L'O.d.V. monocratico e il sequestro preventivo della quota di partecipazione dell'amministratore unico dimessosi

Alessio Cantone
23 Maggio 2016

Il tribunale del riesame di Parma sembrerebbe aderire a quella tendenza giurisprudenziale ad essere prevenuta nella valutazione dell'efficacia esimente dei modelli organizzativi di gestione e controllo e poco sensibile nelle decisioni assunte in sede cautelare, terreno dove emergono evidenti le aporie della responsabilità amministrativa delle società e degli enti.
Abstract

L'ordinanza del tribunale del riesame di Parma, in commento, sembra confermare la tendenza della giurisprudenza ‒ soprattutto di merito ‒ di essere non solo prevenuta nella valutazione dell'efficacia esimente dei modelli organizzativi di gestione e controllo (adottati sia ex ante che post delicutm) ma anche poco sensibile nelle decisioni assunte in sede cautelare, terreno dove emergono evidenti le aporie della responsabilità amministrativa delle società e degli enti.

Il caso

A seguito delle indagini espletate dalla guardia di finanza e della collaborazione del consulente della pubblica accusa, si è evinto che il legale rappresentante di un'emittente televisiva privata, negli anni che vanno dal 2008 al 2014, ha presentato diverse domande di sovvenzione al Ministero per lo Sviluppo Economico (nell'ambito della legge 23 dicembre 1998 n. 448, art. 45, comma 3, che prevede forme di sostegno economico in favore dell'emittenza televisiva privata) fornendo false informazioni circa l'ammontare del fatturato ed il numero di dipendenti impiegati, sì da ottenere un'elargizione di denaro significativamente maggiore rispetto a quella cui avrebbe avuto diritto.

Di qui la sua iscrizione nel registro degli indagati per i delitti di cui agli artt. 483 e 640-bis c.p. e la contestazione, nei confronti della società dal medesimo rappresentata, dell'illecito di cui all'art. 24, commi 1 e 2, d.lgs. 231/2001. Sulla base di questa imputazione, è stato disposto il sequestro preventivo dei beni dell'autore del reato e della società ed a quest'ultima, all'esito dell'udienza ex art. 47 d.lgs. 231/2001, è stata applicata la misura cautelare interdittiva dell'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi per la durata di un anno e della revoca di quelli già concessi. Ordinanza che è impugnata con l'appello proposto ex art. 52d.lgs. 231/2001, su cui ha deciso il tribunale del riesame delle misure cautelari reali di Parma con l'ordinanza del 22 giugno 2015. (RIVERDITI).

In virtù della precisa strategia difensiva, che non intendeva affrontare la sussistenza dei gravi indizi di responsabilità richiesti dall'art. 45 d.lgs.231/2001, la nostra attenzione verrà dirottata soprattutto al principale motivo d'appello che contesta al Gip di aver facilmente glissato sugli importanti cambiamenti apportati all'impianto organizzativo e alla struttura di vertice della società che ‒ a giudizio dell'appellante ‒ avrebbero dovuto condurre all'esclusione dei fondati e specifici elementi idonei a far ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede (art. 45 d.lgs. 231/2001).

Nello specifico, si sono attuati i seguenti rimedi: a) le dimissioni dell'autore dei reati presupposto dell'illecito dell'ente dalla carica di amministratore unico e legale rappresentante della società, con sottoposizione a sequestro preventivo della sua quota di partecipazione e contestuale nomina a custode del conservatore del registro delle imprese di Parma; b) l'adozione di un articolato modello di organizzazione e di gestione ed un codice etico, elaborati da una società specializzata, funzionali ad impedire, nell'ambito della gestione [della società], la commissione di reati di qualsiasi genere e, in particolare, attenti alla prevenzione delle frodi finalizzate al conseguimento di sovvenzioni pubbliche; c) la nomina di un organo di vigilanza monocratico; d) nella diramazione di un ordine di servizio, a firma del nuovo amministratore unico, con cui si è disposto che, all'interno della società, fosse data la massima diffusione alle previsioni dei nuovi documenti organizzativi, invitando tutti i dipendenti a dare puntuale applicazione alle misure volte a prevenire la commissione di reati.

Una volta affermata l'astratta idoneità impeditiva degli accorgimenti organizzativi di cui si è detto, si procede a valutare ‒ non più sul piano giuridico-formale ‒ ma, soprattutto, su quello realistico-concreto, se gli interventi “riparatori” si adattano perfettamente alla società cui viene contestato l'illecito.

Ebbene, nonostante gli sforzi profusi, il rischio di reiterare illeciti della stessa indole è molto elevato. Questo perché, come affermato dalla Cassazione nella sentenza n.32626 del 23 giugno 2006 (richiamata a pag. 18 dall'ordinanza del tribunale), è necessario che l'esigenza cautelare emerga dalla valutazione di due tipologie di elementi, il primo di carattere obiettivo, relativo alle specifiche modalità e circostanze del fatto, l'altro di natura soggettiva, attinente alla “personalità” dell'ente. Così, per quanto riguarda il primo aspetto si tratterà di valutare la gravita dell'illecito, ad esempio considerando il numero di illeciti commessi, nonché gli stessi elementi che l'art. 13 d.lgs. 231/2001 indica come condizioni per l'applicabilità delle sanzioni, come l'entità del profitto, ovvero lo stato dell'organizzazione dell'ente; d'altra parte, il fatto che si tratti di una persona giuridica non impedisce di considerarne la “personalità”, attraverso una valutazione che abbia come oggetto l'ente collettivo stesso, esaminandone, ad esempio, la politica d'impresa attuata negli anni e gli eventuali illeciti commessi in precedenza. Fin qui nulla da obiettare, se non si proseguisse nella lettura della sentenza dalla quale si evince che la sostituzione o l'estromissione degli amministratori coinvolti possa portare ad escludere la sussistenza del periculum richiesto dall'art. 45 d.lgs. 231/2001, ma a condizione che ciò rappresenti il sintomo che l'ente inizi a muoversi verso un diverso tipo di organizzazione, in cui sia presente l'obiettivo di evitare il rischio reato”, finalità che non può essere realmente perseguita se c'è un cambio degli apicali solo apparente come, nel caso di specie, avvenuto attraverso prestanomi.

Nel caso de quo, invece, la sostituzione del vertice societario non è affatto fittizia. Infatti, come accertato dagli inquirenti, è assodato che il nuovo amministratore della società imputata si trovava in una posizione di assoluta terzietà ed indipendenza non soltanto nei confronti del precedente amministratore, ma anche rispetto alla proprietà della società. Dunque, se queste sono le premesse distorte da cui parte il tribunale, non ci si deve meravigliare se altri punti dell'ordinanza lasciano alquanto perplessi, soprattutto, per una preoccupante carenza motivazionale, considerato il peso non marginale che essi hanno avuto nell'accoglimento solo parziale del ricorso. Analizziamone il primo.

La natura monocratica dell'organismo di vigilanza: un possibile pregiudizio

Un punto dell'ordinanza che immediatamente ha attirato la nostra attenzione si ravvisa in questo passaggio argomentativo:

Ad avviso del tribunale, alla luce di questo contesto, il modello organizzativo adottato da T presenta una non trascurabile criticità laddove prevede che l'organismo di vigilanza abbia una composizione monocratica. Ed invero, a prescindere da qualsiasi genere di apprezzamento sulle doti professionali e sulle qualità di indipendenza e di terzietà delle due persone chiamate ad esercitare le funzioni di amministrazione e di controllo all'interno, è opinione [il grassetto è nostro] di questo Collegio che il fatto stesso che l'organismo di vigilanza sia di natura monocratica è idoneo a pregiudicare l'efficacia concreta della sua azione di monitoraggio, che, considerati i trascorsi molto negativi della società, dovrà necessariamente essere assidua ed assai penetrante.

A questo punto, sorge istintivamente un interrogativo ossia: questa opinione per cui una società con trascorsi molto negativi, rende incapace l'organismo di vigilanza di svolgere i suoi compiti perché monocratico, da cosa è suffragata? Dal dato legislativo? Non sembra. Perché l'articolo 6 d.lgs. 231/2001 si limita ad affermare che l'ente possa essere esonerato dalla responsabilità conseguente alla commissione di reati-presupposto se l'organo dirigente ha, fra l'altro:

a) adottato modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire i reati considerati;

b) affidato il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza del modello e di curarne l'aggiornamento a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo (di seguito “l'O.d.V.”).

Dunque, scartato il dato legislativo, possiamo verificare se l'opinione del tribunale sia rinvenibile quantomeno nelle linee guida delle maggiori associazioni di categoria (in particolare, nel caso di specie, prendiamo in considerazione quelle aggiornate di Confindustria). Ebbene, a conferma di quanto detto precedentemente, si noti l'inciso tanto semplice quanto imperativo La legge non fornisce indicazioni puntuali circa la composizione dell'Organismo di vigilanza. Ed è proprio per questa lacunosità, che è consentito optare per una composizione sia monosoggettiva che plurisoggettiva. Ad esempio, l'articolo 6, comma 4, d.lgs. 231/2001 consente alle imprese di piccole dimensioni di affidare i compiti di Organismo di vigilanza all'organo dirigente. Se l'ente non intende avvalersi di questa facoltà, la composizione monocratica ben potrebbe garantire le funzioni demandate all'OdV. Invece, nelle imprese di dimensioni medio-grandi sembra preferibile una composizione di tipo collegiale. Peraltro, qualora l'ente risulti dotato di un Collegio Sindacale (o organo equivalente nel caso di adozione di forme di governo societario differenti da quella tradizionale), potrebbe avvalersi di un'altra opportunità offerta dal d.lgs. 231/2001 (in seguito alle modifiche introdotte dalla legge 183 del 2011): l'attribuzione delle funzioni di Organismo di vigilanza al Collegio Sindacale”.

Quindi, in mancanza di indicazioni legislative vincolanti sul numero dei componenti dell'O.d.V., qualunque scelta appare legittima. Almeno sul piano formale. Su quello sostanziale, invece, l'adozione di un organismo collegiale dipende da una serie di considerazioni riferite alla specifica realtà dell'ente, alla sua complessità organizzativa, tipicità operative, numero e caratteristiche delle aree a rischio (ASSUMMA – LEI; BARTOLOMUCCI); elementi che non sono stati presi minimamente in considerazione dal tribunale, facendosi trasportare da un immotivato pregiudizio verso la natura monocratica dell'O.d.V. Infatti, si è apoditticamente affermato che, visto i trascorsi negativi della società, un solo soggetto controllore della legalità delle scelte societarie non basta. Meglio la quantità che la qualità verrebbe da dire, errando. Infatti, già nell'ordinanza del Gip del 28 aprile 2015 si afferma che il socio, nonché amministratore, aveva commesso i delitti presupposti dell'illecito senza mai incontrare alcuna opposizione da parte degli organi sociali.

Assodato che, né dal dato legislativo né dalle linee guida, è possibile rinvenire il fondamento dell'opinione di cui sopra, verifichiamo se questa possa trovare un riscontro in una pronuncia giurisprudenziale. Anche in questo contesto, i risultati sono a dir poco scoraggianti. Le rarissime pronunce che timidamente affrontano la questione della composizione numerica dell'O.d.V., non fanno altro che ripetere quanto stabilito nelle linee guida delle associazioni di categoria. Un esempio su tutte, la tanto sbandierata e onnipresente ordinanza del Gip di Roma, in cui si legge ‒ tra l'altro ‒ che per enti dimensioni medio grandi, la forma collegiale si impone così come si impone una continuità di azione, ovverosia un impegno esclusivo sull'attività di vigilanza relativa alla concreta attuazione del modello (Trib. Roma - Gip, 4 aprile 2003, ord.). A questo punto, si evince che l'affermazione del tribunale non trova riscontro nemmeno in pronunce giurisprudenziali.

A seguito di quanto fin qui detto, è emerso che il vero punctum pruriens circa il numero dei componenti dell'O.d.V. potrebbe essere fortemente ridimensionato, se chiarissimo cosa si intende per ente di dimensione piccola o grande. Lungi dal trovare una soluzione condivisa da tutti, che richiederebbe non solo uno spazio ad hoc ma, anche, pluralità di competenze (giuristi di impresa, manager, economisti..), possiamo partire da alcuni punti fermi.

Se, da tempo, è opinione ampiamente diffusa ritenere errato il vecchio caposaldo per cui, la società per azione rappresenterebbe il modello societario di grande impresa mentre, la società a responsabilità limitata sarebbe la forma societaria propria dell'impresa medio piccola (GIORDANO; RIVOLTA; FERRARA jr- CORSI), ciò nonostante, la realtà delle società in Italia non è poi così distante da questa semplice asserzione. Dal censimento dell'Industria e dei Servizi realizzato a fine 2012, emerge un'immagine del sistema produttivo italiano in cui prevalgono modelli di governance relativamente semplificata, caratterizzati da un'elevata concentrazione delle quote di proprietà, un controllo a prevalente carattere familiare (sette imprese su dieci sono a condizione familiare), una gestione aziendale accentrata e una stragrande prevalenza nel settore della micro e piccola impresa delle società a responsabilità limitata. Un risultato, quest'ultimo, tutt'altro che inaspettato perché il legislatore italiano, esattamente come quello europeo, si occupa assiduamente delle P.M.I. al fine di eliminarne i fattori di squilibrio rispetto alle grandi rappresentati, fondamentalmente, dalle maggiori difficoltà di accesso ai finanziamenti e dal maggior gravame sopportato per i costi fissi derivanti dai vari adempimenti burocratici. Quindi, quale migliore soluzione se non quella di ricorrere ad una S.R.L. che garantisce limitazione di responsabilità dei soci ma, soprattutto, facilità tanto nella costituzione quanto nel suo funzionamento a livello di governante (emblematico è il decreto competitività, d.l. 91/2014 conv. in l. 116/2014 che ha cancellato la nomina obbligatoria del revisore unico e, laddove previsto dallo statuto, del collegio sindacale nelle S.R.L., anche in presenza di un capitale sociale superiore a quello minimo stabilito per le S.P.A.) .

Sulla scia delle brevi considerazioni svolte e, anche tenendo in considerazione i criteri utilizzati nella Raccomandazione 2003/361/Ce della Commissione del 6 maggio 2003 ‒ relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese ‒ la nostra S.R.L., gravata dalla sanzione interdittiva dell'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi per la durata di un anno e della revoca di quelli già concessi, potrebbe facilmente essere inquadrata come di piccola dimensione (stiamo parlando di una emittente televisiva che trasmette in due province dell'Emilia Romagna). Quindi, un organismo di vigilanza monocratico individuato, per giunta, in uno stimato professionista, ben avrebbe potuto svolgere le proprie funzioni; riteniamo, altresì, che nessun addetto ai lavori avrebbe da obiettare sulla eventuale richiesta del singolo professionista di integrare ex post l'organismo di vigilanza, nel momento in cui si rendesse conto che è indispensabile l'ausilio di altri componenti con il loro know how.

La fattibilità di seguire questa strada ovvero, quella di optare per il monocratico con possibilità di integrazione, sembrerebbe essere avvallata dalle prassi societarie e, soprattutto, dai recenti aggiornamenti che hanno ricevuto le linee guida di Confindustria, dalle quali si evince che Vista la complessità e l'onerosità del Modello indicato dal d.lgs. 231/2001, il legislatore ha voluto tenere in debito conto le problematiche che si pongono in quella categoria di enti che, per la dimensione e la semplicità della struttura organizzativa, non dispongono di una funzione (o persona) con compiti di monitoraggio del sistema di controllo interno. Per tali enti, l'onere derivante dall'istituzione di un organismo ad hoc potrebbe non essere economicamente sostenibile. A questo proposito, il d.lgs. 231/2001 ha previsto all'articolo 6, comma 4, la facoltà dell'organo dirigente di svolgere direttamente i compiti indicati. Tuttavia, tenuto conto delle molteplici responsabilità e attività su cui quotidianamente l'organo dirigente deve applicarsi, si raccomanda che, nell'assolvimento di questo ulteriore compito, esso si avvalga di professionisti esterni, ai quali affidare l'incarico di effettuare verifiche periodiche sul rispetto e l'efficacia del Modello.

In realtà, l'aggiornamento non ha fatto altro che tenere conto di ciò che già le prime indagini mostravano ossia la tendenza a privilegiare, nelle società di dimensioni medio – grandi, l'adozione di un O.d.V. di tipo collegiale mentre, nelle società più piccole ‒ in particolare nelle società non quotate ‒ l'adozione di un organismo monocratico pare invece più diffuso, a maggior ragione in questo lungo periodo di crisi economica.

Sugli effetti del sequestro della quota di partecipazione con contestuale nomina del custode, il tribunale preferisce sorvolare

Altro punto dell'ordinanza che ha catturato la nostra attenzione, si rinviene quando si afferma che:

P. G. ha si dismesso le sue funzioni gestorie e, almeno per il momento, non può liberamente esercitare i diritti connessi alle quote di partecipazione a lui intestate, ma continua comunque a far parte, in qualità di socio sostanzialmente di riferimento, della compagine di T.
Questa affermazione del tribunale sembrerebbe non tener conto delle forti restrizioni che subisce il socio, seppur di riferimento, a seguito della sottoposizione a vincolo dell'intera quota di partecipazione al capitale sociale di T (tramite la società G), con contestuale nomina a custode del conservatore del registro delle imprese di Parma (in esecuzione del provvedimento di sequestro preventivo emesso dal Gip, come si evince dalla pag. 17 dell'ordinanza in commento ).

L'analisi critica non può non partire dalla disposizione dell'art. 2352 c.c. (cui rinvia l'art. 2471-bis c.c.), così come novellato dal d.lgs. 6 del 17/01/2003, che recita Nel caso di pegno o usufrutto sulle azioni il diritto di voto spetta, salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio o all'usufruttuario. Nel caso di sequestro delle azioni il diritto di voto è esercitato dal custode. Questa norma evidenzia, inequivocabilmente, la volontà del legislatore volta ad evitare che il bene sequestrato possa essere utilizzato dal proprietario per godere delle utilità in esso insite.

In particolar modo per il sequestro penale preventivo, esso è concepito dal legislatore per fronteggiare il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato medesimo oppure, possa agevolare la commissione di altri reati. Diversi possono essere i beni oggetto di sequestro penale, che può riguardare anche le quote o azioni di una società di capitali; la ratio è rinvenuta nel fatto che, essendo le quote o azioni anzitutto rappresentative della misura della partecipazione di ciascun socio alle assemblee e, quindi, alla formazione della volontà della compagine, risulta chiara la idoneità del vincolo costituito dal sequestro a impedire, sia pure in modo mediato e indiretto, la consumazione di altri reati attraverso la utilizzazione delle strutture societarie (BRUNO; CERQUA; GUATIERI; SANTORIELLO).

Dunque, ciò che è oggetto di sequestro preventivo sono le azioni o le quote di società, giammai le società. Le società di capitali, infatti, sono state concepite dal legislatore come centri autonomi di imputazione di rapporti giuridici, attivi e passivi, dotate di personalità giuridica e di una autonomia patrimoniale perfetta. Pertanto, il provvedimento penale che vada a colpire il socio, non può ricadere sulla società ma solo sul socio, in virtù del fatto che la responsabilità penale è personale e, quindi, ciò che può costituire oggetto di sequestro è solo la partecipazione del socio alla società e, come sopra detto, i diritti ad essa inerenti e ad essa incorporati. Va dunque assolutamente escluso che sia pur lontanamente possibile o concepibile un sequestro, civile o penale, giudiziario o conservativo o preventivo, di una società di capitali in quanto tali (COGLIANDRO).

In definitiva, se il sequestro ha ad oggetto partecipazioni sociali, il vincolo determina un'indisponibilità giuridica ed, essendo le partecipazioni sociali beni immateriali, la rimozione del legame tra socio e res si persegue, non con l'apprensione fisica del bene ma, con la sottrazionedell'esercizio dei diritti sociali incorporati nella partecipazione sociale sequestrata demandati al custode (RANUCCI pag. 87; BISOGNI) .

Il riferimento è da farsi, in maniera precipua, ai diritti corporativi, in particolare a quelli che possono agevolare la continuazione del reato o la commissione di ulteriori reati: il diritto di intervento in assemblea, il diritto di voto e il diritto ad impugnare le delibere o le decisioni dei soci. Eppure, soprattutto nell'ambito di un sequestro penale preventivo, raramente il giudice che lo dispone indica quali siano i diritti che il custode penale potrà in concreto esercitare posto che, come stabilito in giurisprudenza, il riferimento va inteso a tutti i diritti già posseduti dal socio titolare delle azioni o quota sequestrata. Insomma, la legittimazione all'esercizio dei diritti corporativi, spetta al custode nominato in sede penale, e rappresenta un “effetto naturale” del sequestro penale (Cfr. Cass. civ., 13169/2005; RENNA).

Il custode-amministratore nell'esercizio dei diritti amministrativi

L'art. 259, comma 1, c.p.p. disciplina la nomina del custode giudiziario delle cose sequestrate. La possibilità di affidare al custode l'amministrazione dei beni sequestrati si desume inequivocabilmente dall'art. 259, comma 1, c.p.p., laddove prevede che il giudice debba determinare le modalità della custodia. E l'art. 259 c.p.p., benché dettato in tema di sequestro probatorio, è indiscutibilmente applicabile anche al sequestro preventivo, in ragione del rinvio contenuto nell'art. 104 disp. att. c.p.p. A tale orientamento i giudici della suprema Corte ritengono di dovere aderire anche in considerazione della circostanza che l'azienda si caratterizza non già come un semplice insieme di beni ma, invece, come una entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi, che lega la sua esistenza alla continuazione dell'attività imprenditoriale (FIMMANÒ).

Attualmente, l'orientamento prevalente riconduce il ruolo del custode su di un piano pubblicistico, in veste di ausiliare del giudice, in quanto è quest'ultimo ad affidargli la custodia e l'amministrazione dei beni sequestrati. Da ciò ne scaturisce l'obbligo del custode di svolgere rettamente il suo munus pubblicum non solo nei confronti del titolare del bene sequestrato ma, soprattutto, al cospetto dell'autorità giudiziaria che lo ha investito di un potere di carattere esecutivo. Trattasi, in sostanza, di un ausiliario del giudice che, sotto l'aspetto della predetta collaborazione, deriva i suoi poteri direttamente dalle disposizioni e, quindi, da un'attività di controllo e decisione del magistrato. La nomina del custode spetta al giudice che dispone il sequestro. È sempre il giudice che stabilisce i criteri e i limiti di amministrazione delle quote sequestrate, prevedendo, se del caso, le eventuali cautele che si dovessero rendere necessarie di volta in volta a rendere più sicura la custodia. Alla luce di quanto appena detto, il custode, in quanto ausiliario del giudice e gestore autonomo di quote o azioni, mentre avrà il normale esercizio dei poteri minimi diretti alla conservazione ed al mantenimento funzionale del bene dall'altro, dovrà essere autorizzato via via dal giudice per il compimento di determinati atti (COGLIANDRO, pag. 526).

Tra i diritti sociali che l'amministratore giudiziario nominato in sede penale può esercitare rientra, in primis, il diritto di partecipazione e di voto in assemblea in quanto è soprattutto nell'esercizio di tali diritti e facoltà che si esplica la libera disponibilità (Cass. civ., 21858/2005 cit.; nello stesso senso v. Cass. civ., 13169/2005, cit. ).

Per quel che concerne i limiti all'esercizio del diritto di voto, attesa l'attribuzione generale dei poteri di amministrazione, viene meno la rilevanza della distinzione tra assemblea ordinaria e straordinaria, spettando, comunque, il diritto all'amministratore giudiziario indipendentemente dalla tipologia di assemblea. Conclusione avvalorata dalla lettera dell'art. 2352 c.c. che non ha operato alcuna distinzione, nella disciplina del diritto di voto, tra assemblea ordinaria e straordinaria. Connesso all'esercizio del diritto di voto è il diritto di intervento in assemblea che, ai sensi dell'art. 2370, comma 1, c.c., spetta al soggetto che ha il diritto di esercitare il voto in assemblea. Nonostante la giurisprudenza penale intervenuta sul punto non abbia escluso a priori l'inscindibilità dei due diritti, sembra doversi dare rilevanza ad esigenze di snellezza del procedimento decisorio (che verrebbe inevitabilmente turbato dalla necessità di dover procedere ad un maggior numero di comunicazioni oltre che dall'intervento del sequestrato in assemblea) e concludere per l'inderogabile inscindibilità tra diritto di voto e diritto di partecipazione in assemblea, atteso il nesso di strumentalità tra il secondo diritto ed il primo. Dunque, in caso di sequestro di natura penale, appare corretto ritenere che il diritto di intervento spetti unicamente all'amministratore giudiziario e la notifica della comunicazione di convocazione dell'assemblea debba essere indirizzata solamente al soggetto legittimato al voto, ossia, all'amministratore giudiziario. Il nocciolo del problema in merito al diritto di impugnare le delibere assembleari, ruota intorno alla legittimazione del socio sequestrato di far valere i vizi della delibera adottata senza che egli abbia potuto prendervi parte a causa del sequestro della partecipazione sociale. Da tali considerazioni si coglie, pertanto, come il diritto di voto sia legato ‒ in modo inscindibileal diritto di impugnazione e, di conseguenza, al fine di evitare la moltiplicazione di soggetti legittimati a contestare l'efficacia delle delibere assembleari assunte dalla società. Pertanto, legittimato ad impugnare le delibere ovvero le decisioni, ai sensi degli artt. 2377, comma 2,e ss. c.c. è, in caso di sequestro, l'amministratore giudiziario titolare del diritto di voto. Viceversa, riconoscendo un diritto di impugnazione concorrente in capo al socio sequestrato, vi sarebbe il rischio di creare una divaricazione della volontà promanante dalla medesima partecipazione sociale, ossia un contrasto tra il socio sequestrato e il soggetto legittimato ad esercitare il diritto di voto, con conseguente instabilità delle determinazioni societarie (RANUCCI, pag. 98).

Insomma, per gli altri diritti amministrativi diversi dal voto, l'art. 2471-bis c.c. richiama in applicazione l'art. 2352, comma 6,c.c. che li attribuisce in legittimazione esclusiva al custode salvo che dal titolo o dal provvedimento del giudice risulti diversamente. La soluzione è anch'essa maturata sull'onda lunga del tradizionale principio di strumentalità sostanziale (per il quale il riconoscimento del diritto di voto comporta il riconoscimento al medesimo soggetto di ogni altro diritto strumentale all'effettivo esercizio del diritto di voto), poi tradotto in dottrina anche in termini processuali. Di conseguenza, spettano al custode ‒ tra gli altri ‒ il diritto ad impugnare le deliberazioni assembleari, all'esercizio dei diritti di informazione e di controllo di cui all'art. 2476 c.c, a produrre denuncia al collegio sindacale ex art. 2408 c.c. ed a richiedere i provvedimenti ex art. 2409 c.c, ad esercitare l'azione sociale di responsabilità (CHIONNA; POLI).

In definitiva, è emerso che nell'impianto normativo del novello art. 2352 c.c. assume centralità il provvedimento dell'Autorità giudiziaria che, disponendo il sequestro della partecipazione sociale e nominandone il relativo custode, statuisce i diritti da questi in concreto esercitabili, rispetto all'astratta previsione normativa. L'articolo delinea il custode quale figura che amministra le partecipazioni oggetto del sequestro, essendo egli investito di quasi tutte le prerogative che appartengono al socio tuttavia, fa salva la facoltà per il giudice ‒ nel momento in cui dispone il sequestro di partecipazioni in società di capitali e ne nomina il relativo amministratore (custode) giudiziario ‒ di indicare quali, fra i diritti astrattamente attribuitigli debbano ‒ in concreto ‒ essere esercitati e le relative modalità operative (CINQUE). Pertanto, sulla base di quanto premesso, non si comprende perché la tanto temuta condizione di socio di riferimento è vista come l'ennesimo ostacolo per ritenere infondata la presenza del periculum di reiterazione di illeciti della stessa indole ex art. 45 d.lgs. 231/2001, dal momento che è la stessa Autorità giudiziaria ad essere capace di ridimensionare la figura del socio attraverso l'ausilio del custode.

La natura giuridica del reato di truffa aggravata e la mancata revoca delle domande di finanziamento

Il motivo principale per cui è da ritenere assolutamente attuale e concreta l'esigenza cautelare, pur a fronte delle astrattamente idonee azioni riorganizzative sopra ricordate, riposa sul fatto che nessuno, tanto della vecchia, quanto della nuova gestione societaria abbia mai revocato le domande non ancora vagliate dai competenti organi pubblici o che hanno dato luogo all'assegnazione di contributi non ancora materialmente erogati e neppure abbia comunque rinunciato alle sovvenzioni non ancora riscosse. Ciò comporta che se venissero concretamente erogati i finanziamenti richiesti, si avrebbe la consumazione di altrettante ipotesi di truffa (ex art. 640-bis c.p.), in ossequio all'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche si perfeziona con la materiale esecuzione del pagamento; mentre nel caso di prestazioni indebite di finanziamenti e contributi erogati in ratei periodici, il reato diventa a consumazione prolungata e pertanto il momento consumativo coincide con quello dell'ultimo pagamento, che segna la fine dell'aggravamento del danno (RIVERDITI).

Inoltre, è anche giusto sostenere che le misure cautelari possono e debbono esercitare la loro funzione special-preventiva non soltanto per scongiurare la commissione di nuovi illeciti della stessa indole ma, anche, per evitare che condotte illecite già poste in essere producano i loro effetti antigiuridici. Eppure, proprio in merito a questa capacità di arrestare le conseguenze dei reati innescate dalla condotta della persona fisica, l'adozione del sequestro preventivo con nomina del custode giudiziario non può ritenersi già sufficiente? Infatti, come non dimenticarsi dei poteri del custode a cui abbiamo fatto riferimento poc'anzi e la facilità con cui ‒ nonostante ci si trovi pur sempre nell'ambito di un giudizio cautelare ‒ la giurisprudenza prevalentesostiene che per applicare correttamente il sequestro è sufficiente un vaglio di corrispondenza tra la fattispecie astratta e quella reale, cioè sulla mera configurabilità in astratto dell'ipotesi di reato.

In conclusione

Tirando le fila di questo intervento, si può notare la preoccupante diffidenza degli organi giudicanti verso l'adozione di modelli di gestione sia ex ante che post delictum. Un atteggiamento prevenuto che di certo non stimola i piccoli imprenditori – per di più in periodo di crisi economica – a diffondere la legalità nella loro impresa (RENZETTI).

Sorprende, infatti, che nonostante l'adozione di accorgimenti organizzativi innegabilmente idonei ‒ in astratto ‒ a marcare una svolta sul terreno della legalità, il rischio di reiterazione venga collegato alle conseguenze di strategie comportamentali illecite non solo pregresse, ma poste in essere da una persona fisica ormai estromessa dall'amministrazione della società, in un contesto organizzativo radicalmente differente da quello che ‒ in ipotesi ‒ ne lucrerebbe gli illegittimi benefici. Insomma, se è pacifica la ricostruzione per cui quei finanziamenti elargiti per effetto della condotta fraudolenta del precedente amministratore integra la consumazione di nuove ipotesi di reato, è avvilente, da parte del “nuovo” ente, vedersi rinfacciare le conseguenze della scellerata politica aziendale del vecchio management.

Un'ultima osservazione, infine, riguarda la misura cautelare adottata ex art. 9, comma 2, lett. d). Autorevoli autori ritengono che le misure cautelari del decreto legislativo sono, in sostanza, più protese ad anticipare la decisione che a svolgere una funzione strumentale al processo. Questa loro scarsa vocazione cautelare (se non di vera e propria inconciliabilità con la funzione cautelare) si manifesta in particolar modo, proprio nelle ipotesi di esclusione ed eventuale revoca dei finanziamenti, contributi o sussidi, nonché nei casi di revoca delle autorizzazioni, licenze e concessioni (FIDELBO; CERESA-GASTALDO; BASSI – EPIDENDIO).

Proprio in merito alla revoca dei finanziamenti pubblici è orientamento pacifico ‒ tanto in dottrina quanto in giurisprudenza ‒ che ci si trovi di fronte ad una sanzione complessa, in cui la revoca, più che rappresentare un distinto provvedimento interdittivo, accede alla sanzione principale dell'esclusione dai benefici pubblici. Questa posizione (accettata anche nell'ordinanza de quo) afferma che scopo della disposizione è quello di inibire il ricorso futuro a finanziamenti o, in genere, a benefici pubblici per le società che abitualmente vi ricorrono e che commettono illeciti utilizzando proprio tali fonti finanziarie; la sanzione dell'esclusione funziona come una forma di incapacità temporanea a beneficiare di tali contributi e sarebbe del tutto illogico che, nel periodo di interdizione, la società privata o comunque la persona giuridica potesse ricevere i finanziamenti o i sussidi o le agevolazioni già deliberate dall'ente erogante: proprio per evitare una evenienza di questo tipo, si è prevista l'eventuale revoca dei benefici già concessi, come sanzione aggiuntiva o di completamento, di natura quasi accessoria, in senso improprio, del provvedimento principale di esclusione. Soltanto in questi limiti può giustificarsi il ricorso alla revoca, dal momento che un provvedimento di questo genere può operare per i benefici deliberati e non ancora materialmente erogati, mentre non potrebbe avere alcun effetto nei confronti dei finanziamenti già percepiti (FIDELBO).

Questa ineccepibile analisi, tuttavia, non sembrerebbe prendere in considerazione un'ipotesi tutt'altro che astratta ‒ verificatasi proprio nel caso che si sta esaminando ‒ ossia il cumulo tra misura interdittiva e misura reale (artt. 53 e 54 d.lgs. 231/2001). Come sappiamo, il sistema delle misure cautelari nei confronti degli enti è articolato secondo una netta dicotomia tra quelle interdittive e quelle reali. In particolare, il complesso delle norme relative alle misure interdittive disciplinato negli artt. 45-52 assume una certa autonomia nell'impianto delle misure cautelari previste dal d.lgs. 231/2001 in giustapposizione alle misure cautelari reali disciplinate dagli artt. 53 e 54 d.lgs. 231/2001. Attesa l'autonomia dei rispettivi presupposti, dei criteri di scelta, del procedimento applicativo, degli adempimenti esecutivi, dell'eventuale revoca o sostituzione, della durata e delle impugnazioni, va rimarcato che la specifica norma di cui all'art. 46, comma 4, fa, quindi, esclusivo riferimento alle misure cautelari interdittive e non anche a quelle reali (VARANELLI).

In conclusione, considerata, da una parte, la facilità con cui viene disposto il sequestro preventivo e i poteri del custode ‒ longa manus dell'autorità giudiziaria che dispone la misura cautelare reale ‒ e, dall'altra, l'artificiosa trasposizione sul piano cautelare della revoca di finanziamenti già concessi da intendere come sospensione, a causa, come più volte rimarcato in dottrina, della inidoneità di alcune figure sanzionatorie ad essere applicate provvisoriamente in funzione cautelare, potrebbe essere utile riproporre un'interpretazione dell'art. 9, comma 2, lett. d) che, focalizzando l'attenzione sull'aggettivo eventuale, faccia propendere per la sussistenza di un rapporto di alternatività tra la sanzione dell'esclusione e quella della revoca o, quanto meno, ridurre i casi in cui la revoca può accedere alla sanzione principale dell'esclusione. In questo modo, si potrebbe ritenere salvaguardato un principio che, in materia di responsabilità amministrativa degli enti, nonostante trovi esplicito riconoscimento nell'art. 46, viene fin troppo calpestato ossia il principio di proporzionalità.

Guida all'approfondimento

ASSUMMA –LEI, Commento all'art. 6, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, Levis – Perini (diretto da), Torino, 2014, pag 180;

BARTOLOMUCCI, Corporate Governance e responsabilità delle persone giuridiche, Milano, 2004, pag. 261;

BASSI – EPIDENDIO, Enti e responsabilità da reato. Accertamento, sanzioni e misure cautelari, Milano, 2006, pag. 384 ss.;

BISOGNI, Sub art. 2352 c.c., in Marchetti –Bianchi – Ghezzi – Notari (diretto da), Commentario alla riforma delle società. Azioni. art. 2346-2362 c.c., vol. II, Napoli, 2008, pag. 482;

BRUNO, Diritto di Voto, di intervento e di impugnativa: Gli effetti delegittimanti del sequestro penale in capo al socio di Società per Azioni, in Corriere giur., n. 4/2006, pag. 547;

CERESA-GASTALDO, Il processo alle società nel d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Torino, 2002, pag. 39 ss.;

CERQUA, Cautele interdittive e rito penale. Uno studio sulle alternative ai modelli coercitivi personali, Rimini, 2015, pag. 67 ss.;

CINQUE, I compiti ed i diritti del custode giudiziario delle quote di società di capitali sequestrate penalmente, in iusetgestio.org;

CHIONNA, I sequestri delle partecipazioni, in Dolmetta –Presti (a cura di), S.r.l.: commentario dedicato a G. B. Portale, Milano, 2011, pag. 432 ss.;

COGLIANDRO, Il sequestro di azioni di s.p.a.: norme penali e civili a confronto, in Notariato, 2010, 5, pag. 525;

FIMMANÒ (a cura di), Diritto delle Imprese in crisi e tutela cautelare, Ricerche di law & Economics dell'Università telematica Pegaso, Giuffrè, 2012, pag. 550;

GIORDANO, Le limitazioni all'autonomia privata nelle società di capitali, Milano, 2006, pag. 133 ss.;

GUALTIERI, Sequestro preventivo, in Scalfati- Spangher, Trattato di procedura penale, vol. 2, t. II, Torino, 2008, 460;

FERRARA jr - CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 2006, pag. 886;

FIDELBO, Le misure cautelari, in Reati e responsabilità degli enti, Lattanzi (a cura di), Milano, 2010, pag. 504;

POLI, Sub art. 2352 c.c., in Maffei Alberti (a cura di), Il nuovo diritto delle società: commento sistematico al D. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 aggiornato al D. lgs. 28 dicembre 2004, n. 310, vol. I, Padova, 2005, pag. 326 ss.;

RENNA, L'esercizio dei diritti sociali in ipotesi di sequestro di azioni o quote e la violazione del diritto di opzione come causa di annullabilità della delibera, in personaedanno.it;

RIVERDITI, Dalla giurisprudenza di merito un richiamo all'esigenza di concretezza nella valutazione degli indici impeditivi del modello organizzativo ex d.lgs. 231/2001, in Dir. pen. cont.;

RIVOLTA, La società a responsabilità limitata, in Cicu – Messineo (diretto da), Tratt. dir. civ. e comm., Vol. XXX, Milano, 1982;

SANTORIELLO, La giustizia penale patrimoniale, la confisca quale sanzione e l'incerta definizione dei presupposti per l'adozione del sequestro preventivo, in L'indice penale, 2014, n. 1, pag. 316 ss.;

VARANELLI, Art. 46, in Levis –Perini (diretto da), La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, Torino, 2014, pag. 1071.

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