Il valore della controfirma ministeriale del provvedimento di grazia

Alessandra Testaguzza
13 Luglio 2015

L'intervento della Consulta a seguito della sentenza n. 200 del 18 maggio 2006 sembra aver sancito in via definitiva la natura sostanzialmente presidenziale del provvedimento di grazia. La pronuncia in esame pone tuttavia non pochi interrogativi alla luce della stessa ricostruzione storica dell'istituto affrontata nelle parti introduttive del testo.
Abstract

L'intervento della Consulta a seguito della sentenza n. 200 del 18 maggio 2006 sembra aver sancito in via definitiva la natura sostanzialmente presidenziale del provvedimento di grazia. La pronuncia in esame pone tuttavia non pochi interrogativi alla luce della stessa ricostruzione storica dell'istituto affrontata nelle parti introduttive del testo.

La sentenza della Corte costituzionale 18 maggio 2006, n. 200

Il potere di grazia, assunto come “rientrante in origine tra quelle attribuzioni ancora di natura personale, residui dei diritti propri dei monarchi, senza alcun concorso di altri organi costituzionali” – si dice – ha progressivamente ceduto il passo all'idea che “il Capo dello Stato della monarchia, secondo la Statuto albertino, non [abbia] nessun potere personale; tutti i suoi poteri sono esercitati in quanto rappresentante dello Stato e tutti sottoposti al principio generale della responsabilità ministeriale”. Prosegue: “non casualmente, quindi, nel medesimo impianto costituzionale configurato nel 1948, venne ribadita la necessità che tutti gli atti del Presidente della Repubblica, a pena di invalidità dovessero essere controfirmati dai Ministri proponenti”. Eppure tale ricostruzione, che ripercorre puntualmente gli step di una evoluzione storicamente documentata, mal si coniuga con gli approdi finali della pronuncia la quale afferma che “una volta recuperato l'atto di clemenza alla sua funzione di mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio per eccezionali ragioni umanitarie, risulta evidente la necessità di riconoscere nell'esercizio di tale potere – conformemente anche alla lettera dell'art. 87, comma 11, Cost. – una potestà decisionale del Capo dello Stato, quale organo super partes, rappresentante dell'unità nazionale, estraneo a quello che viene definito il circuito dell'indirizzo politico – governativo”. Il dubbio sollevato in dottrina, pertanto, è che ancora una volta lo sforzo di definire la natura dell'atto di clemenza si sia tradotto in un mero esercizio di esegesi del dato costituzionale senza potersi ritenere del tutto superata l'idea di “atto complesso”, di appannaggio sia del Capo dello Stato che del Guardasigilli.

La natura umanitaria (o politica?) del provvedimento di grazia

In dottrina non è mancato chi ha sottolineato, con grande acutezza, che la controfirma ministeriale di tutti gli atti del Capo dello Stato ai sensi dell'art. 89 Cost., abbia determinato il conferimento di una pari efficacia formale alla manifestazione di volontà di entrambi gli organi costituzionali con la conseguente equiordinazione della volontà del Presidente e di quella del Governo. L'intervento del Presidente, dunque, non sarebbe meno “necessario ed efficiente di quello del Governo”, il che significa che entrambi sono compartecipi pariordinati della potestà che esercitano (A.M. Sandulli). Per questi motivi si è spesso concluso nel senso dell'appartenenza dell'atto alla categoria di quelli sostanzialmente complessi.

L'atto di clemenza, per le sue connotazioni strutturali che prevedono, a seguito di una penetrante istruttoria da parte del Ministro di giustizia, un intervento finale e “conclusivo” da parte del Capo dello Stato, ha fatto spesso oscillare coloro che hanno accennato al problema classificatorio fra soluzioni talvolta anche antitetiche. A chi ha sostenuto la natura di atto presidenziale del provvedimento (C. Mortati) si è contrapposto chi ha ritenuto si trattasse di atto esclusivamente ministeriale (P. Barile) salvo poi orientarsi in favore di atti cc.dd. “sostanzialmente complessi” (A. Valentini).

L'intero apparato motivazionale della pronuncia, infatti, ruota attorno a due punti ben delineati: quello relativo alla titolarità della legittimazione passiva nel giudizio promosso dal Capo dello Stato e quello concernente il valore della controfirma ministeriale, da cui poi deriva il verdetto finale della Consulta. Nel primo caso, la Corte sostiene che l'unico autorizzato a resistere in giudizio debba essere proprio il Ministro della giustizia alla luce delle attribuzioni, da intendersi estensivamente, previste dall'art. 110 Cost. e che sono suscettibili di includere tutti i compiti spettanti al suddetto Ministro in forza di precise disposizioni normative, purché in rapporto di strumentalità rispetto alle funzioni “afferenti all'organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Vengono ricomprese dunque quelle concernenti “l'organizzazione dei servizi relativi all'esecuzione delle pene e delle misure detentive” e così, per quel che qui specificamente interessa, anche l'attività di istruttoria delle domande di grazia e di esecuzione dei relativi provvedimenti secondo quanto previsto dall'art. 681 c.p.p. Parte della dottrina considera l'esclusività del ruolo rivestito in tale frangente dal Guardasigilli, asincrona rispetto alle conclusioni finali cui giunge la pronuncia. Si afferma infatti: “se la premessa su cui si regge la sentenza è quella per cui la controfirma non è sempre la medesima, ed esistono atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi, ed atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, allora o il conflitto sulla doverosità ora della controfirma del Ministro competente ora della firma del Capo dello Stato, alla luce di questa sentenza, è ammissibile per tutti i ministri competenti, o tutta la costruzione diventa insensata” (G.U. Rescigno). Si giunge, pertanto alla ragionata conclusione che la regola più importante in tema di atti sostanzialmente governativi e formalmente presidenziali dovrebbe essere quella che fa da pendant alla regola in tema di atti sostanzialmente presidenziali: come in questi il Ministro, data la decisione (legittima) del Presidente della Repubblica, deve controfirmare, così negli atti sostanzialmente governativi (e legittimi) il Capo dello Stato deve firmare. In ambedue i casi l'atto di uno dei due protagonisti viene declassato a parere obbligatorio (se si ammette, come sembra ragionevole, che prima di firmare o controfirmare il soggetto obbligato a farlo possa dare consigli e suggerimenti, ed avanzare obiezioni) o ad un atto che è contemporaneamente parere e controllo (se si ammette che almeno in certi casi il soggetto che dovrebbe firmare o controfirmare, oltre che avanzare consigli ed obiezioni, possa rifiutarsi per ragioni di legittimità).

Per quanto concerne il secondo profilo, i.e. il valore della controfirma ministeriale, nella ricostruzione della Corte l'idea è quella di rintracciare un potere di natura formalmente e sostanzialmente presidenziale che, invece di snaturare la forma di governo parlamentare in cui si insinua, ne esalti i connotati ai fini di un suo concreto riconoscimento. Difatti, benché il Capo dello Stato eserciti un potere non condizionato dalle determinazioni ministeriali, la decisione finale sulla concessione del provvedimento di clemenza, proprio perché sorretta da presupposti eccezionali e meramente umanitari, resta estranea al giardino della politica (F. Benelli).

Sono, eppure, proprio quelle finalità eminentemente (rectius: esclusivamente) umanitarie della grazia ad aver lasciato perplessa quella parte della dottrina da tempo convinta delle finalità soprattutto politiche, sovente di pacificazione nazionale, cui assolve tale concessione (G. Zagrebelsky, L. Elia). Emblematico il rimprovero di M. Luciani il quale afferma: “la stessa premessa storica dalla quale la Corte ha preso le mosse avrebbe dovuto condurre ad opposti approdi: tra l'esperienza monarchica e quella repubblicana vi è almeno parziale continuità perché la grazia è sempre stata intimamente connessa alla sovranità. Il capo dello Stato non è più come una volta il detentore della sovranità, ma è attraverso il provvedimento di clemenza da lui concesso che essa, comunque, si manifesta. E se la grazia è un “atto di sovranità” non si comprende come se ne possano a priori definire e limitare i profili funzionali. È un paradosso che la Corte sottolinei l'interferenza tra la concessione della grazia e l'esercizio della giurisdizione allo scopo di negare la possibilità di un intervento sostanziale del Governo in nome della divisione dei poteri, e poi non si avveda che proprio questa clamorosa interferenza (che addirittura mette nel nulla lo ius puniendi già esercitato!) esprime una sorta di cortocircuito nei comuni meccanismi di funzionamento dello Stato di diritto che non si comprende come e - soprattutto - sulla base di quali dati di diritto positivo sarebbe possibile tipizzare funzionalmente”.

La “politicità” dell'atto appare dunque connaturale alla sua stessa “anormale” struttura e ciò basta ad escluderla dal recinto degli interventi umanitari. Addirittura c'è chi sostiene si tratti di un vero e proprio atto contra legem (non anche extra ordinem poiché previsto direttamente dalla fonte costituzionale), suscettibile di mitigare il rigorismo della applicazione pura e semplice della legge penale, determinando una evidente deroga al principio di legalità. In definitiva, tutti gli atti delle autorità direttamente o indirettamente rappresentative (come sono indirettamente rappresentative del popolo sia il Governo che il Presidente della Repubblica) possono acquistare valenza politica e cioè diventare oggetto di conflitti politici entro il corpo dei cittadini e delle loro rappresentanze organizzate, ed è proprio per questa ragione, nello spirito della divisione dei poteri, che molti atti sono attribuiti al Presidente della Repubblica purché vi sia la controfirma del Ministro (e cioè in buona sostanza del Governo) affinché, data la sempre possibile valenza politica di tali atti, l'uno possa controbilanciare l'altro. Del resto proprio il conflitto portato davanti alla Corte sta a testimoniare del contrasto tutto politico che si era aperto: cercare di ricondurlo a ragioni giuridiche, come se la grazia fosse un comune atto amministrativo da adottare seguendo la legge, è contrario non solo alla verità storica ma alla realtà contemporanea (G.U. Rescigno).

Nella stessa pronuncia della Corte è evidente il tentativo di circoscrivere la portata del provvedimento clemenziale in quanto comunque in grado di incidere “sull'esecuzione di una pena validamente definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall'ordinamento del processo penale”.

La natura prevalentemente politica della grazia è oltretutto implicitamente confermata dalle stesse riflessioni della Consulta che, dopo aver provveduto ad una disamina della prassi formatasi sulla concessione dell'atto di clemenza dopo l'avvento della Costituzione, alla luce del diverso valore (residuale, in un certo senso) assunto successivamente alle modifiche introdotte in tema di ordinamento penitenziario e di esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, ne rintraccia un consistente ridimensionamento in termini di utilizzazione, destinato a soddisfare soltanto “straordinarie” esigenze di natura umanitaria. Pertanto, se le esigenze “ordinarie” possono essere soddisfatte dall'impiego degli strumenti processuali da parte della magistratura, vuol dire che la valutazione di un'esigenza come “straordinaria”, non positivamente apprezzata, si badi, dal legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità politica (ché se l'avesse apprezzata la si sarebbe potuta soddisfare, appunto, con gli strumenti del diritto processuale, oggettivazione di quella scelta), è logicamente di natura politica, nel senso che difetta di paradigmi normativi ai quali sorreggersi (M. Luciani).

Il valore della controfirma ministeriale

Una volta chiarito che la concessione della grazia è un potere sostanzialmente presidenziale, non può dubitarsi che la controfirma del Ministro della giustizia, competente rationae materiae, costituisca un atto dovuto, che il Ministro non può rifiutare. Partecipando al relativo procedimento essenzialmente in funzione prodromica e strumentale attraverso l'attività istruttoria, la funzione della controfirma costituisce quindi una mera attestazione di regolarità formale dell'atto. In caso contrario si attribuirebbe al Guardasigilli un potere di interdizione e quindi di "veto" assoluto sull'esercizio del potere presidenziale, con una indebita ingerenza nell'esecuzione della pena, che il nostro ordinamento non consente al potere esecutivo. La controfirma ministeriale viene così ad assumere una funzione ulteriore, quella di impegno a dare esecuzione alla decisione presidenziale.

In passato la dottrina ha distinto gli atti del Presidente della Repubblica, generalmente, in tre categorie; c'è chi ha ritenuto la grazia "un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale" (Mortati), chi un atto governativo (Barile), ovvero "un atto formalmente presidenziale e sostanzialmente governativo", chi invece un atto complesso (Zagrebelsky, Paladin, Martines), ovvero un atto duumvirale o duale, sottolineando l'importanza crescente assunta nella prassi dal Ministro della giustizia rispetto al Presidente della Repubblica. È evidente, dunque, che il valoredella controfirma da parte del Ministro della giustizia acquisisce un valore diverso a seconda del suo inquadramento in una delle summenzionate categorie. Ove la grazia dovesse configurarsi come un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale, così come sostenuto nel ricorso presentato alla Consulta, la controfirma dovrebbe ritenersi un atto "dovuto", in quanto conseguente alla verifica sulla legittimità formale del relativo decreto. Ci sono atti del Presidente, infatti, come la nomina dei senatori a vita o dei cinque giudici costituzionali, o come il rinvio alle Camere di una legge, che sono controfirmati senza che la controfirma significhi alcunché oltre la certificazione della validità formale dell'atto presidenziale.

Diversa, invece, sarebbe la valutazione nel caso venisse definita un atto governativo o un atto complesso. In tal caso, il ruolo del Guardasigilli andrebbe inevitabilmente ad assumere contorni ben più definiti ed incisivi nel percorso di adozione dell'atto di clemenza. Non è mancato, in effetti, chi ha sostenuto, nonostante la pronuncia della Consulta del 2006, la natura “complessa” del provvedimento. Tuttavia, gli approdi della Corte costituzionale spingono l'interprete in tutt'altra direzione stante la conclamata potestà decisionale riservata al Capo dello Stato quale supremo garante dell'unità nazionale. Egli, infatti, anche laddove il Ministro, al termine dell'istruttoria valuti negativamente le risultanze acquisite, potrà comunque concedere la grazia con il solo “timido” obbligo di motivare il proprio contrario orientamento.

A questo punto allora ci si è chiesti: quid iuris nel caso di provvedimento di grazia illegittimo adottato da un Capo dello Stato rimasto sordo alle perplessità sollevate dal Guardasigilli? Del resto, una volta attribuito il potere di grazia in via esclusiva al Presidente, è difficile immaginare l'intervento dell'Esecutivo, leso dal suo cattivo esercizio. Non essendovi attribuzioni governative sostanziali direttamente coinvolte dalla scelta sull'an dell'atto, chiederne un intervento immediato e diretto rischierebbe di contraddire l'intera ricostruzione operata dalla Consulta. Così c'è chi ha sostenuto che un cattivo uso del potere, ovverosia il ricorso a un provvedimento di grazia individuale distorto rispetto ai fini posti dalla Costituzione rigida, può essere sempre giustiziato di fronte alla Corte costituzionale per la via del conflitto di attribuzione tra poteri o, in casi estremi, attraverso un giudizio di accusa nei confronti del Presidente della Repubblica. Analoga sorte spetterebbe anche ai casi di dissenso tra Ministro e Presidente della Repubblica.

In conclusione

La Corte per giustificare la netta prevalenza del Capo dello Stato in materia di grazia, oltre ad esaltare il ruolo umanitario da essa assunto e l'importanza di affidare ogni aspetto decisionale della vicenda ad un organo super partes, si preoccupa altresì di motivare le soluzioni accolte indicando il diverso valore acquisito dall'intervento ministeriale con la controfirma rispetto al tipo di atto di cui rappresenta il completamento o, più esattamente, un requisito di validità. In particolare afferma: “è chiaro, infatti, che alla controfirma va attribuito carattere sostanziale quando l'atto sottoposto alla firma del Capo dello Stato sia di tipo governativo e, dunque, espressione delle potestà che sono proprie dell'Esecutivo”. Si stabilisce, in altre parole, l'inapplicabilità di quanto previsto all'interno dell'art. 89, comma 1, Cost. o meglio la vera e propria deresponsabilizzazione del Ministro proponente nei confronti di atti ritenuti di esclusiva prerogativa del Presidente della Repubblica.

Il rischio, rilevato dalla dottrina maggioritaria, è che in questo modo il Capo dello Stato, lasciato completamente e drammaticamente solo nella titolarità sostanziale del potere, possa subire una pericolosa sovraesposizione, oltretutto non presidiata da un formale riconoscimento in Costituzione, e tale da giustificare l'assunzione di un ruolo poco più che notarile da parte del Guardasigilli.

Guida all'approfondimento

P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, 351 ss.

F. Benelli, La decisione sulla natura presidenziale del potere di grazia: una sentenza di sistema, in archivio.rivistaaic.it

F. Dettori, Osservazioni in tema di organizzazione del potere di grazia, in Giur. cost., 1976, I, 2131 ss.

L. Elia, Sull'esercizio del potere di grazia: un caso di amnesia collettiva, in Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, Vol. II, pp. 792 ss.

M. Luciani, Sulla titolarità sostanziale del potere di grazia del Presidente della Repubblica, Corriere giuridico n. 2/2007, p. 193.

C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, IX ed.,T. II, 781 ss.

L. Paladin, voce Presidente della Repubblica, in Enc. dir., vol. XXXV, Milano, 1986, 235 ss.

G.U. Rescigno, Articolo 87, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna - Roma, - Il Foro Italiano, 1978, 279.

G.U. Rescigno, “La Corte sul potere di grazia, ovvero come giuridificare rapporti politici e distruggere una componente essenziale del costituzionalismo nella forma di governo parlamentare”, in Giur. Cost. n.3, 2006

A. M. Sandulli, Il Presidente della Repubblica e la funzione amministrativa, in Scritti in onore di Francesco Carnelutti, Padova, 1950, IV, 217 ss, ora in Scritti giuridici, Napoli, 1990, I, 239.

A. Valentini, Gli atti del Presidente della Repubblica, Milano, 1965, 55.

G. Zagrebelsky, Amnistia, indulto e grazia, Milano, 1974, p. 764.

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