Divieto di reiterazione della misura cautelare: la Consulta esclude l'illegittimità costituzionale, i dubbi rimangono

16 Novembre 2016

La Corte costituzionale, con la recentissima sentenza n. 233/2016 (depositata il 3 novembre), ha escluso l'illegittimità costituzionale dell'art. 309, comma 10, c.p.p. (modificato dalla l. 47/2015), nella parte in cui prevede che l'ordinanza applicativa di una misura cautelare – diversa dalla custodia carceraria – che sia stata dichiarata inefficace per uno dei tre vizi formali indicati nella medesima disposizione ...
Abstract

La Corte costituzionale, con la recentissima sentenza n. 233/2016 (depositata il 3 novembre), ha escluso l'illegittimità costituzionale dell'art. 309, comma 10, c.p.p. (modificato dalla l. 47/2015), nella parte in cui prevede che l'ordinanza applicativa di una misura cautelare – diversa dalla custodia carceraria – che sia stata dichiarata inefficace per uno dei tre vizi formali indicati nella medesima disposizione (ritardo nella trasmissione degli atti al tribunale del riesame, nel deposito del dispositivo o nella stesura della motivazione) non possa essere rinnovata, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate.

L'ordinanza di rimessione (Gip Nola 28 maggio 2015, n. 206) censurava la norma in esame per irragionevolezza, con riferimento all'art. 3 Cost., per una triplice disparità di trattamento:

a) rispetto alle altre norme che utilizzano il concetto di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, assimilabile, sebbene non letteralmente sovrapponibile, a quello adoperato dal novellato art. 309, comma 10, c.p.p. (artt. 275, commi 4 e 4-ter, c.p.p. e art. 89, commi 1 e 2,d.P.R. 309/1990);

b) rispetto a tutte le gradate misure cautelari diverse dalla custodia inframuraria: unica misura adottabile, secondo il Giudice remittente, in presenza di esigenze cautelari eccezionali;

c) rispetto alle altre disposizioni che prevedono la perdita di efficacia della misura per ragioni meramente formali, che non contemplano alcun divieto di rinnovazione (artt. 27, 302, 307 c.p.p. e 13 l. 69/2005).

Il remittente censura, inoltre, la disposizione in commento anche in relazione ai principi sanciti dagli artt. 101 comma 2, e 104, comma 1, Cost., in quanto il giudice sarebbe soggetto non solo alla legge ma, anche, come nel caso sottoposto al suo esame, alla tempestività e regolarità del sub-procedimento di notificazione dell'avviso all'indagato, di fatto consegnando a soggetti estranei alla giurisdizione il potere di condizionare il fruttuoso esercizio dell'azione cautelare.

Le altre disposizioni che prevedono eccezionali esigenze cautelari

Sotto il primo profilo, va rilevato come la sentenza della Corte costituzionale non contenga una specifica motivazione.

Non è certamente la prima volta che il Legislatore fa uso dell'espressione eccezionali esigenze cautelari (o concetto similare) ma in altre norme tale locuzione viene adoperata, in maniera del tutto condivisibile, in ragione della stringente necessità di bilanciare le esigenze di tutela sociale con altri valori costituzionalmente garantiti, come il diritto alla salute.

Così, in particolare, l'art. 89 d.P.R. 309/1990, che sancisce un sostanziale divieto di applicazione o di prosecuzione della custodia carceraria nei confronti di un tossicodipendente che abbia già intrapreso o che intenda intraprendere un programma di recupero terapeutico, prevede, in linea di principio, l'applicazione della misura meno afflittiva degli arresti domiciliari. In detta ipotesi, del tutto ragionevolmente, è stato statuito che la custodia inframuraria possa avere applicazione solo in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, trovando, così, un punto di equilibrio tra le istanze di difesa sociale, da un lato, e l'interesse dell'indagato al recupero terapeutico, dall'altro.

Parimenti ineccepibile appare l'utilizzo della locuzione in esame nel quarto comma dell'art. 275 c.p.p., laddove si prevede che qualora imputati siano una donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

Sempre ai sensi della medesima disposizione, inoltre, solo la presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza può legittimare l'applicazione della misura custodiale massima nei confronti di indagati che abbiano superato l'età di settanta anni.

La stessa locuzione è adoperata, infine, dal Legislatore nei successivi commi dell'art. 275 c.p.p. in relazione agli indagati affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o altra malattia particolarmente grave.

In tutti questi casi, la ratio delle norme è chiarissima ed è sempre la stessa: salvaguardare il più possibile la libertà personale di indagati che si trovino in condizioni di particolare debolezza, consentendo l'applicazione della misura cautelare massima solo in caso di sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

L'intento del Legislatore appare, pertanto, pienamente condivisibile e giustificato dalla necessità di bilanciare interessi antagonisti, tutti costituzionalmente garantiti.

Fattispecie assai diversa è quella contemplata dal nuovo decimo comma dell'art. 309 c.p.p., che richiede eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate semplicemente per poter rinnovare un'ordinanza cautelare dichiarata inefficace solo perché si è registrato un ritardo nella trasmissione degli atti al Tribunale del riesame o nella pronuncia del dispositivo o nella stesura della motivazione.

In questo caso, infatti, non siamo di fronte ad una donna incinta, ad un indagato ultrasettantenne, ad un imputato gravemente malato o tossicodipendente ma semplicemente innanzi ad un indagato “miracolato” che ha avuto la (buona) ventura di vedersi dichiarare inefficace un provvedimento restrittivo senza che il tribunale del riesame abbia avuto la possibilità di sindacarlo nel merito o, addirittura, che sia stato pienamente confermato dal tribunale ex art. 309 c.p.p. ma con un dispositivo o una motivazione depositati in ritardo.

Si evidenzia, pertanto, a giudizio di chi scrive, l'irragionevolezza della previsione e, con essa, la sua illegittimità per contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

Esigenze cautelari eccezionali e applicabilità di misure diverse dalla custodia in carcere

Passando al secondo dei profili di illegittimità evidenziati nell'ordinanza di rimessione, va rilevato come la Corte consideri errato l'assunto fatto proprio dal Gip, secondo cui la semplice applicazione di una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere vale a dimostrare l'insussistenza di eccezionali esigenze cautelari, con la conseguente impossibilità, stante l'attuale tenore dell'art. 309, comma 10, c.p.p., di rinnovare qualsiasi ordinanza caducata che disponga una misura diversa e meno gravosa della custodia inframuraria.

La Corte osserva, infatti, che, da un lato, l'applicazione della custodia in carcere può essere impedita dagli stessi limiti edittali previsti per il delitto per cui si procede (non superiori, nel massimo, a cinque anni); dall'altro, la scelta della misura da adottare non dipende solo dal grado ma anche dalla natura delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto (art. 275, comma 1, c.p.p.), con la conseguenza che possono ricorrere casi in cui, pur in presenza di un grado del pericolo elevatissimo, dunque eccezionale, la natura dell'esigenza da tutelare consigli l'applicazione di una misura diversa da quella carceraria (si fanno esplicitamente gli esempi dell'allontanamento dalla casa familiare, del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa e del divieto o obbligo di dimora, misure cautelari che – si afferma –possono contrastare efficacemente il pericolo, anche elevatissimo, che particolari contatti con luoghi o persone, se non impediti, scatenino comportamenti materialmente o moralmente lesivi.

Anche in questi casi, dunque, il Giudice potrebbe riscontrare quelle esigenze cautelari eccezionali che, a norma dell'art. 309, comma 10, c.p.p., giustificano l'emissione di un nuovo provvedimento cautelare.

Sul punto, le argomentazioni della Corte appaiono indubbiamente persuasive nel momento in cui affermano che eccezionali esigenze cautelari possono ricorrere anche in casi in cui si procede per delitti puniti con una pena edittale che non consente l'applicazione della misura carceraria (inferiore nel massimo a cinque anni).

In casi di tal genere, pur in presenza di esigenze di eccezionale rilievo, la scelta del giudice non può non essere vincolata dalle condizioni generali di applicabilità, con conseguente impossibilità di adottare la misura custodiale massima.

Con riferimento a tutti gli altri casi (compreso quello specificamente sottoposto all'esame della Consulta), invece, in cui si procede per un qualsiasi reato che permette, in astratto, l'applicazione della misura carceraria, affermare - come fa la Corte – che non debba necessariamente trovare applicazione la custodia in carcere, pur in presenza di eccezionali esigenze cautelari appare eccentrico rispetto a tutte le disposizioni anteriori alla l. 47/2015 che utilizzavano (e utilizzano) l'espressione esigenze cautelari di eccezionale rilevanza al solo scopo di legittimare, eccezionalmente (date le condizioni di peculiare fragilità dell'indagato), l'adozione della custodia inframuraria.

Vengono in rilievo, ancora una volta, gli artt. 275, commi 4 e 4-ter c.p.p. e art. 89 d.P.R. 309/1990: le norme in questione hanno esattamente lo scopo di consentire che, nei confronti delle specifiche categorie di soggetti ivi indicate (ultrasettantenni, donne incinte, genitori di prole infraseienne, persone affette da gravi patologie), possa trovare applicazione (in luogo della misura degli arresti domiciliari) la custodia in carcere qualora ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

Si tratta, dunque, di pericula libertatis talmente gravi da imporre esclusivamente l'adozione della misura cautelare massima prevista dall'ordinamento, anche qualora l'indagato appartenga ad una delle categorie di persone suindicate, particolarmente deboli e meritevoli di speciale tutela, in luogo della misura degli arresti domiciliari che, secondo i regimi derogatori previsti, costituisce, in sostanza, la misura massima ordinariamente adottabile nei loro confronti.

Se così è, appare difficile sostenere che in presenza di eccezionali esigenze cautelari possa adottarsi una misura diversa da quella massima consentita dalle condizioni generali di applicabilità inerenti allo specifico reato oggetto di contestazione (il carcere, ogni volta che si proceda per un delitto punito con pena detentiva non inferiore a cinque anni).

È vero, come osserva la Corte, che nella scelta della misura cautelare da adottare, occorre tenere conto non soltanto del grado ma anche della natura delle esigenze cautelari e che, pertanto, almeno astrattamente, il pericolo di reiterazione potrebbe essere scongiurato dall'adozione di una misura più blanda, come ad esempio il divieto di avvicinamento alla persona offesa; tuttavia, nel verificare se i pericula libertatis siano o meno eccezionali, non può non prendersi in considerazione, come parametro di ponderazione, anche la capacità di autocontrollo dell'indagato, che potrebbe palesarsi particolarmente carente, ad esempio, in ipotesi di precedenti plurime condanne per evasione o violazione delle misure di prevenzione o in presenza di molteplici pregresse violazioni delle prescrizioni inerenti a misure cautelari diverse da quella inframuraria (che quindi richiedono capacità di autocontrollo e volontà di collaborazione).

È proprio questa infausta prognosi, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, a giustificare l'adozione della misura carceraria anche nelle ipotesi previste dagli artt. 275, commi 4 e 4-ter c.p.p. e art. 89 d.P.R. 309/1990, in luogo della misura gradata degli arresti domiciliari. Infatti, non vi è esigenza cautelare che non possa essere pienamente soddisfatta con la misura domiciliare (o anche con misure meno afflittive), se si prevede che l'indagato si atterrà scrupolosamente alle prescrizioni impostegli (restare rinchiuso all'interno dell'abitazione luogo di esecuzione della misura e non avere contatti con soggetti diversi dai conviventi, qualora specificamente prescritto).

L'eccezionalità delle esigenze cautelari, dunque, si misura sulla base di un duplice parametro: da un lato, la probabilità (elevatissima) di concretizzazione del pericolo cautelare (ad esempio la reiterazione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede); dall'altro, la capacità di autocontrollo (ridottissima o assolutamente assente) del cautelato.

A tali conclusioni sembra conducano univocamente le norme contemplate dalle disposizioni degli artt. 275, commi 4 e 4-ter, c.p.p. e art. 89 d.P.R. 309/1990, sopra richiamati: non avrebbe senso alcuno imporre la custodia in carcere, in luogo di quella degli arresti domiciliari, se si prevedesse che colui che risulta gravato da esigenze cautelari di eccezionale rilevanza sia in grado di ottemperare alle prescrizioni relative alla misura domiciliare (o ad altra ancor meno gravosa). Le norme in esame si tradurrebbero in una gratuita e ultronea restrizione della libertà personale, contraria ai fondamentali principi in materia cautelare.

L'espressione in esame, dunque, è sempre stata usata proprio per indicare esigenze talmente gravi da poter essere tutelate solo con il carcere, anche a discapito di condizioni soggettive certamente meritevoli di tutela (per età, salute, maternità o assistenza).

Le prassi distorsive del passato

Secondo la Corte, la norma censurata avrebbe lo scopo di contrastare prassi distorsive, verificatesi in passato, come quella dell'adozione di una nuova ordinanza cautelare prima ancora della scarcerazione dell'interessato o quella della successione di “ordinanze-fotocopia”, caducate e non controllate.

In realtà, se così fosse, sarebbe bastato molto meno: sarebbe stato sufficiente prevedere il divieto di rinnovazione in costanza di stato detentivo dell'indagato determinato dall'ordinanza custodiale originaria o prescrivere puntuali oneri motivazionali, svincolati comunque dal livello delle esigenze cautelari.

Neppure l'intendimento di evitare la successione di ordinanze-fotocopia sembra poter legittimare la disposizione in esame. Invero, qualora il giudice che emette la prima ordinanza (quella poi caducata), ponga già in rilievo la sussistenza di esigenze cautelari eccezionali, non vi è alcuna ragione di impedire che il secondo provvedimento ripercorra, nella sostanza, il medesimo iter argomentativo articolato nell'ordinanza coercitiva dichiarata inefficace.

Le altre disposizioni che prevedono una declaratoria di inefficacia della misura per vizi formali

Il tema rispetto al quale la sentenza in commento risulta davvero non condivisibile è il discrimen individuato tra i tre vizi formali indicati dall'art. 309, comma 10, c.p.p. e tutti gli altri casi in cui, invece, pur a fronte di disfunzioni procedimentali (meramente formali), che determinano la cessazione di efficacia della misura in corso, l'ordinanza genetico-applicativa della stessa può essere pacificamente riemessa.

Appare utile, sul punto, richiamare brevemente la giurisprudenza di legittimità antecedente l'entrata in vigore della l. 47/2015, che ha costantemente affermato, in relazione a tutti i casi di caducazione formale dell'ordinanza cautelare (nessuno escluso), che il provvedimento coercitivo può essere certamente riemesso, alle stesse condizioni ordinariamente previste per l'emissione (per la prima volta) di un'ordinanza di custodia cautelare (gravi indizi di colpevolezza e “ordinarie” esigenze cautelari), senza necessità di procedere, prima della riemissione del provvedimento custodiale, all'interrogatorio dell'indagato (con l'unica eccezione, sotto tale ultimo profilo, dell'art. 302 c.p.p., che richiede espressamente il previo interrogatorio da eseguirsi in stato di libertà).

Infatti, prima dell'entrata in vigore della riforma del 2015, si affermava pacificamente la reiterabilità della misura cautelare nei casi in cui la stessa fosse divenuta inefficace per motivi di ordine esclusivamente formale. In tali ipotesi, si asseriva che l'ammissibilità di una nuova ordinanza custodiale trova il suo fondamento nella più esatta e reale portata del principio generale del ne bis in idem, alla luce del quale la misura finisce per essere non reiterabile solo quando il giudice sia chiamato a riesaminare nel merito quegli stessi elementi che siano già stati ritenuti insussistenti o insufficienti e non già quando tali elementi non siano mai stati valutati. Si precisava, a tal riguardo, che nessuna rilevanza ostativa può essere riconosciuta alla circostanza che il Legislatore abbia previsto espressamente la reiterabilità della misura solo nell'ipotesi di perdita di efficacia della stessa per omesso interrogatorio nel termine di cui all'art. 302 c.p.p..

È agevole enucleare gli argomenti che sorreggono tale conclusione.

Occorre prendere le mosse, in primo luogo, da una corretta interpretazione del principio del ne bis in idem.

In maniera assolutamente costante, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che il principio in questione costituisce ostacolo alla riemissione di una precedente ordinanza poi caducata solo nell'ipotesi in cui il provvedimento sia stato annullato con un giudizio nel merito, che abbia rilevato l'assenza di uno dei presupposti legittimanti l'adozione della misura cautelare (gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari) e tale provvedimento di annullamento sia passato in “giudicato” (non essendo stato impugnato o avendo trovato definitiva conferma in sede di gravame).

Al contrario, nessun effetto preclusivo può essere riconosciuto ad un provvedimento che non pronunci l'“annullamento” nel merito ma si limiti a prendere atto di un vizio meramente formale, che non incide assolutamente sui presupposti e sulla fondatezza dell'ordinanza coercitiva adottata.

In secondo luogo, va evidenziato che non mancano certamente, all'interno del sistema processuale penale, disposizioni che contemplano esplicitamente la possibilità di riemettere un'ordinanza cautelare precedentemente dichiarata inefficace per vizi di forma.

Si fa riferimento, in particolare, all'art. 302 c.p.p., il quale, in ipotesi di intervenuta caducazione del provvedimento coercitivo per omesso espletamento dell'interrogatorio di garanzia nei termini previsti dall'art. 294 c.p.p., prevede espressamente la possibilità di rinnovare l'ordinanza custodiale, alla sola condizione che venga espletato l'interrogatorio dell'indagato in condizioni di libertà.

Sebbene la norma in questione riguardi la specifica ipotesi dell'omesso interrogatorio, non si è mai dubitato in giurisprudenza che la facoltà di reiterazione del provvedimento cautelare sia estensibile anche alle altre ipotesi di declaratoria di inefficacia della misura cautelare per vizi formali.

Portata certamente generale ha poi il disposto dell'art. 297, comma 3, c.p.p., il quale contempla a chiare lettere la possibilità che nei confronti di un imputato siano emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, prevedendo il meccanismo della retrodatazione degli effetti delle ordinanze coercitive adottate successivamente come sistema di tutela e di garanzia volto a fronteggiare eventuali abusi.

Non v'è dubbio, pertanto, che esista, nell'ordinamento processuale penale, un principio di carattere generale in virtù del quale è certamente possibile rinnovare un'ordinanza applicativa di una misura cautelare qualora questa sia stata dichiarata inefficace per mere disfunzioni procedimentali.

Occorre, allora, verificare quale sia l'elemento differenziale che, a giudizio della Corte, giustifica un diverso trattamento rispetto a fattispecie che risultano pienamente sovrapponibili.

Orbene, l'elemento peculiare che, secondo la Corte costituzionale, vale a distinguere le tre ipotesi di caducazione previste dall'art. 309, comma 10, c.p.p. da tutte le altre ipotesi di vizio formale, con la conseguenza di rendere legittimo e pienamente conforme ai principi costituzionali l'introdotto divieto di rinnovazione dell'ordinanza custodiale dichiarata inefficace, sarebbe rappresentato dall'esito favorevole della procedura per l'indagato.

La sentenza in esame, infatti, dopo aver espressamente richiamato le fattispecie indicate come termini di comparazione nell'ordinanza di rimessione (art. 302 c.p.p., nel caso di omissione dell'interrogatorio entro il termine stabilito dall'art. 294 c.p.p.; art. 13, comma 3,l. 69/2005, nel caso in cui non pervenga il mandato d'arresto europeo; art. 27 c.p.p., nel caso di misura disposta dal giudice incompetente; art. 307 c.p.p., in ipotesi di cessazione di efficacia per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare), afferma espressamente che i casi disciplinati dagli articoli indicati in comparazione sono completamente diversi da quello regolato dall'art. 309, comma 10, cod. proc. pen., che concerne la perdita di efficacia della misura coercitiva all'esito di un procedimento di riesame. In questo caso il procedimento si è concluso, anche se per ragioni formali, con un esito favorevole alla persona che lo ha attivato, e la norma impugnata è diretta a evitare che tale esito sia frustrato attraverso la reiterazione del provvedimento cautelare caducato e la necessità per l'interessato di promuovere un nuovo procedimento di riesame, identico al precedente. Se potesse avvenire ciò, infatti, la perdita di efficacia della misura coercitiva si risolverebbe in un danno per l'interessato, che vedrebbe solo rinviato il momento della decisione sulla richiesta di riesame e il suo eventuale accoglimento.

La Corte osserva, inoltre, che anche l'art. 302 cod. proc. pen., impropriamente messo in comparazione, non consente che la misura sia immediatamente reiterata. Essa infatti “può essere nuovamente disposta”, ma solo “previo interrogatorio, allorché, valutati i risultati di questo, sussistono le condizioni indicate negli artt. 273, 274 e 275”.

L'assunto non risulta pienamente convincente.

Infatti, ad avviso di chi scrive, appare dubbio che, in ipotesi di tal genere, vi sia un esito e soprattutto che si tratti di un esito favorevole.

Invero, se per esito favorevole si intende una decisione che si limiti a prendere atto, sul piano strettamente formale, dell'intervenuta cessazione di efficacia della misura, senza alcuna statuizione sui presupposti sostanziali di adozione della stessa (gravi indizi ed esigenze cautelari) – proprio in tal senso sembra propendere la decisone della Corte costituzionale (esito favorevole […] anche se per ragioni formali) – davvero non si riesce a cogliere la differenza tra una declaratoria di inefficacia per un ritardo nella trasmissione degli atti al tribunale del riesame, nella adozione del dispositivo o nella stesura della motivazione, da un lato, e una caducazione dovuta ad omesso interrogatorio di garanzia o all'incompetenza del giudice o alla mancata trasmissione del mandato di arresto europeo.

È, infatti, evidente che, in tutti questi casi, si tratta di disfunzioni procedurali, di carattere meramente formale, accomunate dalla circostanza che nessuna statuizione è intervenuta sul merito dell'ordinanza originariamente adottata.

Non si vede, pertanto, per quale ragione per i soli tre vizi procedurali previsti dal novellato art. 309, comma 10, c.p.p. debba ritenersi legittima la previsione di uno sbarramento praticamente assoluto alla riadozione del provvedimento coercitivo.

Ancora più drastiche le conclusioni alle quali si giunge nell'ipotesi in cui con l'espressione esito favorevole si volesse alludere ad una decisione di carattere sostanziale.

Sotto tale profilo, infatti, non solo è possibile che il tribunale del riesame abbia deciso (mediante deposito del dispositivo) confermando pienamente la misura (con rigetto totale del ricorso); ma è addirittura possibile che il tribunale abbia anche motivato la propria decisione, articolando le ragioni di conferma dell'ordinanza genetica (sebbene la motivazione sia poi stata depositata con ritardo). In tal caso, si giunge all'assurdo di non poter più emettere alcuna misura (fatta salva la sussistenza di eccezionali esigenze cautelari) nei confronti di un indagato che è stato destinatario dell'ordinanza genetica e della piena e motivata conferma della stessa da parte del tribunale del riesame, con due decisioni sostanziali pienamente conformi e sfavorevoli al ricorrente.

Peraltro, va rilevato che un ulteriore termine di comparazione con la disposizione dettata dall'art. 309, comma 10, c.p.p. è stato introdotto con la stessa l. 47/2015 all'interno del medesimo articolo del codice di rito.

Si tratta della statuizione di cui all'art. 309, comma 9, c.p.p., che prevede l'annullamento, da parte del tribunale del riesame, dell'ordinanza genetica della misura cautelare, qualora questa sia priva di motivazione o di autonoma valutazione degli indizi di colpevolezza, delle esigenze cautelari e degli elementi forniti dalla difesa.

In tal caso, si va addirittura oltre una mera declaratoria di inefficacia: la pronuncia prevista è infatti di annullamento, in tutti i casi in cui l'ordinanza cautelare manchi di motivazione o di autonoma valutazione dei presupposti applicativi della misura.

Eppure, non v'è dubbio che nella fattispecie in questione, a seguito della pronuncia di annullamento, l'ordinanza coercitiva possa essere riadottata nei confronti dello stesso indagato per il medesimo fatto-reato.

In tal senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità successiva all'entrata in vigore della l. 47/2015 (cfr. Cass. pen., Sez. II, 13 aprile 2016, n. 18131), muovendo proprio dal confronto tra la disposizione dell'art. 309, comma 9, c.p.p., che prevede semplicemente un provvedimento di annullamento senza aggiungere alcun divieto di riemissione dell'ordinanza genetica, e la statuizione contemplata dal decimo comma del medesimo articolo, che, invece, oltre a prevedere una declaratoria di inefficacia, introduce anche il divieto di rinnovazione del provvedimento custodiale (salve eccezionali esigenze cautelari).

Anche il disposto dell'art. 309, comma 9, c.p.p., dunque, stigmatizza un vizio formale (la mancanza di motivazione o di autonoma valutazione nell'ordinanza genetica), senza alcun riferimento ai presupposti sostanziali del provvedimento coercitivo, sebbene il Legislatore qualifichi la decisione in termini di annullamento. Eppure, non v'è dubbio che l'ordinanza possa essere riadottata, sulla base degli stessi presupposti e per lo stesso reato.

Si tratta di un ulteriore termine di paragone, peraltro inserito nella medesima procedura di riesame, rispetto al quale l'art. 309, comma 10, c.p.p. contempla una disciplina del tutto peculiare, che si discosta nettamente da tutte le altre ipotesi di caducazione formale dell'ordinanza restrittiva.

Con specifico riferimento alla fattispecie di cui all'art. 302 c.p.p., che, ad avviso della Corte, non consentirebbe l'immediata rinnovazione dell'ordinanza in quanto impone il previo espletamento dell'interrogatorio dell'indagato, va osservato che, da un lato, l'interrogatorio è imposto, in questo caso, proprio per la peculiarità del vizio procedimentale rilevato (l'omesso interrogatorio nei termini stabiliti dall'art. 294 c.p.p.); dall'altro, pur a seguito del disposto incombente, il provvedimento custodiale può essere riemesso sulla base dei normali presupposti applicativi delle misure cautelari, ivi comprese “ordinarie” esigenze cautelari, in virtù dell'esplicito richiamo agli artt. 273, 274 e 275 operato dallo stesso art. 302 c.p.p..

La disparità di trattamento rispetto ad altri coindagati nel medesimo procedimento

Sotto il profilo strettamente “soggettivo”, non si comprende quale possa essere la differenza, magari all'interno dello stesso procedimento, tra l'indagato attinto per la prima volta da un'ordinanza applicativa di una misura cautelare e il coindagato del medesimo reato che sia stato originariamente colpito da un provvedimento restrittivo, che ha cessato di avere efficacia solo perché gli atti processuali sono stati trasmessi con un giorno di ritardo al tribunale del riesame o perché, sempre con un giorno di ritardo, è stato emesso il dispositivo o stesa la motivazione.

Anzi, paradossalmente, come si è detto, è possibile che in casi del genere la presenza di (ordinarie) esigenze cautelari sia stata ritenuta, sia dal giudice che ha emesso l'ordinanza genetica, sia dal tribunale del riesame, il quale, con il dispositivo o con la motivazione adottati con ritardo (seppur, magari, minimo), potrebbe aver pienamente confermato il provvedimento restrittivo emanato dal giudice di prime cure.

In tutti questi casi, però, a differenza di quanto previsto prima della l. 47/2015, l'ordinanza cautelare non può essere rinnovata se non in presenza di “eccezionalipericula libertatis, che potrebbero evidentemente anche non sussistere, con la conseguenza che l'indagato si troverebbe protetto, sotto il profilo cautelare, da una sorta di “campana di vetro”, che lo pone al riparo da qualsiasi tipo di intervento cautelare.

Sul punto, la Corte afferma che tale disparità di trattamento tra coindagati (così censurata dal giudice remittente) si giustifica considerando che è il mancato rispetto delle cadenze temporali stabilite dall'art. 309 cod. proc. pen. a differenziare una vicenda cautelare dall'altra, sicché situazioni cautelari differenti vengono naturalmente a ricevere trattamenti diversi.

La premessa della Corte è indubbiamente condivisibile: nell'ambito della procedura cautelare relativa ad un indagato si è verificato un “incidente” che non ha caratterizzato, invece, le procedure relative ad altri coindagati. Ma, al fine di stigmatizzare il vizio procedimentale occorso, è più che sufficiente la declaratoria di inefficacia del provvedimento genetico del regime cautelare, con la conseguente necessità che lo stesso venga riadottato.

Prevedere, invece, un divieto di rinnovazione, e solo per alcune declaratorie di inefficacia, appare una sanzione del tutto sproporzionata rispetto alla disfunzione formale registratasi che finisce per attribuire a semplici difetti procedimentali (ad esempio, un mero problema di notifica all'indagato), lo stesso peso, se non maggiore, che hanno i presupposti sostanziali di applicazione della misura.

In conclusione

La sentenza della Corte corre il rischio di legittimare “anomali” interventi del Legislatore sul fondamentale principio del ne bis in idem.

Infatti, fino a questo momento è sempre stato pacifico che non possa configurarsi alcun “giudicato cautelare” in tutte le ipotesi in cui l'ordinanza applicativa della misura venga caducata per vizi meramente formali e procedurali, mentre il giudicato opera nei soli casi in cui, con un provvedimento reso all'esito di un giudizio di impugnazione, divenuto “irrevocabile”, venga affermata l'insussistenza dei presupposti sostanziali di applicazione della stessa (gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari).

La pronuncia in commento finisce per attribuire al Legislatore la facoltà di selezionare, nell'ambito di tutte le ipotesi di caducazione formale (che, in linea di principio, non prevedono alcun divieto di rinnovazione della misura caducata), alcune fattispecie, nella sostanza assolutamente identiche alle altre, in cui, invece, si afferma l'operatività del principio del ne bis in idem, con conseguente formazione del giudicato cautelare, superabile solo in presenza di eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate.

In definitiva, a parere di chi scrive, la decisione della Corte non sembra condivisibile, non riuscendo a spiegare le ragioni della differente disciplina esistente tra i tre vizi formali previsti dall'art. 309, comma 10, c.p.p. e altre disfunzioni, di identica natura, che invece non prevedono alcun divieto di rinnovazione dell'ordinanza coercitiva, permettendone la reiterazione in presenza di “ordinarie” esigenze cautelari.

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