Danno patrimoniale futuro della vittima principale lavoratore

Lucio Munaro
12 Maggio 2014

Il danno patrimoniale futuro presuppone che le lesioni subite dalla vittima principale producano una definitiva compromissione dell'integrità psicofisica (i postumi permanenti), la quale impedisca alla vittima stessa, di regola secondo una valutazione probabilistica di verosimiglianza, o di percepire (in tutto o in parte) i medesimi guadagni percepiti sino a quel momento, o di incrementare i propri guadagni migliorando la posizione reddituale; e va chiarito che l'incisione della capacità lavorativa specifica inerisce all'attività lavorativa concretamente svolta dal danneggiato prima dell'evento dannoso.
Nozione

Il danno patrimoniale futuro presuppone che le lesioni subite dalla vittima principale producano una definitiva compromissione dell'integrità psicofisica (i postumi permanenti), la quale impedisca alla vittima stessa, di regola secondo una valutazione probabilistica di verosimiglianza, o di percepire (in tutto o in parte) i medesimi guadagni percepiti sino a quel momento, o di incrementare i propri guadagni migliorando la posizione reddituale; e va chiarito che l'incisione della capacità lavorativa specifica inerisce all'attività lavorativa concretamente svolta dal danneggiato prima dell'evento dannoso.

Non vi è danno patrimoniale, sebbene biologico, quando la compromissione della capacità di lavoro non influisca sulla capacità di guadagno, rimasta immutata, ma renda invece più usurante, faticoso e difficoltoso il lavoro svolto (Cass. civ., sez. III, 24 febbraio 2011 n. 4493; Cass. civ., sez. III, 24 marzo 2004 n. 5840); si parla in questo caso di lesione della c.d. cenestesi lavorativa, la quale, comportando una compromissione biologica dell'essenza dell'individuo, impone una liquidazione secondo i parametri del danno non patrimoniale. In concreto, si personalizza il risarcimento apportando un aumento percentuale al valore del punto di invalidità utilizzato nella liquidazione del danno biologico (ex multis, Cass. civ., sez. III, 27 giugno 2007 n. 14840).

Vi è danno patrimoniale futuro, però, quando la maggiore usura correlata alla riduzione di energie lavorative, pur non incidendo nell'attualità sulla capacità di guadagno, renda verosimile un'anticipata cessazione dell'attività lavorativa ovvero precluda la concreta possibilità di svolgere attività più redditizie (Cass. civ., sez. III, 19 marzo 2009 n. 6658). Evidentemente il riconoscimento del danno in tal caso postula una particolare accuratezza e precisione nell'attività assertiva, che deve giustificare con rigore il ragionamento inferenziale in merito alla prevedibile, anticipata cessazione del lavoro.

Parrebbe doversi includere nel danno patrimoniale futuro altresì la compromissione della capacità lavorativa generica, e cioè l'idoneità a svolgere un lavoro anche diverso dal proprio ma confacente alle proprie attitudini (Cass. civ., sez. III,16 gennaio 2013 n. 908), e che dunque si sarebbe stati in grado di svolgere in base alle condizioni fisiche e alla preparazione culturale e professionale (così Cass., sez. lav., 9 marzo 2001 n. 3519). Con questa recente pronuncia il giudice di legittimità ha così contraddetto la consolidata giurisprudenza che includeva la lesione della capacità lavorativa generica nel danno biologico, con la conseguente, eventuale ‘personalizzazione' di quest'ultimo (ex multis, Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2007 n. 2311).

Nesso di causalità

Ai fini del risarcimento del danno patrimoniale futuro, deve emergere anzitutto il nesso causale tra compromissione dell'integrità psicofisica (i postumi permanenti) e incisione della capacità di lavoro specifica, la quale attiene all'attività lavorativa svolta prima del fatto illecito; in seconda battuta, deve concretamente dimostrarsi il nesso eziologico tra menomazione della capacità di lavoro specifica e contrazione del guadagno, dovendosi escludere ogni automatismo al riguardo. La perdita di guadagno non è affatto una conseguenza necessaria e automatica dell'altra perdita, dovendo essere effettivamente dimostrata (per tutte, Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2013 n. 3290); basti pensare per es. ad una ricollocazione organizzativa del lavoratore in seno all'impresa, senza conseguenze sul reddito. Naturalmente la prova su base presuntiva sarà spesso dirimente, purchè si abbia cura di esplicitare nitidamente il ragionamento inferenziale sotteso, onde evitare il rischio (tutt'altro che teorico) di mascherare da presunzioni semplici un sostanziale automatismo dimostrativo.

Onere della prova

Il danneggiato deve dare anzitutto la prova dell'attività lavorativa svolta prima dell'evento lesivo, ovvero di quella che avrebbe verosimilmente svolto; quindi deve dimostrare che la menomazione psicofisica ha concretamente ridotto sia la capacità di lavoro specifica, sia la capacità di guadagno. Ancora, è suo onere provare che è venuta altresì meno la capacità di svolgere lavori diversi (da quello svolto al momento del fatto lesivo), i quali siano consoni alle sue attitudini e capacità, oltre che alla sua condizione personale ad ambientale, e che possano concretamente surrogare (in tutto o in parte) il reddito perduto (per tutte, Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2010 n. 2062); in tal caso deve aversi riguardo all'età del danneggiato e alle concrete possibilità di lavoro offertegli dal mercato in un dato momento storico, rilevando non già le attività potenziali, ma quelle concretamente plausibili (Chindemi 2011, 561 ss.).

In presenza di micropermanenti - grado in invalidità permanente inferiore al 10 % - di regola non vi è alcuna compromissione della capacità di lavoro specifica, tanto ciò vero che opera al riguardo una presunzione semplice; ciò che viene ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, la quale esclude appunto, su base presuntiva, che i postumi permanenti di grado inferiore al 10 % abbiano un qualche riflesso sulla capacità di lavoro e dunque di guadagno. Il danneggiato pertanto ha l'onere di superare detta presunzione, offrendo la prova specifica che, nonostante la modesta entità del danno alla persona, il lavoro ne ha risentito in termini tali da provocare una contrazione reddituale; tale impegno probatorio va assolto con la puntuale allegazione e dimostrazione di circostanze specifiche relative all'incisione del lavoro e quindi del reddito (per tutte, Cass. civ., sez. III, 1 giugno 2010 n. 13431; Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2007 n. 19357).

In presenza di macropermanenti, invece, opera la presunzione opposta, giacchè di regola il notevole grado di invalidità incide altresì sulla capacità di lavoro e di guadagno. Ovviamente non opera alcun automatismo al riguardo, né con riguardo all'an dell'incisione, né con riguardo al quantum, sicchè la percentuale di invalidità non può essere fatta automaticamente coincidere con quella di incapacità lavorativa (Cass. civ., sez. III, 14 novembre 2013 n. 25634; Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2013 n. 3290). In tal caso, però, il danneggiato è assistito sul piano probatorio dal favore della presunzione, la cui forza dimostrativa dipenderà tipicamente dal grado di invalidità permanente (più la lesione è invalidante, più è difficilmente superabile la presunzione circa la compromissione del lavoro). Se dunque la presunzione sposta sul danneggiante l'onere di provare che le lesioni non hanno inciso sulla capacità di lavoro - con un ‘impegno' probatorio proporzionale alla ‘quantità e qualità' di lesione -, nondimeno il danneggiato deve pur sempre allegare e provare l'aggravio concretamente risentito dal suo lavoro (Cass., sez. III, 5 febbraio 2013 n. 2644).

Quanto all'onere probatorio circa il reddito compromesso, dall'art. 137 Cod. Ass. si evince che la dichiarazione dei redditi ha un'efficacia probatoria privilegiata, sicchè il danneggiato - che abbia previamente dimostrato il nesso causale tra evento lesivo e contrazione del guadagno nei termini già visti - può benissimo assolvere il suo onere probatorio sul quantum del danno limitandosi a produrre la dichiarazione dei redditi. Siccome quest'ultima fa presumere (iuris tantum) che il reddito sia quello ivi indicato a fini fiscali, l'interessato o il controinteressato può comunque offrire la prova contraria; da un canto il danneggiante o l'assicuratore può dimostrare che la dichiarazione è inveritiera, d'altro canto il danneggiato può provare che il reddito reale è maggiore di quello denunciato al fisco. La dichiarazione è pertanto una prova di per sé sufficiente per quantificare il reddito, ma non vi sono limiti probatori qualora se ne voglia dimostrare l'inaffidabilità nelle due direzioni viste (per tutte, Cass. civ., sez. III, 21 novembre 2000 n. 15025, ovviamente intervenuta sull'art. 4 d.l. n. 857/1976 poi trasfuso nell'art. 137 Cod. Ass.).

Aspetti medico-legali

L'accertamento in merito all'indicata sequenza di nessi causali richiede naturalmente la disposizione di una c.t.u. medico-legale. Il quesito di regola include la valutazione dell'incidenza della menomazione invalidante sulla capacità di lavoro specifica, talchè al consulente viene demandato di verificare sotto quali profili e per quali aspetti i postumi incidano sull'attività di lavoro concretamente svolta; se dunque il lavoro sia impedito per il futuro ovvero se sia parzialmente compromesso, con individuazione in quest'ultimo caso della misura percentuale di compromissione. Spetta poi al giudice, e non certo al c.t.u. - talora investito erroneamente di tale indebito compito - individuare la contrazione di reddito conseguente all'accertamento circa la percentuale di incisione della capacità di svolgere quel dato lavoro; va infatti rimarcato che la nozione di capacità di lavoro ha valenza medico-legale, mentre quella di capacità di guadagno ha valenza giuridica (Travaglino 2010, 53).

Se invece si ritiene che la menomazione della capacità lavorativa non possa essere racchiusa in un numero percentuale, il C.T.U. si limiterà all'illustrazione degli specifici profili di compromissione e alterazione della capacità; ciò che riflette una scelta più rigorosa sul piano dogmatico e della medicina legale ma impegna assai di più il giudice su quello motivazionale (Munaro 2013, 66 ss.).

Criteri di liquidazione

Una volta accertato che effettivamente l'incisione della capacità di lavoro specifica ha determinato una perdita di guadagno, deve individuarsi, anche ricorrendo alla prova presuntiva, l'entità del reddito, ovvero della quota di reddito, che annualmente la vittima perderà a causa dei postumi permanenti; e ciò determinandone l'ammontare in moneta attuale, giacchè il reddito al momento del sinistro va rivalutato al momento della liquidazione. In breve, dopo la prova dell' an, deve raggiungersi la prova del quantum.

Al riguardo, dovendosi stimare dei danni patrimoniali che si proiettano nel futuro, si opera mediante calcoli probabilistici, con facoltà per il giudice di optare per un criterio equitativo puro (ex artt. 1226 e 2056 c.c.) ovvero per il criterio (pur sempre di natura equitativa) delle tabelle di capitalizzazione, ciò che consente di motivare rinviando semplicemente alla logica interna alla tabella (per tutte, Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004 n. 4186).

Secondo la logica tabellare, la somma individuata quale perdita va moltiplicata per un coefficiente di capitalizzazione, e cioè un numero decimale che permette la trasformazione in capitale di una rendita. L'operazione di capitalizzazione permette di individuare ora una somma capitale corrispondente a quella che sarebbe stata via via percepita nel corso della vita lavorativa. Ai sensi dell'art. 2057 c.c. si potrebbe liquidare il danno patrimoniale futuro, in alternativa, anche “sotto forma di rendita vitalizia”, ma di fatto si procede sempre alla capitalizzazione.

Di regola si perviene in automatico alla determinazione dell'aliquota di reddito da capitalizzare, partendo cioè dall'individuazione, tramite C.T.U., della misura percentuale di riduzione della capacità lavorativa specifica: in pratica, si rimette al consulente la quantificazione dei punti percentuali della riduzione della capacità di lavoro, poi si moltiplica il reddito per detta misura percentuale e infine si capitalizza la somma risultante - cioè la quota di reddito perduta - per il coefficiente di capitalizzazione.

In alternativa a tale tecnica - peraltro autorevolmente contestata (Rossetti 2009, 826 ss.) - si perviene all'individuazione della quota di reddito da capitalizzare prescindendo dall'automatica corrispondenza con la percentuale di riduzione della capacità lavorativa. Detta quota corrisponde alla differenza tra il reddito presumibile se non si fosse verificato il fatto lesivo e quello verosimile in presenza dei postumi accertati e necessariamente descritti con rigore analitico dal C.T.U.

Di regola - ferma comunque la possibilità di ricorrere, in via integrativa o alternativa, ai criteri equitativi ex artt. 1226 e 2056 c.c. (ex multis, Cass. civ., sez. III,2 febbraio 2007 n. 2309) - per l'operazione di capitalizzazione vengono ancora utilizzati i coefficienti contemplati nella tabella allegata al r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403 (Tariffa per la costituzione delle rendite vitalizie immediate – Cassa nazionale per le assicurazioni sociali), che però esigono dei correttivi (v. infra). In pratica bisogna moltiplicare la somma individuata quale verosimile perdita annuale (totale o parziale) di reddito per il numero decimale che in tabella è associato all'età della vittima; età da considerarsi con riferimento al momento della liquidazione del danno e non di verificazione dell'evento dannoso. Poiché ovviamente la vittima avrebbe percepito il reddito non sino all'ultimo giorno di vita ma sino all'età della pensione, deve poi operarsi (per comune interpretazione) una riduzione che tenga conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa; perciò la somma risultante dall'indicata moltiplicazione va poi ridotta in una misura percentuale individuata dal giudice a seconda di età e tipo di lavoro svolto (di regola l'oscillazione varia dal 10 al 35 %). Per tenere conto dello scarto è possibile - in alternativa all'uso dei coefficienti per la costituzione delle rendite vitalizie - avvalersi di un coefficiente per la costituzione delle rendite temporanee considerando una durata pari alla differenza tra l'età pensionabile e l'età del danneggiato al momento della liquidazione, senza ovviamente operare la riduzione da scarto tra vita fisica e vita lavorativa.

E' sbagliato dunque, sia sul piano matematico, sia sul piano giuridico, moltiplicare il reddito mensile perduto per il numero di mesi per i quali la vittima avrebbe presumibilmente lavorato, poiché solo la moltiplicazione per il coefficiente di capitalizzazione permette di tener conto del vantaggio (c.d. montante di anticipazione) conseguito dalla vittima nel percepire oggi una somma che avrebbe concretamente perduto solo in futuro (Cass. civ., sez. III, 16 marzo 2012 n. 4252).

Deve considerarsi che i valori reali dei due fattori posti a fondamento della tabella di regola utilizzata sono radicalmente mutati rispetto agli anni '20, giacchè la durata della vita media (primo fattore) è molto aumentata e il tasso di interesse legale (secondo fattore) è sensibilmente diminuito. E' una tabella anacronistica in quanto redatta nel 1922 e basata sulle tavole di mortalità della popolazione italiana del 1910, sul presupposto di una vita media di durata inferiore all'attuale di circa 25 anni; si basa inoltre su un tasso di interesse del 4,5 %, mentre a partire dal 1999 il tasso è variamente oscillato tra l'1 % e il 3,5 %. Dunque la sua applicazione senza correttivi sarebbe ingiustificatamente svantaggiosa per la vittima; per tale ragione la Cassazione ha avallato esplicitamente l'adozione di correttivi, spiegando che il giudice può alternativamente aggiornare i coefficienti del '22 ovvero evitare l'operazione di conclusiva riduzione del dovuto in ragione dello scarto tra vita fisica e lavorativa (Cass. civ., sez. VI, 2 novembre 2011 n. 22709; Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2010 n. 15738; Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004 n. 4186).

Esemplificando, la quantificazione del danno subito da un soggetto di 30 anni, qualora il reddito annuale (da lavoro manuale) ammonti a € 35.000,00 e si individui una riduzione percentuale del 15 %, va fatta moltiplicando la quota di reddito perduto annualmente (€ 5250,00 - cioè il 15 % di 35.000 -) per il coefficiente corrispondente all'età di 30 anni secondo la tabella del '22 (18,049): il danno da riconoscere ammonta conclusivamente a € 94.757,25 (cioè 5250 x 18,049), non dovendosi tener conto dello scarto tra vita fisica e lavorativa.

Se invece, riprendendo lo stesso esempio, vengono applicati i coefficienti di una rendita unitaria anticipata immediata ed intera redatti in base alle tavole di mortalità della popolazione italiana del 1981 – Istat, il coefficiente corrispondente all'età di 30 anni è 28,671, dunque assai superiore a quello della tabella del '22. Moltiplicandolo per l'aliquota annuale di reddito perduto (€ 5250,00) si perviene alla somma di € 150.522,75, da cui deve poi detrarsi la quota percentuale corrispondente allo scarto tra vita fisica e lavorativa. Essendo plausibile una percentuale del 10 % - in ragione di età della vittima e carattere manuale del lavoro -, il danno da riconoscere conclusivamente sarà di € 135.470,48, dunque significativamente superiore a quello liquidabile alla stregua della tabella del '22.

In sintesi, ribadito che non si tratta di criteri tassativi, per assicurare un risarcimento corretto il giudice può alternativamente: a) utilizzare coefficienti di capitalizzazione più aggiornati rispetto a quelli della tabella del ‘22, operando poi il necessario abbattimento percentuale per tener conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa; b) maggiorare in via equitativa (almeno del 40 % secondo la migliore dottrina in materia) il risultato derivato dall'applicazione dei coefficienti della tabella '22; c) applicare integralmente questi ultimi, omettendo però la riduzione da scarto tra vita fisica e lavorativa.

Quanto all'eventuale scomputo di erogazioni patrimoniali in qualche modo ricollegate all'evento lesivo, non pare che il quadro giurisprudenziale sul punto sia del tutto omogeneo. Da un canto, infatti, in caso di dispensa dal servizio a causa dell'evento dannoso si rimarca la necessità di scomputare la pensione di invalidità dall'importo capitalizzato degli stipendi non percepiti (Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2000 n. 9228); d'altro canto, sottolineandosi che non può parlarsi di compensatio lucri cum damno in senso tecnico, giacchè l'erogazione de quo non si ricollega direttamente al fatto lesivo ma ad un titolo differente - talchè parrebbe, nel ragionamento della S.C., che via sia semplicemente una causalità indiretta di secondo grado -, si nega la detraibilità della pensione di inabilità, ovvero dell'indennità di accompagnamento, e comunque di qualsiasi altra speciale erogazione connessa all'invalidità (Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2005 n. 15822; Cass. civ., sez. III, 27 luglio 2001 n. 10291).

Per l'individuazione del reddito da porre a base del calcolo, devono utilizzarsi i criteri fissati dall'art. 137 Cod. Ass. (nel quale è confluito l'art. 4, d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, convertito nella l. 26 febbraio 1977 n. 39), pur trattandosi di norma propriamente riguardante l'azione diretta del danneggiato contro l'assicuratore (e non contro il responsabile) in tema di sinistri stradali. Per comune interpretazione (per tutti, Rossetti 2009, 861; Scotti 2010, 206) i criteri in parola hanno una generale vocazione applicativa, potendo ben essere applicati in chiave equitativa quando si lamenti il danno contro il soggetto diverso dall'assicuratore e in chiave analogica in ambiti differenti rispetto ai sinistri stradali. Tale generale propensione applicativa ovvia alle evidenti incongruenze che ne deriverebbero ad es. in un giudizio per danni causati da uno stesso sinistro stradale, giacchè i parametri risarcitori dovrebbero mutare in rapporto all'assicuratore da un lato e al proprietario e conducente del veicolo dall'altro.

Per i lavoratori dipendenti, il reddito da lavoro da considerare ai fini del calcolo, secondo l'art. 137 Cod. Ass., è quello più elevato nei tre anni anteriori al sinistro, e va computato come “maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge”. Rileva dunque non già il reddito netto, sibbene il reddito al lordo di imposte e contributi, dovendo computarsi sia le ritenute fiscali operate dal datore di lavoro quale sostituto d'imposta, sia quelle corrispondenti alla quota di contributi previdenziali e assicurativi a carico del lavoratore. Tale disciplina normativa si pone in contrasto con la tradizionale tesi secondo cui per la liquidazione del danno patrimoniale da invalidità permanente deve aversi riguardo al reddito netto, senza cioè il computo delle ritenute in questione (per tutte, Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2000 n. 6321).

Quanto ai lavoratori autonomi - categoria che ai nostri fini include professionisti intellettuali e imprenditori -, ai sensi dell'art. 137 Cod. Ass. la base di calcolo è costituita dal “reddito netto che risulta il più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato” ai fini Irpef nei tre anni prima del sinistro. Diversamente dall'ipotesi dei lavoratori dipendenti, in questo caso per il calcolo devono scomputarsi sia le imposte, sia le spese da affrontare per la produzione del reddito (ad es. il canone locatizio dell'immobile utilizzato dal professionista) avuto riguardo al momento della liquidazione; dunque il dettato normativo riguardante i lavoratori autonomi si pone in linea con la tradizionale posizione assunta dalla giurisprudenza a favore della rilevanza del reddito netto.

Ai sensi dell'art. 137, comma 3, Cod. Ass. - norma in cui è confluito il contenuto dell'art. 4, comma 3, d.l. 857/1976 - vi è una soglia minima di tutela patrimoniale corrispondente a “tre volte l'ammontare annuo della pensione sociale”. Il riferimento al triplo della pensione sociale deve ora intendersi come fatto all'assegno sociale contemplato dall'art. 3, comma 6, l. 8 agosto 1995 n. 335, il quale stabilisce che “con effetto dal 1 gennaio 1996, in luogo della pensione sociale e delle relative maggiorazioni … è corrisposto un assegno … denominato ‘assegno sociale' …". La somma corrispondente al triplo della pensione sociale - rectius assegno sociale - per l'anno 2013 ammonta a € 17.249,70, consistendo in € 442,30 ciascuna delle tredici mensilità da considerare; per l'anno 2012, invece, ammontava a € 16.731,00, con mensilità di € 429,00. Va ricordato che rileva l'entità della pensione/assegno sociale non già con riferimento alla data di liquidazione, ma a quella di verificazione dell'evento dannoso, talchè poi la somma andrà rivalutata sino alla liquidazione (Cass. civ., sez. III, 31 luglio 2002 n. 11376).

Non è pacifica la regola di giudizio da seguire quando - ferma ovviamente la necessaria prova del nesso eziologico tra postumi e incisione della capacità di guadagno - la prova del quantum di reddito perduto non venga raggiunta, magari perché ad es. viene omessa la produzione in giudizio della dichiarazione dei redditi. Le più recenti pronunce del giudice di legittimità sostanzialmente considerano il triplo della pensione sociale come un livello minimo di tutela patrimoniale da assicurare comunque, pur in difetto di prova circa la misura della contrazione reddituale (per tutte, Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2012 n. 7531). Molte altre volte, però, si afferma recisamente che la normativa in parola semplicemente fissa dei criteri di quantificazione del danno, senza però introdurre automatismi che azzerino l'onere della prova sul quantum (per tutte, Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2006 n. 1120). Alla stregua di tale secondo orientamento, dunque, la carenza probatoria in merito al quantum del reddito inciso dovrebbe condurre al rigetto della domanda risarcitoria.

Aspetti processuali

L'onere di allegazione in tema di domande risarcitorie va assolto con particolare attenzione, dovendosi tenere ben distinte le deduzioni in tema di danno non patrimoniale da quelle inerenti al patrimoniale. Ed infatti, è ben possibile domandare in citazione semplicemente il risarcimento di “tutti i danni non patrimoniali”, giacchè la precisazione delle varie voci (non patrimoniali) può intervenire nel corso del giudizio (Cass. civ., sez. III, 30 novembre 2011 n. 25575), in concreto nella prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. (Munaro 2013, 31). Se invece viene richiesto esplicitamente il danno patrimoniale, non basta utilizzare la consueta subordinata “somma maggiore o minore che risulterà accertata in corso di causa” per conseguire anche il danno non patrimoniale; difatti la sentenza che riconoscesse anche il danno non patrimoniale su queste basi sarebbe viziata da extrapetizione (Cass. civ., sez. III, 17 luglio 2012 n. 12218).

Profili penalistici e/o amministrativi e/o tributari

Secondo l'art. 137, comma 2, Cod. Ass., se l'istruzione del giudizio rivela che il reddito effettivo è superiore di “oltre un quinto” rispetto a quello dichiarato, il giudice ha l'obbligo di farne segnalazione all'Agenzia delle entrate. Ora, l'art. 36, d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600 (come successivamente modificato) impone ai magistrati - che ne abbiano conosciuto nell'esercizio delle loro funzioni - l'obbligo di denunciare al comando della Guardia di finanza i fatti che possano integrare violazioni tributarie, col corollario della doverosa trasmissione della documentazione ad essi inerente. Siccome l'ambito applicativo di tale norma non incontra limiti quanto ad entità della possibile violazione tributaria - la norma si riferisce semplicemente a “fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie” senza ulteriori specificazioni -, deve convenirsi (Rossetti 2010, 453) che l'art. 137, comma 2 cit. è sostanzialmente inutile, a meno di voler immaginare l'insussistenza dell'obbligo di denuncia per le violazioni di misura inferiore alla percentuale ivi indicata; una soluzione davvero implausibile perché apertamente stridente con la logica e l'etica pubblica.

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