti altrettanto facilmente ottenibile.

Se, infatti, sotto l'angolo prospettico datoriale il raggiungimento di un accordo di scioglimento bonario del rapporto di lavoro con il dipendente consente l'agevole superamento dei vincoli e delle limitazioni spesso inserite nei testi contrattuali, evitando, al contempo, le criticità ed i rischi di una procedura di licenziamento; sotto il versante del prestatore di lavoro, la scelta pattizia consente di prospettare anche degli eventuali benefici economici connessi alla risoluzione consensuale (sotto forma di incentivazione all'esodo, di cui meglio si dirà nel prosieguo), in uno all'aggiramento della disciplina delle dimissioni, quale strumento, anch'esso, non scevro da complicazioni di matrice attuativa e conseguenziale.

Come è noto, invero, le dimissioni del lavoratore, al pari del licenziamento datoriale, rappresentano un atto unilaterale recettizio attuativo del diritto alla risoluzione del rapporto lavorativo e, come tali, dunque, in grado di produrre effetti indipendentemente dall'adesione di volontà di controparte, in espressione del più generale principio di libertà gestoria dei vincoli obbligatori in seno a determinati rapporti di durata ed in ossequio alle specifiche previsioni di legge che regolano la materia.

La “partita”, infatti, si gioca sul “campo” della rilevanza contrapposta del diritto al lavoro, del principio di autodeterminazione e della libertà di iniziativa economica di cui al nostro impianto Costituzionale, in un confronto relazionale che implica un bilanciamento puntuale delle prerogative proprie dell'una e dell'altra parte.

In tale contesto, dunque, l'accordo dei protagonisti della vicenda lavorativa circa la comunanza dell'intento risolutivo del rapporto e l'incontro delle rispettive volontà consente la possibilità di determinazione estesa di tutta una serie di conseguenze operative e di profili gestionali dello scioglimento negoziale, nel rispetto dei summenzionati diritti e con serena composizione dei concreti interessi involti.

Basti pensare, in tal senso, alla possibilità primaria di concordare la data di effettiva interruzione del rapporto di lavoro, potendosi le parti svincolare agilmente, in sede concordata, dai vincoli temporali inizialmente apposti o concretamente ricorrenti nella specifica vicenda lavorativa, con indubbi benefici a carattere diffuso.

Ecco che, quindi, la cessazione del rapporto di lavoro potrà avere efficacia immediata, così comportando il subitaneo scioglimento di ogni vincolo contrattuale a partire dalla data di sottoscrizione dell'accordo, ovvero differita, potendo le parti concordare la prosecuzione dell'attività lavorativa per un certo tempo, a fronte della regolare esecuzione della prestazione ad opera del lavoratore, piuttosto che del ricorso a strumenti di diversa matrice, pensando ad esempio al godimento di periodi di ferie, permessi, aspettativa o similari.

E si badi, che la risoluzione consensuale è prevista anche per il contratto di lavoro a tempo determinato, il cui scioglimento, altrimenti, resterebbe di fatto precluso sino alla decorrenza del termine apposto, non essendo ammessa l'ipotesi dimissionaria a carattere volontario né quella di licenziamento per giustificato motivo, con la solo residualità della concreta ricorrenza di una giusta causa rilevante ai sensi dell'art. 2119 c.c. e, dunque, di una gravità tale da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto.

La procedura di trasmissione della risoluzione consensuale

La risoluzione consensuale deve essere trasmessa, a pena di inefficacia, con modalità telematica e mediante la procedura ministeriale, ad opera delle parti o tramite intermediari abilitati ed attraverso la compilazione di appositi moduli messi a disposizione degli utenti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Ed invero, la c.d. Legge Fornero (L. 92/2012) prima ed il c.d. Jobs Act (D.lgs. 151/2015) poi, hanno introdotto delle specifiche disposizioni in merito alla necessaria formalizzazione sia delle dimissioni che della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, imponendone la modalità telematica e, per la sfera di competenza del lavoratore, finanche la conferma mediante dichiarazione da apporre sulla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione agli Enti preposti.

La ratio di tale dettagliata previsione di convalida, come è noto, è da ricercare nella volontà del legislatore nostrano di contrastare e porre fine al precedente, diffuso fenomeno delle c.d. dimissioni in bianco del lavoratore.

Per lungo tempo, invero, una scorretta ma molto estesa prassi vigente in ambito lavorativo comportava l'abitudine di far apporre la firma del lavoratore su di un foglio bianco, in data antecedente alla risoluzione del rapporto ed, in molti casi, già al momento della assunzione, così da poter successivamente disporre parte datoriale di una giustificazione dimissionaria da utilizzare per camuffare i casi di licenziamento del prestatore, evitando le indennità, le procedure ed i rischi previsti dalla legislazione regolativa della materia.

La previsione della procedura di convalida del dipendente presso la Direzione Territoriale del Lavoro territorialmente competente (DTL), o presso il Centro per l'impiego, dunque, ha di fatto debellato la menzionata prassi operativa, a beneficio dell'opzione di procedimentalizzazione telematica.

In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 26 settembre 2023 n. 27331

Ai sensi dell'articolo 26 del decreto legislativo 151/15 (cd. “Jobs Act”), il rapporto di lavoro subordinato può essere risolto per dimissioni o per accordo consensuale delle parti solamente previa adozione di specifiche modalità formali oppure presso le sedi assistite, a pena di inefficacia dell'atto.

Il lavoratore, quindi, dovrà provvedere a confermare la propria volontà sui moduli ministeriali, fermo restando, in ogni caso, la possibilità di provvedere, entro 7 giorni dalla data di trasmissione telematica, alla revoca della dichiarazione di risoluzione consensuale, così comportando la permanenza del rapporto di lavoro, se pur senza riconoscimento al dipendente delle ore non lavorate in tale frangente.

Tale procedura di convalida obbligatoria valevole per le dimissioni e le risoluzioni consensuali, nondimeno, registra delle eccezioni, espressamente riconosciute dalla normativa stratificatasi nel corso degli anni per:  

  1. i rapporti di lavoro domestico ed i casi in cui il recesso interviene nelle sedi conciliative cd. “protette” di cui all'art. 26, comma 7, del D.lgs. n. 151 del 2015;
  2. il recesso durante il periodo di prova di cui all'art. 2096 c.c.;
  3. i casi di dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro presentate dalla lavoratrice madre nel periodo di gravidanza o dai genitori lavoratori durante i primi tre anni di vita del bambino, che dovranno essere convalidate presso la Direzione del lavoro territorialmente competente ai sensi dell'art. 55, comma 4, del D.lgs. n. 151/2001;
  4. i rapporti di lavoro marittimo, in quanto il contratto di arruolamento dei lavoratori marittimi è regolato da legge speciale del Codice della Navigazione;
  5. le risoluzioni dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, di cui all'art. 1, comma 2, del D.lgs. n. 165 del 2001.
  6. le risoluzioni di contratti di lavoro parasubordinato;
  7. le risoluzioni di associazioni in partecipazione con apporto di lavoro;
  8. le risoluzioni di rapporti di lavoro domestico.

Come detto in apertura di paragrafo il lavoratore può adempiere alla convalida del recesso dal contratto direttamente, qualora in possesso delle credenziali rilasciate dall'INPS e con compilazione personale delle sezioni della modulistica in ossequio alle indicazioni del sito, ovvero rivolgendosi a soggetti abilitati (Patronati - Organizzazioni sindacali - Enti bilaterali - Commissioni di certificazione - Consulenti del Lavoro - Sedi territoriali dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro).

Completata la procedura di compilazione e di invio telematico, con rilascio del codice identificativo e della marca temporale di salvataggio del sistema, il modulo viene inoltrato anche all'indirizzo di posta elettronica del datore di lavoro e alla Direzione del lavoro territorialmente competente, decorrendo, da tale data, il termine dei sette giorni, entro il quale il lavoratore può revocare il recesso rese nel rispetto del comma 2 dell'art. 26 del D.lgs. n. 151 del 2015.

Con la procedura in oggetto, dunque, la manifestazione di volontà del lavoratore è stata ancorata (sino ad oggi in modo considerato definitivo ma attenzione agli sviluppi del DDL lavoro in discussione in Parlamento) al meccanismo di convalida ed inoltro telematici, dovendosi, in caso contrario, ritenere l'atto inefficace, per mancata integrazione del vincolo di forma previsto ad substantiam e non ad probationem.

Ciò comporta che, sino ad oggi, è stata pressoché unanimemente esclusa la possibilità di interpretazione finalistica di comportamenti come l'assenza ingiustificata dal lavoro quale manifestazione univoca della volontà dimissionaria del lavoratore.

In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 11 agosto 2023 n. 24576

In tema di rapporto di lavoro a tempo determinato, il fatto che il lavoratore non impugni il contratto e mantenga un atteggiamento meramente remissivo non è sufficiente, in assenza della prova della volontà di porre fine ad ogni rapporto di lavoro, a dimostrare la sussistenza dei presupposti per la risoluzione consensuale.

Ma attenzione, perché nel disegno di legge in materia di lavoro del Governo Meloni, nell'articolo n.26, titolato “Modifiche in materia di dimissioni” è stata prevista l'introduzione del nuovo comma n.7-bis all'articolo n. 26 del decreto legislativo n. 151 del 14 settembre 2015, che recita: “in caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo”.

La novità (anticipando in parte la tematica affrontata nell'ultimo paragrafo) si propone di risolvere un'antica questione legata al fenomeno dei c.d. “furbetti della NASPI”, ovvero di quei lavoratori che, consapevoli di non beneficiare del diritto alla Naspi in caso di dimissioni volontarie, quando decidevano di abbandonare il posto di lavoro, per aggirare tale impasse, erano soliti non presentarsi più al lavoro senza giustificare l'assenza, così da costringere l'azienda a procedere con un licenziamento disciplinare (con relativo pagamento del ticket di licenziamento), foriero per loro dell'accesso del diritto alla NASPI, per perdita involontaria del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza, tuttavia, già da alcuni anni aveva tentato di reagire, gettando le basi per porre fine a questa pratica diffusa e scorretta.

In evidenza: Tribunale di Udine, sezione lavoro, 27 maggio 2022 n. 20

“… pur in difetto di una corretta formalizzazione delle dimissioni, è agevole ravvisare nel comportamento concretamente tenuto dalle parti, l'una nei confronti dell'altra, la sintomatica manifestazione di una reciproca e convergente volontà -pur se sorretta da motivi diversi- di non dare più seguito al contratto di lavoro, determinandone così la risoluzione per fatti concludenti.

Secondo il Giudice di merito, invero, chi sostiene che nelle ipotesi di inerzia del lavoratore si debba pervenire alla risoluzione del rapporto di lavoro solo attraverso un licenziamento per giusta causa, finisce per optare per una soluzione, a detta dello stesso giudice, non solo irragionevole, ma anche di dubbia compatibilità costituzionale, quanto meno sotto il profilo degli artt. 41 e 38 Cost.

Infatti, attraverso un licenziamento “imposto” al datore di lavoro, si darebbe luogo ad un esborso di provvidenze pubbliche – a favore del licenziato – per tutelare un fittizio stato di disoccupazione. Stato di disoccupazione, in realtà, esito di una scelta libera e non involontariamente subita dal lavoratore.

Incentivazione all'esodo e NASPI

Come abbiamo visto in precedenza, se sotto l'angolo prospettico datoriale il raggiungimento di un accordo di scioglimento bonario del rapporto di lavoro con il dipendente consente l'agevole superamento dei vincoli e delle limitazioni contrattuali, evitando, al contempo, le criticità ed i rischi di una procedura di licenziamento; per il prestatore di lavoro la scelta pattizia consente di prospettare anche degli eventuali benefici economici connessi alla risoluzione consensuale.

Viene, dunque, in rilievo in tal senso ed in prima battuta l'istituto della possibile incentivazione all'esodo, che le parti possono pattuire in sede di accordo di risoluzione del rapporto di lavoro, per consentire al lavoratore di fruire di un beneficio a carattere molteplice, che consenta di facilitare lo scioglimento del vincolo negoziale e/o agevolare il prestatore sotto vari profili.

Ed infatti, l'incentivo all'esodo può essere di tipo economico e, quindi, essere ancorato ad una determinata somma che, dal punto di vista fiscale, non prevede la contribuzione INPS ed è soggetta a c.d. tassazione separata. Tale emolumento, infatti, non è soggetto al versamento di contributi in conformità all'art. 4, paragrafo 2 bis, del Decreto 30.5.1988, n. 173, convertito, come emendato, dalla Legge 26.7.1988, n. 291, integrato dal Decreto Legislativo n. 314 del 2.9.1997, subendo solo la trattenuta fiscale determinata in base agli articoli 17 e 19 del TUIR.

Ma l'incentivo all'esodo può essere anche di carattere non economico, potendo, ad esempio il datore di lavoro mettere a disposizione del lavoratore un servizio di consulenza alla ricollocazione (c.d. “outplacement”), che può tradursi, ad esempio, in attività di Career Coaching, nel supporto emotivo al dipendente licenziato, nella selezione delle offerte di lavoro in linea con le competenze del lavoratore ed altre iniziative.

In evidenza: CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 ottobre 2018, n. 23713

In forza degli articoli 16 e 17 (ora 19) TUIR, tutte le somme erogate in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro costituiscono reddito imponibile soggetto a tassazione secondo i criteri stabiliti nelle medesime disposizioni

Ma non è tutto.

Vi è l'annosa questione del diritto alla percezione della NASPI in caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

Come è noto, infatti, la Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego (in acronimo NASPI) rappresenta l'ammortizzatore sociale introdotto dal Job Act ed in vigore dal 1/05/2015, sostitutivo della indennità di disoccupazione, con applicazione indistinta per i lavoratori che hanno perso involontariamente il proprio impiego.

Di regola, dunque, tale emolumento spetta in caso di licenziamento (in quanto scelta risolutiva di derivazione datoriale) o dimissioni per giusta causa (in quanto scelta risolutiva ingenerata dalla condotta datoriale), mentre resterebbe escluso per le ipotesi di dimissioni volontarie o risoluzione consensuale.

In quest'ultimo caso, infatti, non si versa in un'ipotesi di perdita involontaria del rapporto di lavoro, dal momento che è lo stesso lavoratore a prestare il proprio consenso in ordine alla cessazione del rapporto di lavoro.

Ciò nonostante, sono previste, anche in questo caso delle eccezioni:

a) - la prima, riguarda l'ipotesi in cui l'accordo di risoluzione consensuale intervenga nella procedura incardinata dinanzi all'Ispettorato Nazionale del Lavoro, per i casi in cui le aziende intendano licenziare il dipendente per giustificato motivo oggettivo e la parti optino per lo scioglimento concordato del rapporto in luogo del licenziamento;

In evidenza: Corte d'Appello di Roma, Sezione Lavoro, Sentenza 11 luglio 2023 n. 2900

Quanto alle risoluzioni del rapporto per intervenuta conciliazione, l'unica procedura conciliativa idonea a dar luogo ad una risoluzione consensuale del rapporto che dia diritto alla NASPI è quella prevista dall'articolo 7 della L. n. 604 del 1966 (in caso di licenziamento per motivi economici in aziende con più di 15 dipendenti). Infatti, in base al tenore letterale dell'articolo 3, comma 2, del D.Lgs. n. 22 del 2015, la NASPI è riconosciuta, "oltre che nei casi di licenziamento, anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'art. 7 della L. n. 604 del 1966.

b) - la seconda riguarda il rifiuto del lavoratore di trasferirsi presso altra sede aziendale distaccata e dislocata ad almeno 50 Km dalla propria residenza, e/o che comunque non sia raggiungibile in meno di 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblico.

In evidenza: Tribunale Milano, Sezione Lavoro, Sentenza 22 maggio 2024

L'indennità NASpI è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perso involontariamente la propria occupazione, e dunque anche nei casi di avvenuta risoluzione consensuale del rapporto di lavoro a seguito di rifiuto del dipendente al trasferimento presso una sede distante di oltre 50 km dalla propria residenza.

Per poter usufruire della NASPI, in ogni caso, il lavoratore deve essere in possesso di almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti, e deve aver effettuato almeno 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi antecedenti.

Casistica

Tribunale Milano, Sezione Lavoro, Sentenza 22 maggio 2024

L'indennità NASpI è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perso involontariamente la propria occupazione, e dunque anche nei casi di avvenuta risoluzione consensuale del rapporto di lavoro a seguito di rifiuto del dipendente al trasferimento presso una sede distante di oltre 50 km dalla propria residenza.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 11 agosto 2024 n. 24576

In tema di rapporto di lavoro a tempo determinato, il fatto che il lavoratore non impugni il contratto e mantenga un atteggiamento meramente remissivo non è sufficiente, in assenza della prova della volontà di porre fine ad ogni rapporto di lavoro, a dimostrare la sussistenza dei presupposti per la risoluzione consensuale

Corte d'Appello di Roma, Sezione Lavoro, Sentenza 11 luglio 2023 n. 2900

Quanto alle risoluzioni del rapporto per intervenuta conciliazione, l'unica procedura conciliativa idonea a dar luogo ad una risoluzione consensuale del rapporto che dia diritto alla NASPI è quella prevista dall'articolo 7 della L. n. 604 del 1966 (in caso di licenziamento per motivi economici in aziende con più di 15 dipendenti). Infatti, in base al tenore letterale dell'articolo 3, comma 2, del D.Lgs. n. 22 del 2015, la NASPI è riconosciuta, "oltre che nei casi di licenziamento, anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'art. 7 della L. n. 604 del 1966.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 26 settembre 2023 n. 27331

Ai sensi dell'articolo 26 del decreto legislativo 151/15 (cd. “Jobs Act”), il rapporto di lavoro subordinato può essere risolto per dimissioni o per accordo consensuale delle parti solamente previa adozione di specifiche modalità formali oppure presso le sedi assistite, a pena di inefficacia dell'atto.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 29 dicembre 2022 n. 38029

È necessario applicare il regime di tutela (reale od obbligatoria) correlato ai requisiti dimensionali dell'azienda quando un lavoratore viene licenziato sull'erroneo presupposto della validità di patto di prova poi giudicato nullo.

Tribunale di Udine, Sentenza 7 marzo 2023  n. 74

ll lavoratore può disporre liberamente del diritto di impugnare il licenziamento, facendone oggetto di rinunce o transazioni, che sono sottratte alla disciplina dell'art. 2113 c.c., che considera invalidi e perciò impugnabili i soli atti abdicativi di diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi, posto che il suo interesse alla prosecuzione del rapporto di lavoro rientra nell'area della libera disponibilità, desumibile dalla facoltà di recesso ad nutum di cui il medesimo dispone, dall'ammissibilità di risoluzioni consensuali del contratto di lavoro e dalla possibilità di consolidamento degli effetti di un licenziamento illegittimo per mancanza di una tempestiva impugnazione..

Tribunale di Udine, sezione lavoro, 27 maggio 2022 n. 20

Pur in difetto di una corretta formalizzazione delle dimissioni, è agevole ravvisare nel comportamento concretamente tenuto dalle parti, l'una nei confronti dell'altra, la sintomatica manifestazione di una reciproca e convergente volontà -pur se sorretta da motivi diversi- di non dare più seguito al contratto di lavoro, determinandone così la risoluzione per fatti concludenti.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 19 novembre 2021 n. 35667

Le dimissioni c.d. "incentivate", e cioè agevolate da provvidenze o incentivi, analogamente alla mobilità volontaria e al prepensionamento, danno luogo alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e, come tali, non sono equiparabili al licenziamento; ne consegue che il lavoratore che abbia risolto volontariamente il contratto di lavoro, sebbene su sollecitazione del datore di lavoro e dietro riconoscimento di un incentivo economico, non ha diritto ad essere preferito nelle assunzioni, ex art. 15 della l. n. 264 del 1949 e dell'art. 8 della l. n. 233 del 1991, in quanto è destinatario dell'obbligo legale di riassunzione solo l'imprenditore che abbia licenziato per riduzione del personale.

Corte di Cassazione, Sezione lavoro, ordinanza 1° ottobre 2018, n. 23713

In forza degli articoli 16 e 17 (ora 19) TUIR, tutte le somme erogate in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro costituiscono reddito imponibile soggetto a tassazione secondo i criteri stabiliti nelle medesime disposizioni

Riferimenti

Normativi:

Codice Civile: artt. 1372, 2118, 2119

Codice di procedura civile: artt. 410, 411, 412

D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151

Legge 28 giugno 2012, n. 92

D.lgs. 4 marzo 2015, n. 151

D.lgs. n. 22 del 2015

D.lgs. 24 settembre 2016, n. 185

Giurisprudenza

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 11 agosto 2024 n. 24576

Tribunale Milano, Sezione Lavoro, Sentenza 22 maggio 2024

Corte d'Appello di Roma, Sezione Lavoro, Sentenza 11 luglio 2023 n. 2900

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 26 settembre 2023 n. 27331

Tribunale di Udine, Sentenza 7 marzo 2023  n. 74

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 29 dicembre 2022 n. 38029

Tribunale di Udine, sezione lavoro, 27 maggio 2022 n. 20

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 19 novembre 2021 n. 35667

Corte di Cassazione, Sezione lavoro, ordinanza 01 ottobre 2018, n. 23713

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