Le sanzioni e le misure cautelari previste dal d.lgs. 231/2001

21 Luglio 2015

La Sezione II del d.lgs. 231/01 delinea una variegato sistema sanzionatorio, in cui le sanzioni finanziarie (sanzioni pecuniarie e la confisca) coesistono con le sanzioni interdittive (che incidono sull'attività dell'ente) e la pubblicazione della sentenza, che ha invece funzione stigmatizzante.
Abstract

La Sezione II del d.lgs. 231/01 delinea una variegato sistema sanzionatorio, in cui le sanzioni finanziarie (sanzioni pecuniarie e la confisca) coesistono con le sanzioni interdittive (che incidono sull'attività dell'ente) e la pubblicazione della sentenza, che ha invece funzione stigmatizzante.

Inoltre, il d.lgs. 231/2001 ha introdotto, agli artt. 45 e ss., una disciplina del sistema cautelare.

Le sanzioni

La sanzione pecuniaria viene applicata secondo un sistema di quote, basato su due variabili:

  • il numero delle quote, che viene determinato dal giudice tenendo conto della gravità del reato presupposto, del grado di responsabilità dell'ente, nonché dell'attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze dell'illecito e per prevenirne la reiterazione;
  • l'importo di ogni singola quota, determinato sulla base delle condizioni economiche dell'ente.

L'art. 19, d.lgs. 231/2001 prevede che, con la sentenza di condanna, sia sempre disposta la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvi i diritti dei terzi in buona fede. Quando non sia possibile aggredire direttamente il profitto o il prezzo del reato, si avrà la confisca – per equivalente – di denaro, beni o altra utilità in misura pari al loro valore.

Giova ricordare che “la confisca per equivalente trova il suo fondamento e limite nel vantaggio tratto dal reato e prescinde dalla pericolosità derivante dalla res, in quanto non è commisurata né alla colpevolezza dell'autore del reato, né alla gravità della condotta, avendo come obiettivo quello di impedire al colpevole di garantirsi le utilità ottenute attraverso la sua condotta criminosa” (Cass. pen., Sez. VI, 29 aprile 2013, n. 18799).

Tuttavia, non è consentita la confisca per equivalente di somme che siano state percepite dall'ente prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 231/2001 (Cass. pen., sez. II, 10 gennaio 2007, n. 316).

L'impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato.

Le sanzioni interdittive possono essere temporanee e definitive.

Quelle temporanee (con durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni) si applicano a condizione che ricorra almeno uno dei seguenti presupposti (art. 13, d.lgs.231/2001):

  • profitto di rilevante entità tratto dall'ente e reato commesso da soggetti apicali o, se commesso da soggetti sottoposti alla altrui direzione, se la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative
  • reiterazione degli illeciti.

Le stesse sono di vario tipo (interdizione dall'esercizio della attività, sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni, divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o revoca di quelli concessi, divieto di pubblicizzare beni o servizi).

La scelta del tipo di sanzione è rimessa al giudice sulla base degli stessi criteri necessari per la determinazione del numero di quote da applicare nell'ambito della pena pecuniaria

Le sanzioni interdittive definitive consistono invece:

  • nella interdizione definitiva dall'esercizio della attività, da applicare quando l'ente che ha tratto un profitto di rilevante entità sia stato già condannato almeno tre volte, negli ultimi sette anni, alla interdizione temporanea. O, ancora, quando l'ente o la sua unità organizzativa sia stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati allo stesso riconducibili.
  • nel divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione o nel divieto di pubblicizzare beni o servizi, da applicare quando l'ente sia già stato condannato alla stessa sanzione almeno tre volte negli ultimi sette anni.

Quanto alla pubblicazione della sentenza di condanna, la stessa può essere disposta dal giudice quando sia applicata una sanzione interdittiva.

Il procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni

Il procedimento di accertamento della responsabilità dell'ente e quello del fatto reato presentano forti elementi di similitudine: sono assegnati alla cognizione del medesimo giudice (quello penale) e vengono trattati unitariamente (principio del simultaneus processus).

Gli artt. 34 e 35 d.lgs. 231/2001 prevedono che, per l'accertamento della responsabilità da reato, si osservino le nome del codice di rito in quanto compatibili e che all'ente si applichino, sempre se compatibili, le disposizioni processuali relative all'imputato.

La parificazione tra ente e imputato, “lungi dall'essere soltanto una norma di chiusura del sottosistema dettata dalla preoccupazione del legislatore di colmare possibili lacune in grado di pregiudicare l'operato della disciplina, esprime la volontà legislativa di apprestare anche in questa materia un sistema di garanzie analogo a quello delineato dal codice di rito per l'accertamento del reato” (G.I.P. trib. Torino, ord. 11 giugno 2004).

La partecipazione dell'ente al procedimento

L'ente partecipa al procedimento con il proprio rappresentante legale, a meno che questi non sia imputato del reato presupposto e si trovi, quindi, in conflitto di interessi con la società. Al fine di escludere la propria responsabilità, infatti, l'ente cercherà dimostrare che il rappresentante ha agito nel proprio esclusivo interesse o, comunque, eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e gestione. In questo caso, l'ente che voglia comunque partecipare al processo, dovrà nominare un nuovo rappresentante legale oppure sceglierne uno per il processo, conferendogli una procura speciale nel rispetto della disciplina civilistica, a seconda che si tratti di società di persone o di capitali, di enti con o senza personalità giuridica.

La persona giuridica che intenda costituirsi in giudizio deve presentare una dichiarazione (art. 39, comma 2, d.lgs. 231/2001) contenente, a pena di inammissibilità, la denominazione dell'ente, le generalità del legale rappresentante o del rappresentante ad processum, nome e cognome del difensore e l'indicazione della procura, la sottoscrizione del difensore, la dichiarazione o l'elezione di domicilio.

La dichiarazione va presentata, unitamente alla procura ad litem conferita al difensore (nelle forme previste dall'art. 100 c.p.p.) presso l'autorità giudiziaria competente per fase: quindi, presso la segretaria del P.M., presso la cancelleria del giudice oppure direttamente in udienza.

Quando il legale rappresentante non compaia, l'ente è rappresentato dal difensore. Non si ha, pertanto, una situazione di assenza.

A prescindere dalla costituzione in giudizio, l'ente che sia venuto a conoscenza del procedimento a suo carico (ex artt. 335 o 369 c.p.p.) ha diritto a nominare due difensori di fiducia nelle forme previste dall'art. 96 c.p.p. e può dare incarico al difensore di svolgere investigazioni difensive.

Qualora non provveda a nominare un suo difensore o ne rimanga privo, l'ente è assistito da un difensore d'ufficio.

In evidenza

Per le notificazioni all'ente, come prevede l'art. 43, d.lgs. 231/2001, si osservano le disposizioni dell'art. 154, comma 3, del codice di rito, sicché le forme da seguire sono quelle stabilite per il processo civile dall'art. 145 c.p.c.

L'atto va notificato nella sede della persona giuridica ovvero nella sede dove l'ente privo di personalità svolga in modo continuativo la propria attività, mediante consegna al suo rappresentante, alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in via sussidiaria, ad altra persona addetta alla sede dell'ente. Sono comunque valide le notificazioni che siano eseguite mediante consegna dell'atto al legale rappresentante, anche nel caso in cui questi sia imputato del reato presupposto. Ovviamente, nel caso in cui l'ente abbia provveduto ad eleggere domicilio (ad esempio, presso il proprio difensore) le notificazioni andranno effettuate ai sensi dell'art. 161 c.p.p.

Le misure cautelari: le misure interdittive

Il d.lgs. 231/2001 ha introdotto, agli artt. 45 e ss., una disciplina del sistema cautelare che in parte si discosta dal modello previsto nel codice per le persone fisiche.

Quando sussistano gravi indizi per fondare un giudizio di sussistenza della responsabilità “da reato” dell'ente (valutazione prognostica che deve investire sia gli elementi costitutivi del reato presupposto, sia quelli dell'illecito amministrativo ex art. 5 d.lgs. 231/2001) o elementi che facciano ritenere concreto il pericolo di reiterazione di illeciti della stessa indole di quello per cui si procede, il pubblico ministero può chiedere l'applicazione di una delle sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2, d.lgs. 231/2001.

Dallo stretto collegamento tra le misure cautelari e talune pene conclusive del giudizio derivano, però, alcune significative ricadute sistematiche.

Tenuto conto che non per tutti i reati sono previste sanzioni interdittive, se ne ricava intanto che la misura cautelare dell'interdizione potrà essere applicata all'ente soltanto quando l'interdizione sia anche pena erogabile all'esito del giudizio di merito (Cass pen., sez. II, 12 marzo 2007, n. 10500).

D'altra parte, il ricorso alla misura cautelare trova la sua legittimazione in una prognosi positiva sulla futura applicazione della sanzione interdittiva. Pur avendo contenuto identico alle sanzioni interdittive, infatti, le misure cautelari “conservano ben chiaro il carattere di strumentalità e provvisorietà connaturato alla loro essenza e svolgono una positiva funzione servente rispetto alla decisione definitiva, della quale anticipano alcuni effetti propri” (G.I.P. trib. Salerno, ord. 28 marzo 2003).

In luogo della misura cautelare interdittiva, il giudice può nominare – ove lo ritenga – un commissario giudiziale per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata. Il giudice è tenuto a motivare le ragioni della sua scelta, specificando i compiti e i poteri del commissario alla luce del contesto di attività in cui sarebbe stato commesso l'illecito.

Per espresso divieto posto dall'art. 46 d.lgs. 231/2001, comunque, le misure non possono essere applicate congiuntamente.

Il giudice legittimato ad applicare e revocare le misure cautelari è il giudice che procede (pertanto, nella fase preliminare sarà il giudice per le indagini, negli atti predibattimentali sarà, a seconda dei casi, il tribunale in composizione monocratica o collegiale, dopo la sentenza di primo grado il giudice che l'ha emessa ecc.).

La novità più rilevante introdotta dal d.lgs. 231/2001 è che l'adozione della misura avviene a seguito di contraddittorio anticipato tra le parti. La misura, infatti, viene applicata in occasione dell'udienza preliminare o del giudizio, ovvero, qualora il P.M. ne richieda l'applicazione durante le indagini, in un'apposita udienza camerale fissata dal G.I.P.

In questo caso, l'organo giurisdizionale provvederà ad avvisare le parti almeno 5 giorni prima dell'udienza, che dovrà tenersi entro 15 giorni dalla richiesta del P.M. (i termini, tuttavia, sono ordinatori). Nelle more, l'ente e il suo difensore potranno prendere visione ed estrarre copia della domanda cautelare e degli atti su cui si fonda, nonché depositare memorie difensive (ciò fino a 3 giorni prima dell'udienza).

Le misure cautelari reali

Alle misure interdittive, il d.lgs. 231/2001 affianca anche le misure reali del sequestro conservativo e del sequestro preventivo.

La legittimità costituzionale delle misure reali è stata fortemente discussa, atteso il superamento dei limiti fissati dalla legge delega che non faceva alcun riferimento alle misure reali. La questione è stata affrontata, da ultimo, dalla Suprema Corte, che ha osservato come il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto o del prezzo del reato, anche nella forma per equivalente, sia istituto già regolamentato nell'ambito dell'ordinamento processuale (art. 321 e ss. c.p.p.), cosicché non servirebbe alcuna delega per renderlo applicabile nel procedimento a carico dell'ente (Cass. pen., sez. II, 6 ottobre 2014, n. 41435).

Per l'adozione del sequestro preventivo occorrono, ovviamente, i requisiti del fumus delicti e del periculum in mora.

Contrasto giurisprudenziale

In un primo momento, la giurisprudenza aveva ritenuto che per integrare il fumus fosse sufficiente verificare l'astratta configurabilità dell'illecito, senza che rilevassero la sussistenza degli indizi di colpevolezza o la loro gravità (Cass. pen., Sez. II, 22 marzo 2006, n. 9829). Quest'opzione ricostruttiva mostrava, però, di non considerare che il sequestro ex art. 53, d.lgs. 231/2001 è direttamente funzionale ad anticipare, in via cautelare, la confisca ex art. 19, d.lgs. 231/2001, la quale, a differenza delle altre ipotesi di confisca disciplinate dal codice penale e dalle leggi speciali, è sanzione principale, obbligatoria ed autonoma. Viceversa, è proprio la natura di sanzione principale delle confisca a imporre una più approfondita valutazione del fumus delicti, che non si limiti alla sola verifica della sussumibilità del fatto attribuito in una determinata ipotesi di reato, così impedendo al giudice il controllo sulla concreta fondatezza dell'accusa (Cass. pen., Sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34505).

È in ogni caso necessaria la quantificazione del profitto da sottoporre a sequestro.

L'ordinanza che non provveda in tal senso, infatti, dovrà essere annullata (Cass. pen., Sez. VI, 3 maggio 2011, n. 17604). Peraltro, qualora la questione formi oggetto specifico dell'istanza di riesame, il tribunale del riesame non potrà riservare ad un eventuale successivo accertamento di merito la determinazione dell'esatto ammontare del sequestro ma dovrà fornire, già in quella sede una risposta adeguata (Cass. pen., Sez. VI, 3 maggio 2011, n. 176604).

Il sequestro preventivo funzionale alla confisca può incidere:

  • contemporaneamente o indifferentemente sui beni del ente che dal medesimo reato ha tratto un vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso, con l'unico limite per cui il vincolo cautelare non potrà eccedere il valore complessivo del suddetto profitto (Cass. pen., sez. VI, 8 maggio 2009, n. 19764);
  • sull'intera azienda, allorché vi siano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali sia stato in qualche modo utilizzato per la commissione del reato (Cass. pen., sez. III, 11 febbraio 2008, n. 6444);
  • sui crediti, a condizione che gli stessi siano liquidi ed esigibili, cioè non contestati e determinati con precisione nel loro ammontare (Cass. pen., Sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 35748. In senso contrario, però, Cass. pen., sez. V, 20 febbraio 2009, n. 7718, secondo cui i crediti non possono costituire oggetto di sequestro preventivo, trattandosi di utilità non ancora percepite dall'ente e, quindi, non ancora sottratte al soggetto danneggiato).

Le Sezioni unite (Cass. pen., Sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561) hanno, altresì, precisato che è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica, quando il profitto (o i beni ad esso direttamente riconducibili) sia nella disponibilità della stessa persona giuridica.

Non è, invece, consentito quando:

  1. non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio;
  2. sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato.

Quanto al periculum in mora, il giudice deve limitarsi a verificare che il bene costituisca prezzo o profitto del reato e appaia probabile che si giunga ad una sentenza di condanna.

A differenza della misura dell'interdizione, il procedimento applicativo della cautela reale non prevede il contraddittorio anticipato tra le parti. Il decreto di sequestro ha, infatti, natura di atto a sorpresa e va emesso inaudita altera parte. Per le stesse ragioni, valgono le norme generali in materia di applicabilità in via d'urgenza da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria e del pubblico ministero, con un provvedimento che dovrà essere convalidato dal giudice procedente entro le successive 48 ore. Contro il provvedimento, beninteso, sarà possibile proporre riesame e appello nei termini e con le modalità stabilite dal codice di rito.

Il sequestro conservativo – previsto dall'art. 54, d.lgs. 231/2001 – è, invece, disciplinato in modo speculare al modello fissato dall'art. 316 c.p.p. La cautela in questione può essere applicata ogni qual volta vi sia fondato motivo di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento o di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato.

Tuttavia, la Cassazione ha recentemente rilevato che per l'adozione del sequestro conservativo non si richiede la configurabilità di una situazione che faccia apparire fondato un futuro depauperamento del debitore ma è sufficiente l'esistenza di un'oggettiva inadeguatezza della garanzia patrimoniale in rapporto all'entità del credito (Cass. pen., Sez. un., 25 settembre 2014, n. 51660).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.