Atti di concorrenza illecita rilevanti ai fini della configurabilità dell'art. 513-bis c.p.

23 Novembre 2016

Quali sono gli atti di concorrenza illecita rilevanti per l'integrazione del reato previsto dall'art. 513-bis c.p.? Tale fattispecie ha sviluppato, negli anni, una problematica molto importante, cioè quella relativa all'individuazione degli atti di concorrenza illecita. Il tema risulta controverso e, a tal proposito, si sono susseguiti diversi orientamenti giurisprudenziali. Secondo un orientamento, per l'integrazione del reato è necessaria la commissione di specifici atti di violenza o minaccia attraverso cui l'imprenditore ...
Abstract

Quali sono gli atti di concorrenza illecita rilevanti per l'integrazione del reato previsto dall'art. 513-bis c.p.? Tale fattispecie ha sviluppato, negli anni, una problematica molto importante, cioè quella relativa all'individuazione degli atti di concorrenza illecita. Il tema risulta controverso e, a tal proposito, si sono susseguiti diversi orientamenti giurisprudenziali. Secondo un orientamento, per l'integrazione del reato è necessaria la commissione di specifici atti di violenza o minaccia attraverso cui l'imprenditore riesce ad imporre sul mercato, in modo esclusivo e prevalente, la propria attività. Secondo un altro orientamento, invece, devono essere considerati atti di concorrenza illecita solo i comportamenti tipicamente competitivi, realizzati con l'utilizzo di mezzi vessatori, non rientrando in essi, i semplici atti intimidatori.

Natura giuridica del reato ex art. 513-bis c.p.

L'art. 513-bis c.p. è stato introdotto dalla l. 646/1982 (Norme antimafia) per reprimere un tipico comportamento di stampo mafioso che tramite l'intimidazione mira a controllare o condizionare le attività commerciali, industriali o produttive e consiste nel fatto di chi, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o produttiva compie atti di concorrenza usando violenza o minacce, anche se gli atti di concorrenza riguardano attività finanziata dallo Stato o da altri enti pubblici, pertanto, la condotta è costituita proprio dal fatto di compiere atti di concorrenza usando violenza o minaccia.

Il bene giuridico tutelato dalla suddetta norma è costituito sia dall'ordine economico, inteso quale normale svolgimento dell'attività produttiva ad esso inerente, sia dalla libertà del singolo di realizzare operazioni economiche tramite attività commerciali, industriali o produttive.

Tale fattispecie, ha natura di reato proprio, in quanto la norma incriminatrice richiede che il soggetto attivo eserciti un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, anche se tale requisito non deve essere inteso in senso meramente formale, cioè non occorre la qualifica di commerciante o industriale o produttore ma è sufficiente, per la sua configurabilità, lo svolgimento di fatto della predetta attività. È un reato di pericolo e può essere integrato anche da un solo atto di concorrenza illecita caratterizzato da violenza o minaccia perché il nucleo fondamentale del suo elemento oggettivo è costituito dalla realizzazione di un atto di illecita concorrenza.

Per la configurazione del reato è richiesto il dolo specifico in quanto è incluso il fine di eliminare o scoraggiare l'altrui concorrenza (Cass. pen.,Sez. III, n. 27681/2010) e si consuma nel momento e nel luogo in cui all'atto della concorrenza viene tenuta la condotta di violenza o di minaccia.

Nozione di concorrenza e di concorrenza sleale

Secondo il significato comune, per concorrenza si intende quella condizione in cui viene garantita ad ogni impresa la libertà di intervento e di iniziativa sullo stesso mercato inteso come il luogo dove si incontrano la domanda e l'offerta.

Invece, la nozione di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c. va desunta dalla ratio della norma, che impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l'adozione di metodi contrari all'etica delle relazioni commerciali; ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni. Infatti, quale che sia l'anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole previste dall'art. 2598 c.c.

Nozione di atti di concorrenza illecita: questione controversa

La questione che da anni risulta controversa, riguarda quali siano gli atti che devono intendersi di concorrenza illecita ai fini dell'integrazione del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza previsto dall'art. 513-bis c.p. Infatti la norma non sanziona ogni forma di concorrenza che superi i limiti legali previsti ma solo quella che impedisce lo sviluppo del libero mercato tramite l'uso di mezzi intimidatori e modi violenti.

Secondo un primo orientamento della suprema Corte, ai fini della configurazione del delitto, sono da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti sia attivi che impeditivi dell'altrui concorrenza che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell'imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (Cass. pen., Sez. II, n. 18122/2016).

Inoltre, il reato non deve necessariamente realizzarsi in ambienti di criminalità organizzata, né l'autore deve appartenere a un'organizzazione criminale, né sono necessari atti di concorrenza nel senso tecnico giuridico di cui all'art. 2595 c.c. Infatti, l'art. 513-bis c.p. si riferisce a quei comportamenti che, per essere attuati con minaccia o violenza, configurano una concorrenza illecita e si concretizzano in forme di intimidazione, tipiche della criminalità organizzata, che tendono a controllare le attività commerciali, industriali o produttive o, comunque, a condizionarle. Il riferimento alle condotte tipiche della criminalità organizzata non intende affatto dimensionare l'ambito di applicabilità della norma (restringendolo alle sole operazioni di criminalità organizzata) ma solo caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso a un significativo parallelismo (Cass. pen., Sez. III, n. 450/1995).

Nell'ambito di tale orientamento, è stato, altresì, precisato che la condotta materiale del delitto ex art. 513-bisc.p. può essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c., tra i quali vi rientrano quelli diretti non solo a distruggere l'attività del concorrente, ma anche ad impedire che possa essere esercitato un atto di libera concorrenza, come quello della ricerca di acquisizione di nuove fette di mercato (Cass. pen., Sez. III, n. 3868/2016).

In definitiva, secondo tale interpretazione giurisprudenziale, ai fini dell'integrazione del reato d'illecita concorrenza con violenza o minaccia qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente d'autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva, configura un atto di concorrenza illecita.

Secondo un diverso orientamento, invece, tale interpretazione non appare conforme al testo normativo, inteso a distinguere gli atti di concorrenza dagli atti di violenza o minaccia, e pone problemi di violazione del principio di legalità e di tassatività, non potendosi eliminare dall'elemento oggettivo dell'incriminazione il nucleo fondamentale, cioè, la realizzazione di un atto di concorrenza; pertanto, l'art. 513-bis c.p. punisce soltanto quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali realizzate con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando, invece, nella fattispecie astratta i semplici atti intimidatori (Cass. pen., Sez. VI, n. 44698/2015; Cass. pen., Sez. II, n. 9763/2015). A tal fine, dunque, sono rilevanti solo le condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.), realizzate con l'utilizzo di mezzi vessatori e sono escluse le condotte che si limitano al compimento atti intimidatori finalizzati ad ostacolare o contrastare l'altrui libera concorrenza durante l'esercizio dell'attività imprenditoriale però poste in essere al di fuori dell'attività concorrenziale.

Pertanto, la previsione di cui all'art. 513-bis c.p. non è applicabile ad atti di violenza e minaccia, in relazione ai quali la limitazione della concorrenza è solo la mira teleologica dello agente. Ciò, peraltro, non esclude che tali condotte rimangano riconducibili ad altre fattispecie di reati preesistenti all'introduzione del suddetto articolo nel testo del codice, come ad esempio al reato di estorsione previsto dall'art. 629 c.p.

Tale orientamento giurisprudenziale ha chiarito che la disposizione di cui all'art. 513-bis c.p., collocata tra i reati contro l'industria e il commercio, richiede una condotta tesa a scoraggiare mediante violenza o minaccia l'altrui concorrenza e ha come scopo la tutela dell'ordine economico e, quindi, del normale svolgimento delle attività produttive a esso inerenti, mentre la norma di cui all'art. 629 c.p., collocata tra i reati contro il patrimonio, tende a salvaguardare prevalentemente il patrimonio dei singoli; ne deriva che qualora si realizzino contemporaneamente gli elementi costitutivi di entrambi i reati, è configurabile il concorso formale degli stessi, non ricorrendo l'ipotesi del concorso apparente di norme. Tale possibile concorrenza di reati rende evidente che, una volta esclusa la configurabilità del delitto di illecita concorrenza, può comunque ravvisarsi il delitto di estorsione nella sua forma consumata o tentata.

È stato, peraltro, osservato (Cass. pen., Sez. VI, n. 24741/2015) che, prescindendo dalla adesione all'uno o all'altro indirizzo giurisprudenziale, comunque, rimane il dato indefettibile della necessaria ricorrenza di condotte violente o minacciose portate all'indirizzo di uno o più concorrenti sufficientemente individuati; con la conseguenza che non è sufficiente ad integrare il reato in esame, una condotta priva di risvolti minacciosi o violenti ed anche di forme d'intimidazione, consistente nella conclusione di accordi collusivi volti a controllare l'aggiudicazione di gare d'appalto in favore di imprese contigue ad un'associazione mafiosa, eventualmente rilevante in relazione a distinte figure di reato, ad esempio quelle di cui agli artt. 353 o 353-bis c.p.

Molto interessante e conforme al suddetto orientamento, è una recente pronuncia della Corte di cassazione, Sezione VI, che con sentenza n. 24741 depositata l'11 giugno 2015, P.M. in proc. Iacopino, ha espresso il seguente principio di diritto: Ai fini dell'integrazione del reato d'illecita concorrenza con violenza o minaccia è indispensabile che siano poste in essere condotte violente o minacciose idonee ad impedire ad uno o più concorrenti specificamente individuati di autodeterminarsi nell'esercizio della loro attività commerciale, industriale o comunque produttiva.

In suddetta sentenza, la suprema Corte ha specificato che, per far sì che sia integrato il reato previsto dall'art. 513-bis c.p. è necessario che vengano posti in essere specifici comportamenti violenti o minacciosi attraverso cui l'imprenditore impone sul mercato la propria attività in maniera esclusiva o prevalente, impedendo ai concorrenti di autodeterminarsi nello svolgimento della loro attività imprenditoriale, senza che sia rilevante la sola forza intimidatrice.

Per l'integrazione del reato, quindi, sono sufficienti comportamenti che vengono attuati con minaccia o violenza e configurano una concorrenza illecita, non necessariamente consistente negli atti giuridici previsti dall'art. 2595 c.c., e si concretizzano in forme di intimidazione, tipiche della criminalità organizzata, che tendono a controllare le attività commerciali, industriali o produttive o, comunque, a condizionarle, poiché il riferimento alle condotte tipiche della criminalità organizzata non definisce l'ambito di applicabilità della norma.

In conclusione

È doveroso sottolineare che, nonostante le molteplici pronunce che si sono susseguite negli anni, la questione continua a risultare controversa e a lasciare spazio ad entrambi gli orientamenti, con la conseguenza di creare incertezze nella qualificazione giuridica del fatto ed anche nella individuazione di possibili reati concorrenti.

Ci si augura che ben presto la questione venga sottoposta al vaglio delle Sezioni unite così da poter dirimere una volta per tutto il contrasto che ormai perdura da anni.

Guida all'approfondimento

BELTRANI (diretto da), Codice penale commentato, 1792 ss., Giuffrè, 2016

BERENINI, Delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio: Titolo VIII del libro II del Codice penale, Milano, 1937;

EBNER, Art. 513-bis, in LATTANZI-LUPO, Codice penale commentato, Giuffrè;

DI AMATO, Codice di diritto penale delle imprese e delle società, Giuffrè Editore; GUARINIELLO, Codice della sicurezza degli alimenti, Milano.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario