Difesa d'ufficio e remunerazione del difensore: sulla legittimità costituzionale dell'art. 116 d.P.R. 115/2002

Giuseppe Belcastro
13 Luglio 2015

Con ordinanza del 22 aprile 2015, il tribunale di Roma solleva q.l.c. dell'art. 116 del d.P.R. 115/2002 per contrasto con gli articoli 3, 97 e 111 della Costituzione.
Abstract

Con ordinanza del 22 aprile 2015, il tribunale di Roma solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 116 del d.P.R. 115/2002 per contrasto con gli articoli 3, 97 e 111 della Costituzione. I profili d'illegittimità risiederebbero:

a) nell'ingiustificata garanzia statale di soddisfazione del credito professionale offerta al difensore di ufficio dell'irreperibile e dell'insolvente, invece negata al difensore fiduciario ed al difensore di ufficio dell'ammesso al patrocinio gratuito (art. 3 Cost.);

b) nella violazione dei canoni di buon andamento ed imparzialità della P.A. (art. 97 Cost.) e della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).

Difensore d'ufficio e di fiducia

L'atto di promovimento offre lo spunto per alcune riflessioni in tema di difesa di ufficio e ruolo del difensore nell'attuale assetto normativo.

La prima doglianza del provvedimento sta in ciò che il difensore d'ufficio che agisca ex art. 116 d.P.R. 115/2002, per quanto in condizioni analoghe a quelle di ogni altro professionista, gode di un sicuro privilegio remunerativo. L'art. 116 fissa infatti una procedura di “garanzia” assunta dallo Stato tanto per il caso d'irreperibilità de facto dell'assistito quanto per il caso di sua impossidenza. Di quel privilegio, sostiene l'ordinanza, le altre “categorie” professionali sono ingiustificatamente (e, dunque, incostituzionalmente) prive.

L'argomento appare prima facie sintatticamente corretto ma ad una più attenta lettura fa mostra di un deficit valutativo delle condizioni fattuali poste a raffronto. Non v'è infatti traccia del supposto punto di similitudine tra la difesa fiduciaria, la difesa del non-abbiente, la difesa d'ufficio, finendosi così con il postulare, come argomento giustificativo del decisum, proprio l'approdo cui invece si dovrebbe pervenire.

Per poter affermare che la disparità nel trattamento legislativo delle varie tipologie defensionali in esame determini un contrasto con l'art. 3 della Costituzione, dovrebbe darsi per dimostrata la premessa maggiore, che cioè all'innegabile diversità di disciplina positiva non corrisponda un'adeguata diversità di “condizioni disciplinate”; di questo però l'ordinanza non s'occupa.

Né soccorre il riferimento all'art. 24 Cost., il quale, se da un lato “mira a tutelare anche le parti di procedimenti civili o gli imputati che intendono avvalersi di un difensore di propria fiducia”, dall'altro non disegna strumenti operativi alla bisogna, né impone livellamenti o automatismi di sorta.

L'unico argomento esegetico proficuo contenuto nel provvedimento, non lascia però la foggia embrionale: l'obbligatorietà dell'incarico defensionale officioso, a fronte della discrezionalità di accettazione in capo al difensore fiduciario, sembrerebbe, infatti, un elemento già utile per disegnare quella disparità tra le condizioni di partenza che legittima una disparità di discipline normative. E l'argomento forse contiene in sé elementi giuridici di portata assai più significativa di quanto non appaia di primo acchito.

L'obbligatorietà dell'incarico officioso è figlia di una scelta legislativa anch'essa a rime obbligate che affonda le radici proprio nell'art. 24 della Costituzione; la quale norma postula un diritto inviolabile alla difesa, in ogni stato e grado del procedimento, d'intensità tale che, inaspettatamente, esso rischia addirittura di diventare una sorta di dovere.

Risale ormai al 1979 la pronuncia di legittimità (n. 125) secondo cui “speculare alla inviolabilità del diritto di difesa é la irrinunciabilità di esso, quali che ne siano le concrete modalità di esercizio”. E se dunque la difesa tecnica nel processo penale è addirittura irrinunciabile, il dubbio che la norma denunciata, laddove mira a rendere effettivo e non fittizio l'esercizio di quel diritto, attui la Costituzione più che violarla diventa dubbio acuto.

Il difensore di ufficio condivide con quello di fiducia il ruolo tecnico-processuale; se ne distanzia però, in maniera marcata e funzionale, laddove, per obbligo sconosciuto al fiduciario, deve garantire l'esercizio di un diritto inviolabile, ma pure irrinunciabile (come l'identico attributo del suo mandato prova ineluttabilmente). E che anche il difensore di fiducia garantisca quel diritto quando accetta il mandato, resta puro accidente, caducabile, appunto, con l'esercizio del diritto di rifiutarlo o di recedere.

Messa così la disparità di disciplina normativa tra le figure professionali esaminate, non solo non integra una violazione del principio di uguaglianza sostanziale ma anzi rappresenta, nel solco della vis propulsiva del dettato costituzionale, quel sicuro elemento di perequazione che fa della garanzia minima di remunerazione un presidio alla effettività della difesa.

Parafrasando l'ordinanza in commento la necessità di assicurare la difesa anche a coloro che si disinteressano del giudizio a proprio carico, giustifica ed anzi impone l'assunzione dell'onere delle spese del difensore da parte dello Stato seppure in via residuale, surrogatoria e quantitativamente minusvalente.

E non attenua il solco della differenza nemmeno il “diritto di scelta”, appannaggio di entrambi le figure defensionali; i due professionisti “scelgono” di difendere: il fiduciario accettando il mandato, l'officioso iscrivendosi alle omonime liste.

È intanto singolare il ricorso all'anticipazione del momento decisional-volitivo come panacea di un costrutto privo della sua premessa maggiore. L'argomento suonerebbe così: il difensore di ufficio vede sacrificata la sua facoltà di scegliere consapevolmente se accettare l'incarico – e, dunque, se rischiare di perdere la remunerazione – ma tale sacrificio trova bilanciamento da un lato dalla volontarietà della iscrizione alle relative liste e dall'altro dalla casualità nell'attribuzione degli incarichi che prescinde dalla “predisposizione di un'attività imprenditoriale di procacciamento della clientela”.

È argomento che non convince, anche a prescindere dalle critiche politiche che stimola sull'idea imprenditoriale del procacciamento di clientela da parte del professionista.

Non convince perché, ancora una volta, si pretenderebbe di sovrapporre considerazioni che appartengono al novero delle motivazioni contingenti del singolo con altre che pertengono alla tutela del diritto di difesa come disegnato dalla Carta, giungendo così a pretermettere, ad es., che l'iscrizione alle liste d'ufficio costa oggi molti più obblighi (specie di tipo formativo) di quanti non ne imponga l'esercizio della professione su base fiduciaria. Il meccanismo casuale di assunzione degli incarichi, insomma, potrebbe al più compensare questo aspetto che non quello della potenziale invocata gratuità dell'opera professionale.

La volontarietà dell'iscrizione alle liste d'ufficio, infatti, finalizzata all'espletamento di una funzione costituzionalmente obbligatoria, strutturata su stringenti premesse formative e già – almeno in potenza – privata ex ante dell'apporto “sostanziale” dell'intuitus personae tipico dell'ordinario contratto di mandato professionale, non sembra potersi sovrapporre senza residuo alla accettazione del mandato fiduciario intesa come attività intellettiva di riempimento dello spatium scienter deliberandi. Ed è quindi del tutto consequenziale che, mancando tale calmierante sovrapponibilità, la residua garanzia di corresponsione di onorari minimi, lungi dal creare disparità censurabile, smussa vivi angoli costituzionali.

Miglior sorte non ha il riferimento (il primo nell'ordinanza) alla normativa in tema di difesa dei non abbienti che, a sentire il provvedimento, esaurirebbe gli obblighi d'intervento legislativo imposti dall'art. 24, comma 3, Cost.

Può agevolmente obiettarsi sul punto che il difensore di ufficio, che in ipotesi non ha reperito il cliente nemmeno per recapitargli una richiesta di pagamento, non può ambire ad ottenerne le dichiarazioni d'uopo per l'accesso al patrocinio a spese dello Stato e che, conseguentemente, per l'ipotesi ora contemplata, l'effettività della tutela giurisdizionale dei diritti di cui all'art. 24, resterebbe infine monca.

Che se poi il cliente non versi nelle condizioni di accesso al patrocinio statale il problema, è ovvio, nemmeno si pone.

Difensore d'Ufficio dell'irreperibile-insolvente e dell'ammesso al Patrocinio gratuito

L'ammesso al patrocinio per i non abbienti ha seguito un percorso ad ostacoli che, attraverso le rigorose limitazioni di cui agli artt. 76, 91 e 92 del d.P.R. 115/2002, gli oneri e le responsabilità riassunti dall'art. 79, la verifica preventiva e successiva del dichiarato, il rischio di revoca postuma del beneficio e la scure della sanzione penale per il mendacio, lo conduce alla espromissione statale.

Al contrario il difensore d'ufficio di soggetto che non abbia richiesto (e, in ipotesi, che non abbia diritto a) tale beneficio avrà corrisposti gli onorari dallo Stato per il sol fatto che, tentato il recupero presso il debitore, non lo abbia reperito o non ne abbia ricevuto soddisfazione; e ciò a prescindere da reddito dell'assistito, precedenti penali, titolo di reato, eventuale occultamento di beni patrimoniali: insomma una effettiva discrasia normativa.

Anche sotto questo secondo profilo alcune riflessioni, partendo dalla distinzione delle due possibili evenienze: che l'assistito sia non reperibile; che egli, presente, si sia dimostrato insolvente.

Se l'assistito è irreperibile non vediamo come possa la quaestio facti rapportarsi per similitudine all'ipotesi dell'ammesso al patrocinio. Sono situazioni distanti e inconciliabili e l'invocato intervento sull'art. 116 del d.P.R.115/2002 determinerebbe che, mentre l'ammesso al gratuito patrocinio vedrà remunerato il suo difensore, nessun presidio potrà tutelare l'effettività della difesa ex ante e dell'onorario ex post nel caso colà contemplato. E, d'altro canto, dovendosi, secondo l'ordinanza, trattare di sola irreperibilità de facto, se si accedesse all'ipotesi prospettata dal rimettente si finirebbe col porre il rischio dell'insolvenza interamente sulle spalle del difensore che non partecipa causalmente della irreperibilità del suo assistito e che, per sovrapprezzo, non ha facoltà di recedere o rinunciare al mandato professionale.

Che se poi, in modo più confacente al sistema, l'ipotesi dell'irreperibilità de facto debba ascendere alla lettura dell'art. 117 fornita dal Supremo Collegio, piuttosto che all'art. 116, l'intervento auspicato su quest'ultima norma lascerebbe del tutto intonsa la questione agitata.

Più delicato è il tema inerente l'insolvenza del difeso d'ufficio non ammesso al patrocinio dei non abbienti; non foss'altro che per il fatto di doverlo, per ipotesi, considerare presente e reperibile: nella stessa condizione relazional-difensiva dell'ammesso al gratuito, insomma.

Che questi si sobbarchi i complessi oneri inerenti la relativa procedura però non toglie e non aggiunge ad una diversità di fondo delle situazioni fattuali normate.

Qui, nel testo dell'ordinanza, un equivoco interpretativo sembra farla da padrone, proprio in corrispondenza con un tòpos forse troppo velocemente esaminato: “È sufficiente che egli … si sia dimostrato insolvente nei suoi confronti [del difensore, n.d.r.] (senza alcuna valutazione in ordine al possibile occultamento di beni patrimoniali), perché il credito del professionista venga garantito dallo Stato”.

Recitata così la questione, parrebbe che la sufficienza dell'essersi dimostrato insolvente valga a qualificare una sorta d'impossibilità di valutazione vera, figlia dell'assenza di obblighi strutturati in capo al difensore d'Ufficio, per la verifica della effettiva insolvenza dell'assistito.

Ed ecco l'equivoco: ciò che si richiede al difensore di ufficio di fare, per approdare alla corresponsione surrogatoria da parte dello Stato, è tutt'altro che poca cosa. Basta riguardare uno qualsiasi dei prontuari che i Consigli dell'Ordine degli Avvocati o le Camere penali hanno elaborato e che confluiscono spesso in appositi protocolli d'intesa con le amministrazioni giudiziarie territoriali, per avvedersi che l'idea al fondo dell'ordinanza è, almeno, imprecisa.

Il sistema quindi sembra tornare in equilibrio semplicemente valutando cosa il difensore di ufficio dell'insolvente debba fare e come debba farlo per dimostrare, a chi spetti, l'effettivo stato di insolvenza.

Così ricostruito il quadro sembra potersi affermare che, mentre il non abbiente sopporta ex ante una farraginosa procedura di verifica circa l'effettività del suo stato, è il difensore dell'insolvente che assume ex lege l'onere di dimostrare, con procedure tutt'altro che disinvolte, la condizione del suo assistito. Una buona perequazione insomma, che disegna per situazioni disuguali discipline adeguatamente disuguali. E insomma, di vulnus alla Carta non si scorge davvero l'ombra.

Electa una via però, l'ordinanza la batte fermamente laddove, asseverata quasi d'imperio la clausola dell'iniquo vantaggio, si spinge infine ad affermare che l'avvantaggiato, pur di non accedere alla “farraginosa procedura di cui all'art. 74 d.P.R. 115/2002”, potrebbe addirittura favorire la realizzazione delle condizioni fattuali di cui all'art. 116.

In altre parole, nel testo dell'ordinanza, tertium comparationis ai fini della sollevata questione resta non la condotta “ordinaria” del professionista che, con media diligenza, adempia il suo mandato (che è poi quella riguardata dal legislatore al momento della compilazione), bensì la condotta “deviata” di quello che, con fare almeno disciplinarmente discutibile, vìoli i doveri della professione, stornando il fine dei suoi atti dall'interesse del cliente all'interesse economico personale. Al di là di considerazioni d'altro tipo quindi, ci s'avvede che anche tecnicamente la questione pare mal posta.

Sulla violazione degli articoli 97 e 111 della Costituzione

L'ultimo argomento scomoda addirittura il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione e la ragionevole durata del processo. Poiché il difensore ha garanzia di veder pagato il suo onorario dallo Stato ove il cliente officiosamente difeso non sia reperibile o sia insolvente, egli potrebbe essere indotto nella tentazione di prolungare artatamente la durata del processo, compiere scelte dettate dal portafogli piuttosto che dall'interesse dell'assistito, evitare riti contratti che, tagliando i tempi, tagliano gli onorari.

Ciò determinerebbe una disfunzione, addirittura di rango costituzionale, del sistema-amministrazione ed una violazione del principio, di pari levatura, della ragionevole durata del processo penale.

Ancora una volta però possiamo segnalare nel costrutto due dati di sicura rilevanza:

a) non pare che un intervento della Consulta possa reggersi, né auspicarsi, sulla base della considerazione di una prospettiva “solo potenziale” d'incostituzionalità del dato positivo e, men che mai, di censurabilità astratta di una condotta quando vada a conformarsi alla lettura distorta di una norma denunciata;

b) nuovamente ad esser presa in esame come elemento di valutazione non è la condotta ordinaria, rispettosa della lettera e dello spirito di questa e molte altre norme dell'ordinamento, ma la condotta infedele.

A confutazione, tre domande e nemmeno una risposta:

a) come si prolunga artatamente la durata del processo? Se esercitare diritti – quali ad es. negare il consenso all'acquisizione di atti di indagine al di fuori del vaglio/filtro dibattimentale od alla rinnovazione mediante lettura nel caso di sostituzione del giudice procedente – rappresenta l'attività dilatoria agitata, non abbiamo di che discutere;

b) chi ha stabilito che l'interesse del cliente sia stato pregiudicato in favore dell'interesse numerario del patrocinatore? Il giudice del processo è e rimane tale. L'alveo disciplinare neppure gli compete, se non nella misura della iniziativa;

c) dulcis in fundo – e qui la l'ordinanza omette considerazioni di fondo – come può fare il difensore dell'irreperibile ad optare per un rito alternativo in assenza di procura?

In conclusione

Al di là degli approdi, l'ordinanza stimola una riflessione.

Essa potrebbe rileggersi come figlia della disistima per la funzione dell'Avvocato, ancorata su termini giuridicamente non esattamente condivisibili e per tematiche tutt'altro che di secondo rilievo. E potrebbe ancora soggiungersi che l'atteggiamento sembra interessare solo una “quota” del parterre forense e che il problema si ingigantisce da solo nel momento in cui si pretende di ergere quella quota ai ranghi di rappresentatività del tutto; con la conseguenza, non solo di fare torto alla miriade di professionisti non annoverabili alla quota in discorso (il che non è un argomento giuridico), ma, per quanto qui direttamente interessa, di disarticolare ex se il ragionamento, stavolta sì giuridico, da porre a base di una q.l.c.

Va detto però con onestà: probabilmente l'ordinanza si alimenta considerevolmente di una prassi quotidiana d'aula fatta di episodi che per davvero (e condivisibilmente) meriterebbero “considerazione degli aspetti deontologici … [del] comportamento”.

Ma anche a fronte di consimili esperienze – che a ciascuno è probabilmente capitato di vivere – non pare corretto tentare la demolizione di un bilanciamento ineludibile alla compressione della facoltà di ricevere o meno il mandato fiduciario e con esso la legittima retribuzione. E ciò ancora in disparte da ogni considerazione in ordine alla possibile sorte – difficilmente percepibile appieno ex ante – delle stesse liste d'ufficio per il caso di accoglimento di una siffatta questione.

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