La violazione del divieto di “contestazioni a catena” è realmente deducibile con istanza di riesame?

25 Novembre 2016

A seguito della duplice pronuncia delle Sezioni unite (n. 45246/2012) e della Corte costituzionale (n. 293/2013), sembra ormai pacifica la possibilità di eccepire, con istanza di riesame, la violazione del divieto di contestazioni a catena sancito dall'art. 297, comma 3, c.p.p. In realtà ...
Abstract

A seguito della duplice pronuncia delle Sezioni unite (n. 45246/2012) e della Corte costituzionale (n. 293/2013), sembra ormai pacifica la possibilità di eccepire, con istanza di riesame, la violazione del divieto di contestazioni a catena sancito dall'art. 297, comma 3, c.p.p. In realtà, la concreta proponibilità di tale deduzione appare circoscritta a casi del tutto eccezionali (quasi “di scuola”). Vediamo perché e di quali casi si tratta.

Il tradizionale orientamento negativo della giurisprudenza di legittimità

Tradizionalmente, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che ogni questione attinente all'eventuale operatività del divieto di contestazioni a catena potesse essere sollevata dalla difesa dell'indagato solo con istanza formulata ai sensi dell'art. 306 c.p.p., volta ad ottenere la declaratoria di cessazione dell'efficacia della misura cautelare in atto per scadenza dei termini massimi di custodia e, in caso di esito negativo dell'istanza, formulando appello cautelare ai sensi dell'art. 310 c.p.p.

È stato, infatti, costantemente affermato che esula dall'ambito del giudizio di riesame la questione relativa all'inefficacia sopravvenuta dell'ordinanza di custodia cautelare per decorrenza dei termini di fase in relazione ad asserita contestazione a catena, in quanto tale vizio processuale non intacca l'intrinseca legittimità dell'ordinanza ma agisce sul piano dell'efficacia della misura cautelare. La questione va, pertanto, proposta al Gip con istanza di scarcerazione ex art. 306 c.p.p. e successivamente, ove occorra, con appello ex art. 310 c.p.p. avverso il provvedimento reiettivo del giudice (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 20 marzo 2012, n. 19555; Cass. pen.,Sez. II, 27 giugno 2007, n. 35605; Cass. pen., Sez. I, 13 luglio 2007, n. 35113; Cass. pen.,Sez. I, 4 marzo 2004, n. 19905; Cass. pen.,Sez. VI, 22 maggio 2003, n. 31497).

Pertanto, è stato statuito che, nel procedimento di riesame, non è deducibile la questione relativa all'inefficacia sopravvenuta dell'ordinanza di custodia cautelare per decorrenza dei termini di fase, in relazione all'asserita contestazione a catena, poiché il giudizio di riesame è preordinato alla verifica dei presupposti legittimanti l'adozione del provvedimento cautelare e non anche di quelli incidenti sulla sua persistenza (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 23 gennaio 2008, n. 10325; nello stesso senso Cass. pen. Sez. II, 13 ottobre 2005, n. 41044).

Le prime aperture

A partire dal 2010, tuttavia, si sono registrate alcune decisioni di segno contrario, che hanno affermato l'opposto principio in virtù del quale la violazione del divieto di contestazioni a catena può essere dedotta anche con istanza di riesame, dunque con la medesima impugnazione formulata avverso il provvedimento genetico-applicativo della misura custodiale.

Già nel 2010, si è sostenuto che la questione della retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare per effetto di contestazione a catena è rilevabile d'ufficio nel corso del procedimento di riesame nel quale sia stata invocata l'insussistenza delle esigenze cautelari (cfr. Cass. pen., Sez. III, 9 febbraio 2010, n. 9946).

Successivamente è stato ribadito che la questione relativa all'applicazione della retrodatazione dei termini della misura cautelare in caso di contestazioni a catena può essere validamente dedotta davanti al tribunale in sede di riesame ove si prospetti che, già al momento dell'emissione dell'ordinanza cautelare, erano scaduti interamente, per effetto della retrodatazione, i termini di custodia (cfr. Cass. pen., Sez. I, 29 marzo 2011, n. 24784).

La retrodatazione dei termini di custodia cautelare in caso di contestazioni a catena può essere validamente eccepita nel giudizio di riesame, sempre che si faccia valere un interesse concreto, apprezzabile se il meccanismo di retrodatazione comporti l'inefficacia della misura applicata con l'ordinanza oggetto di riesame (cfr. Cass. pen., Sez. I, 29 marzo 2011, n. 30480), dunque, se già al momento dell'emissione dell'ordinanza cautelare, erano scaduti interamente, per effetto della retrodatazione, i termini di custodia (cfr. Cass. pen., Sez. I, 20 dicembre 2011, n. 1006).

Le sentenze delle Sezioni unite e della Corte costituzionale

Sulla specifica questione della deducibilità del divieto di contestazioni a catena mediante istanza di riesame ex art. 309 c.p.p. sono poi intervenute due importantissime decisioni delle Sezioni unite della Cassazione e della Corte costituzionale.

Con la prima (Cass. pen., Sez. unite, 19 luglio 2012 n. 45246), è stato stabilito che, nel caso di contestazioni a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:

a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento dell'emissione del secondo provvedimento cautelare;

b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall'ordinanza cautelare.

Il secondo dei due requisiti suindicati (desumibilità dall'ordinanza) è stato affermato dalla suprema Corte alla luce di una molteplicità di considerazioni:

  • la mancanza, nel giudizio di riesame, di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento incidentale de libertate, che si basa esclusivamente sugli elementi emergenti dagli atti trasmessi dal pubblico ministero e su quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell'udienza;
  • l'estrema complessità delle questioni attinenti alle contestazioni a catena in relazione al tempo a disposizione del tribunale per definire la procedura di riesame;
  • il contraddittorio, solo “eventuale”, con il pubblico ministero, considerato che la sua partecipazione all'udienza camerale ex art. 309 c.p.p. è meramente facoltativa.

In una successiva pronuncia, la Cassazione si è soffermata sull'onere probatorio, precisando che incombe sulla parte che invoca l'applicazione della retrodatazione, dimostrare l'esistenza di entrambe le condizioni enucleate dalle Sezioni unite ed, in particolare la possibilità di desumere dalla prima ordinanza applicativa della misura coercitiva in ordine di tempo tutti gli elementi idonei a giustificare l'ordinanza adottata successivamente, il che può avvenire solo attraverso, innanzitutto, la produzione dell'ordinanza in questione ovvero degli atti di indagine che ne costituiscono il fondamento (cfr. Cass. pen., Sez. V, 5 giugno 2013, n. 49793).

Poco dopo, il giudice delle leggi (cfr. Corte cost., 6 dicembre 2013, n. 293) ha statuito che è costituzionalmente illegittimo l'art. 309 c.p.p., in quanto interpretato nel senso che la deducibilità, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall'art. 297, comma 3 del medesimo codice, sia subordinata – oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia già scaduto al momento dell'emissione dell'ordinanza cautelare impugnata – anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza.

Con riferimento al requisito della risultanza di tutti gli elementi necessari alla retrodatazione dall'ordinanza cautelare, l'impossibilità di far valere la retrodatazione in sede di riesame – perché i relativi presupposti non emergono in modo incontrovertibile e completo dall'ordinanza impugnata – non comporta la negazione di tutti i meccanismi di salvaguardia dell'interessato ma solo la fruibilità del diverso strumento rappresentato dall'istanza di revoca della misura e successivo appello contro l'eventuale decisione negativa. Tuttavia, la Corte costituzionale osserva che il vincolo discendente dal principio di diritto affermato dalle Sezioni unite risulta irragionevole e lesivo del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), atteso che la possibilità di rivolgersi al giudice del riesame si risolve, nel complesso, in un beneficio per l'interessato (rispetto alla possibilità di sollecitare la revoca della misura cautelare), mentre il livello della tutela viene ad essere determinato da un fattore puramente accidentale: il maggiore o minore scrupolo con cui il giudice della cautela assolve all'onere di motivare l'ordinanza restrittiva e, prima ancora, la circostanza che egli sia, o non sia, a conoscenza degli elementi che impongono la retrodatazione.

Quanto, poi, alla complessità della decisione, si osserva che le questioni sulle quali il tribunale del riesame è ordinariamente chiamato a pronunciarsi, ai fini della verifica dei requisiti di validità del provvedimento restrittivo, possono risultare e sovente risultano – malgrado la ristrettezza dei tempi e la mancanza di poteri istruttori – non meno complesse dell'accertamento della sussistenza di una contestazione a catena.

Sotto il profilo del contraddittorio, si sottolinea che il pubblico ministero che tema prospettazioni infondate della difesa in punto di contestazioni a catena può – pur senza esservi tenuto – comunque intervenire in udienza per contrastarle o far pervenire memorie, allo stesso modo di quanto avviene per qualsiasi altra deduzione dell'indagato intesa a contestare la legittimità della misura applicata.

In ordine alla completezza istruttoria, la Corte rileva che il tribunale del riesame dispone, ai fini della sua decisione, sia degli atti trasmessigli dall'autorità giudiziaria procedente ai sensi dell'art. 309, comma 5, c.p.p., sia degli ulteriori elementi eventualmente addotti dalle parti nel corso dell'udienza, ai sensi del comma 9 del medesimo articolo: non è certo impossibile, dunque, che le condizioni per la retrodatazione emergano in maniera evidente da fonti diverse dall'ordinanza sottoposta a riesame.

A seguito della pronuncia della Consulta, sul punto, è nuovamente e più recentemente intervenuta la Corte di cassazione, la quale, adeguandosi a quanto statuito dalla Corte costituzionale nel 2013, ha affermato che, in tema di contestazioni a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare può essere dedotta anche nel procedimento di riesame a condizione che, per effetto della retrodatazione, al momento dell'emissione della successiva ordinanza cautelare il termine di durata complessivo sia già scaduto (cfr. Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 13021).

La sommatoria dei termini di custodia per “fasi omogenee”

Effettuato tale excursus giurisprudenziale è possibile affermare che, allo stato attuale della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la caducazione dell'efficacia della misura cautelare per scadenza dei termini di custodia dovuta all'operatività del divieto di contestazioni a catena è deducibile in sede di riesame all'unica condizione che, operata la retrodatazione, il termine massimo di custodia sia già scaduto al momento di emissione dell'ordinanza cautelare oggetto di gravame.

Conseguentemente è proprio questa la prima verifica che il tribunale del riesame, investito della questione, è chiamato ad operare: ritenendo sussistenti – in ipotesi – tutti i presupposti per procedere alla retrodatazione dell'ordinanza successiva alla data di esecuzione della prima, occorre accertare se il termine massimo di custodia cautelare sia già scaduto o meno al momento di emissione del secondo provvedimento coercitivo. Infatti, solo in tal caso, la caducazione della misura incide sui presupposti genetico-applicativi della stessa e la questione è deducibile con istanza di riesame: strumento di impugnazione volto alla verifica della sussistenza dei presupposti genetici della misura cautelare, con esclusione di ogni profilo attinente alla permanenza della stessa.

I termini massimi di custodia cautelare, a seguito della retrodatazione, vanno parametrati alla pena astrattamente prevista per il delitto più grave oggetto di contestazione, l'imputazione più grave ai sensi dell'art. 297, comma 3, c.p.p.

Inoltre, nell'ipotesi in cui si sostenga l'esistenza di contestazioni a catena, la retrodatazione della misura cautelare può essere invocata solo nel corso delle indagini preliminari, non già nel corso del dibattimento (o a seguito di ammissione al giudizio abbreviato o di patteggiamento) o dopo che sia stata pronunciata sentenza di primo grado. L'art. 303 c.p.p. stabilisce, infatti, i termini di durata massima della misura cautelare in relazione ad ogni fase del giudizio. Per la fase delle indagini preliminari il dies a quo coincide proprio con il giorno dell'applicazione della misura cautelare. Con riguardo alla fase dibattimentale, invece, il termine decorre dal decreto di citazione a giudizio, e non è prevista la possibilità di una retrodatazione del secondo decreto di citazione al primo; per la fase ancora successiva il termine decorre dalla pronuncia della sentenza di primo grado ed anche in questo caso non è prevista alcuna retrodatazione.

La ragione di tale “omissione” legislativa è da ricercare nel fatto che il controllo deve essere operato dal giudice su ogni possibile elusione dei termini di durata della privazione della libertà, in quella particolare fase (indagini preliminari), che vede il solo pubblico ministero dominus del procedimento, non sussistendo eguali esigenze nel corso delle restanti fasi del giudizio (cfr. Cass. pen., Sez. III, 16 gennaio 2015, n. 8984; Cass. pen., Sez. I, 27 novembre 2009, n. 50000; Cass. pen.,Sez. II, 13 dicembre 2007, n. 1129; Cass. pen.,Sez. VI, 8 gennaio 2004, n. 6841; Cass. pen., Sez. III, 2 ottobre 2001, n. 40913; Cass. pen.,Sez. VI, 6 febbraio 1998, n. 437).

Pertanto, occorre fare esclusivo riferimento all'art. 303, comma 1, lett. a) c.p.p., che stabilisce il termine di durata massima della custodia cautelare per la fase delle indagini preliminari (dall'inizio dell'esecuzione della custodia cautelare alla data di emissione del provvedimento che dispone il giudizio) in tre mesi, sei mesi o un anno, a seconda della pena edittale massima prevista per il delitto per cui si procede.

Ai fini della verifica di ammissibilità della questione, dunque, pur dando per superata ogni problematica relativa all'an della retrodatazione (cioè se tale meccanismo debba operare o meno), è necessario procedere all'esame del quomodo, cioè delle specifiche modalità della predetta retrodatazione.

Si pone, in particolare, il problema di accertare se, una volta operata la retrodatazione, ai fini della verifica dell'eventuale superamento dei termini massimi di custodia cautelare, debba indistintamente sommarsi tutto il periodo trascorso in vinculis dal prevenuto, a prescindere dall'avvicendarsi delle varie fasi previste dall'art. 303 c.p.p., oppure se debba tenersi conto solo del lasso temporale trascorso in custodia cautelare in fase di indagini preliminari.

In proposito, è opportuno evidenziare che la suprema Corte, in ipotesi in cui la questione attinente alle contestazioni a catena era stata formulata con istanza ex art. 306 c.p.p. e, successivamente, con atto di appello cautelare ex art. 310 c.p.p., ha sempre affermato che la sommatoria dei termini di custodia deve essere effettuata per “fasi omogenee”, sommando cioè, tra loro, esclusivamente i periodi trascorsi in regime cautelare in identica fase (il periodo trascorso in regime detentivo nella fase delle indagini preliminari del primo procedimento con quello trascorso in custodia cautelare nella medesima fase del secondo procedimento).

Non v'è dubbio, dunque, che non vi sia possibilità di affastellare in un unico e indefinito periodo detentivo cautelare ogni lasso temporale trascorso in vinculis, senza operare i necessari distinguo in ragione della specifica fase in cui le molteplici misure adottate nei confronti dell'indagato hanno trovato applicazione.

In tal senso depone la condivisibile giurisprudenza di legittimità.

Già nel 1999, la suprema Corte aveva affermato che, in caso di sussistente contestazione a catena ex art. 297 comma terzo c.p.p., il termine di custodia comincia a decorrere, per tutte le misure cautelari concatenate, dalla data di esecuzione della prima di esse e prosegue per tutta la durata della propria fase, cumulando quanto già patito in forza del primo titolo custodiale, all'eventuale residuo per il caso in cui questo non fosse durato fino al suo massimo di “pari fase” (cfr. Cass. pen., Sez. I, 12 luglio 1999, n. 4895).

Il medesimo principio (non si rinvengono arresti di segno contrario) è stato poi pienamente confermato in una più recente pronuncia dei giudici di legittimità, che risulta particolarmente chiara sul punto (Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 15736).

Nella massima relativa a tale decisione si legge: La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, ai sensi dell'art. 297, comma terzo, c.p.p., impone, per il computo dei termini di fase, di frazionare la globale durata della custodia cautelare, imputando solo i periodi relativi a fasi omogenee (nella specie, la Corte, pur riconoscendo la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, ha ritenuto, al fine di verificare se fosse decorso il termine di durata previsto per la fase delle indagini preliminari, di scomputare dal periodo complessivo di durata della custodia cautelare, solo le frazioni di tempo relative alla fase in questione per i due procedimenti).

Dalla motivazione del provvedimento, si evince chiaramente come la Corte abbia espressamente escluso che, a seguito dell'operare della retrodatazione prevista dall'art. 297, comma 3, c.p.p., il calcolo della durata della custodia cautelare possa essere compiuto senza interruzioni di sorta, con inizio dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza cautelare.

Confermano il principio della sommatoria per “fasi omogenee” più recenti pronunce, sia nel caso in cui la questione della retrodatazione venga posta con istanza di declaratoria di inefficacia e successivo appello (cfr. Cass. pen., Sez. feriale, 21 agosto 2014, n. 47581), sia in ipotesi di deduzione “diretta”, con istanza di riesame (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 50761).

Conseguentemente, limitando l'esame alla sola fase delle indagini preliminari, occorre verificare se l'indagato ha trascorso in regime restrittivo un periodo complessivamente superiore a quello indicato dall'art. 303, comma 1, lett. a) c.p.p. (tre mesi, sei mesi o un anno, a seconda della pena edittale massima prevista per il più grave dei delitti oggetto di contestazione).

La conclusione cui si è giunti appare pienamente confermata anche da una delle pronunce di legittimità sopra richiamate che tratta specificamente la problematica attinente alla deducibilità della violazione del divieto di “contestazioni a catena” in sede di riesame (cfr. Cass. pen., Sez. I, 29 marzo 2011, n. 24784).

In particolare, nella fattispecie sottoposta al vaglio della suprema Corte, l'indagato era stato attinto da una prima ordinanza custodiale emessa il 19 aprile 2009 (a seguito di arresto in flagranza del 15 aprile 2009) per il delitto di cui all'art. 73 d.P.R. 309/1990, per il quale veniva celebrato giudizio abbreviato il 25 novembre 2009.

Il medesimo indagato era successivamente stato attinto da un ulteriore provvedimento coercitivo in data 1 settembre 2010 per i delitti di cui agli artt. 74 e 73 d.P.R. 309/1990, con l'aggravante di cui all'art. 80 del medesimo decreto.

Orbene, in tale fattispecie, la Corte ha affermato che la questione attinente al divieto di contestazioni a catena non poteva essere dedotta in sede di riesame formulato avverso la seconda ordinanza custodiale proprio perché, pur operata la retrodatazione alla data di esecuzione della prima, in ogni caso, il termine di durata massima della custodia cautelare non poteva essere considerato scaduto, atteso che poteva essere computato solo il lasso temporale decorrente tra la data di esecuzione della prima ordinanza (datata 19 aprile 2009, emessa a seguito di arresto in flagranza del 15 aprile 2009) e la data di adozione del decreto di ammissione al giudizio abbreviato (25 novembre 2009): conseguentemente, il prevenuto aveva trascorso in vinculis, in fase di indagini preliminari (nel primo procedimento), solo sette mesi e dieci giorni, dunque, un periodo decisamente inferiore a quello di un anno previsto dall'art. 303, comma 1, lettera a), n. 3 c.p.p. (norma applicabile in relazione alla pena edittale prevista per i delitti contestati).

In conclusione

In virtù di quanto precede, pur volendo ritenere sussistenti tutti i presupposti per procedere alla retrodatazione prevista dal terzo comma dell'art. 297 c.p.p., affinché quest'ultima possa determinare la declaratoria di cessazione di efficacia della misura in atto, ai fini della verifica della scadenza del termine massimo di fase della custodia cautelare, devono essere considerati solo ed esclusivamente i periodi trascorsi in regime restrittivo in fase di indagini preliminari, non potendo sommare questi con i lassi temporali trascorsi in vinculis attinenti alle successive fasi processuali (secondo il principio della sommatoria dei termini di custodia per “fasi omogenee”).

Se così non è, se il termine di fase risulta “consumato” solo in parte (per un periodo inferiore al tetto massimo previsto dall'art. 303, comma 1, lett. a) c.p.p.: 3 mesi, 6 mesi o un anno), la conseguenza è che la seconda ordinanza custodiale, viene emessa ritualmente.

In tal caso, l'istanza di riesame non può che essere definita (sul punto) con una pronuncia di inammissibilità per difetto di interesse all'impugnazione (art. 568, comma 4, c.p.p.), considerato che, pur facendo operare il meccanismo della retrodatazione previsto dall'art. 297, comma 3, c.p.p., non potrebbe comunque giungersi alla caducazione della custodia in corso di esecuzione.

La suprema Corte ha, infatti, anche assai recentemente confermato che l'interesse all'accoglimento della richiesta di retrodatazione della decorrenza del termine di durata della custodia cautelare nel caso di contestazione a catena sussiste solo qualora da essa derivi un diverso e favorevole computo del termine di durata della custodia cautelare nella fase delle indagini preliminari, tale da comportare la scarcerazione: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inammissibile, perché generico, il motivo di impugnazione con il quale era stata lamentata la violazione dell'art. 297, comma 3, c.p.p. senza, tuttavia, dedurre la possibilità che, per effetto della retrodatazione del termine, la misura applicata avesse perso efficacia, posto che il difensore si era invece limitato a richiamare l'interesse alla retrodatazione alla luce della elaborazione giurisprudenziale (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 9 marzo 2016, n. 14510).

Concludendo può affermarsi che la violazione del divieto di contestazioni a catena può essere eccepita con istanza di riesame solo se, al momento di emissione della seconda ordinanza custodiale “concatenata” (il provvedimento gravato), è già compiutamente esaurito il termine di fase (indagini preliminari) per i delitti oggetto di contestazione.

Ciò significa che, nell'ambito del primo procedimento, deve essere stato completamente “consumato” il termine di durata massima relativo alla fase delle indagini preliminari, senza neppure un giorno residuo (che sarebbe sufficiente a “salvare” la seconda ordinanza, almeno in sede di riesame).

Ciò, sempre a condizione che, nel secondo procedimento, non venga contestato un delitto più grave di quello addebitato nel primo, circostanza che potrebbe determinare il passaggio ad uno scaglione più elevato del termine di durata massima di fase: in tal caso, neppure l'intera consumazione dell'originario termine di fase nell'ambito del primo procedimento (parametrato su una imputazione meno grave) sarebbe sufficiente a caducare la misura in atto, attesa la successiva espansione del termine di durata massima scaturente dalla contestazione di un delitto più grave (infatti, è proprio all'astratta imputazione più grave che l'art. 297, comma 3, c.p.p. àncora la determinazione del termine di fase in ipotesi di “contestazioni a catena”, anche qualora sia intervenuta sentenza e dunque l'applicazione di una pena in concreto quantificata).

Al periodo trascorso in vinculis dall'indagato in fase di indagini preliminari nel primo procedimento non potrà sommarsi, né il lasso temporale decorso in stato detentivo per le successive fasi del medesimo procedimento, né il periodo trascorso in detenzione nel secondo procedimento (quello in cui viene adottata l'ordinanza genetica gravata), neppure quello trascorso tra la data di esecuzione del provvedimento coercitivo e la data di definizione del giudizio ex art. 309 c.p.p. (neanche qualora si collochi in fase di indagini preliminari), atteso che il riesame è volto a verificare esclusivamente la sussistenza dei presupposti per l'emanazione dell'ordinanza cautelare, non quelli necessari alla sua persistenza: il Tribunale del riesame, dunque, dovrà porsi esattamente nella stessa posizione del giudice che ha adottato il provvedimento gravato.

In definitiva, appare evidente come, a prescindere dall'apertura operata dalle Sezioni unite e dalla Corte costituzionale, la reale ed effettiva possibilità di eccepire la violazione del divieto di “contestazioni a catena” mediante istanza di riesame costituisca facoltà processuale del tutto eccezionale, che postula non solo la sussistenza di tutti i presupposti necessari all'operatività della retrodatazione prevista dall'art. 297, comma 3, c.p.p., ma anche che quest'ultima, effettuata per “fasi omogenee”, conduca al compiuto spirare del termine di durata massima della custodia cautelare per la fase delle indagini preliminari ancor prima dell'emissione dell'ordinanza custodiale oggetto di impugnazione.

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