Il segreto professionale dell'avvocato. Contenuto, limiti, doveri e diritti

27 Settembre 2016

L'ordinamento forense impone all'avvocato la rigorosa osservanza del segreto professionale obbligandolo altresì a mantenere il massimo riserbo sui fatti e sulle circostanze apprese durante lo svolgimento della attività rappresentativa e difensiva espletata in giudizio ovvero, al di fuori di questa, su quanto costituisce il sapere formatosi nell'ambito prestazioni di assistenza o di consulenza stragiudiziale (art. 6, comma 1, l. 247 del 2012). La prescrizione normativa è posta nell'interesse della parte assistita.
Abstract

L'ordinamento forense impone all'avvocato la rigorosa osservanza del segreto professionale obbligandolo altresì a mantenere il massimo riserbo sui fatti e sulle circostanze apprese durante lo svolgimento della attività rappresentativa e difensiva espletata in giudizio ovvero, al di fuori di questa, su quanto costituisce il sapere formatosi nell'ambito prestazioni di assistenza o di consulenza stragiudiziale (art. 6, comma 1, l. 247 del 2012).

La prescrizione normativa è posta nell'interesse della parte assistita.

L'opposizione del segreto professionale

Una ulteriore specifica regola legale concernente il dovere del mantenimento del segreto e del riserbo risulta di recente imposta ai difensori dall'art. 9, comma 2 prima parte, d.l. 12 settembre 2014 n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, nell'ambito della neointrodotta Procedura di negoziazione assistita riservata ad uno o più avvocati.

Si tratta di una previsione orientata verso una più rigorosa tutela della riservatezza perché concerne in particolare le informazioni ricevute nell'espletamento dell'incarico e, quindi, quelle acquisite non soltanto dalla parte assistita ovvero dal cliente se diverso da quest'ultima. Proprio in sede di conversione del decreto legge, il Legislatore ha ritenuto opportuno rafforzare la tutela inserendo la specifica introduzione dell'ulteriore illecito disciplinare per l'avvocato che infrange il segreto o non mantiene la doverosa riservatezza su tali informazioni (comma 4-bis) .

Tuttavia, ai fini di una più adeguata perimetrazione dei diritti e dei doveri dell'avvocato con riguardo alla tutela dei propri segreti, occorre tener conto altresì della disciplina dettata dall'art. 200, comma 1, lett b), del codice di rito penale, in particolare secondo quanto si cercherà di evidenziare infra.

La norma processuale appena ricordata stabilisce, tra le altre, una chiara ipotesi di esenzione dal generale dovere di testimoniare per gli avvocati (da ritenersi estesa, secondo la lettura operata da Corte cost., 8 aprile 1997, n. 87, ai praticanti la professione forense) nonché per ogni altra persona che risulti far parte dell'ufficio della difesa, tutte le volte in cui il professionista forense si determini ad opporre il segreto professionale al giudice ovvero ad altra autorità che pretenda di interrogarlo.

Non è un privilegio concesso ad una categoria.

Ha come ratio la protezione della libertà della funzione difensiva e la tutela della efficacia dell'esercizio della attività professionale forense e dei fondamentali diritti ad essa essenzialmente funzionali e degni di rilevanza costituzionale come il diritto di azione e quello di difesa .

Va considerato che quella dell'avvocato di opporre il segreto ovvero di rendere testimonianza è comunque una libera scelta espressione del carattere potestativo della previsione legale; scelta da esercitarsi nell'ambito di due ben distinguibili opzioni a ciascuna delle quali possono far seguito distinte conseguenze per il professionista sul piano della responsabilità penale ovvero su quello della responsabilità disciplinare.

Appare opportuno quindi esaminare gli effetti che ne conseguono.

Con la prima l'avvocato che oppone il segreto professionale allorché viene richiesto di deporre su quanto … conosciuto per ragione … della propria professione evidentemente non avvalendosi della facoltà di rivelare suddetta, non può essere obbligato a testimoniare; salvo che il giudice, dubitando della fondatezza della ragione sottesa alla dichiarazione di astensione, ritenga, ma pur sempre all'esito dell'espletamento degli accertamenti necessari che la legge impone, con evidenza infondata la allegazione e ordini di deporre; tuttavia, se a verifica correttamente compiuta il caso permane dubbio, quel giudice deve riconoscere prevalenza alla tutela del segreto non potendo ritenere con certezza la infondatezza della allegazione.

Con la seconda l'avvocato, allorché ritiene di non invocare lo ius tacendi riconosciutogli dalla legge processuale e decide di deporre finendo col rivelare quanto avrebbe dovuto restare segreto, potrà essere tenuto ad allegare e provare una giusta causa che risulti idonea a scriminare la rivelazione che, altrimenti, sarebbe da considerarsi indebita e quindi costargli da un canto l'accusa per il reato di rivelazione di segreto professionale (art. 622 c.p.) e, dall'altro, comunque il procedimento per l'illecito disciplinare rilevabile in una condotta siffatta; illecito attualmente sanzionato con la comminatoria della sospensione dell'esercizio della attività professionale da uno a tre anni (art. 28, comma 5, cod. deontologico).

Le disposizioni in tema di segreto contenute nel codice deontologico forense del 2014

Con l'art. 13 cod. deont. viene in buona sostanza replicato in sede deontologica quanto già disposto dall'art. 6 l. 247/2012, giacché anche sul versante disciplinare è stato imposto all'avvocato il dovere della rigorosa osservanza del segreto professionale in uno a quello del mantenimento del massimo riserbo su tutto quanto egli ha comunque appreso agendo in tale veste funzionale, giacché con la disposizione in parola si è inteso prevenire, mediante l'inserimento in chiusura della espressione comunque per ragioni professionali, ogni possibile smagliatura ricomprendendo tutto quanto può costituire il sapere professionale.

Interessante è poi l'esordio dell'art. 28 cod. deont. in quanto disposizione maggiormente esplicativa oltre che estensiva del principio cardine appena ricordato.

Ivi unitamente al dovere risulta chiaramente sancito il diritto primario e fondamentale dell'avvocato a mantenere il segreto e il massimo riserbo sull'attività prestata (primo comma).

Fanno seguito ulteriori specificazioni concernenti l'ambito della tutela del segreto il cui perimetro viene così esteso su tutte le informazioni che all'avvocato siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato.

L'ambito di operatività della disciplina

L'avvocato ha quindi il diritto di opporre a chiunque ed in ogni sede il proprio segreto da intendersi anzitutto riferito alla natura, qualità, estensione soggettiva ed oggettiva della attività prestata, in essa dovendosi ricomprendere, al di là degli imprescindibili adempimenti fiscali e previdenziali legalmente previsti a proprio carico, anche gli aspetti concernenti le modalità soggettive ed oggettive dell'incarico e la provenienza retributiva della attività espletata (art. 16, comma 1, cod. deont.).

Emblematico quanto a tale ultimo profilo il caso giudiziario salito agli onori delle cronache qualche tempo fa avente ad oggetto l'operato dei componenti un pool di magistrati del pubblico ministero i quali, in sede di assunzione di informazioni nell'ambito di una indagine a carico di personaggio di grande notorietà e rilevanza nazionale, ebbero a richiedere ad alcuni avvocati risultati difensori della medesima persona indagata ma in procedimenti diversi, ovvero di altre persone alla prima ricollegabili, che rivelassero fatti e circostanze riguardanti, tra le altre, le modalità soggettive ed oggettive del conferimento e del mantenimento di ciascuno degli incarichi difensivi; da quali persone e con quali modalità erano stati eseguiti i pagamenti delle parcelle professionali relative e, ancora, ogni eventuale circostanza appresa da terzi.

Richiesta mantenuta ferma nonostante la reiterata opposizione del segreto professionale da parte di ciascuno dei professionisti su tutto quanto loro domandato e, quindi, seguita da un atto di formale declaratoria di non opponibilità del segreto con contestuale ordine di rendere le informazioni richieste.

Il diritto-dovere in parola concerne tutto quanto all'avvocato è stato confidato a causa del mandato conferito, anche se concluso o rinunciato o non accettato (comma 2) ovvero su quanto ha conosciuto durante l'espletamento di ciascun incarico professionale.

L'estensione della copertura della garanzia in esame è perciò da intendersi di ampiezza alquanto maggiore dovendosi ritenere che essa risulti comprensiva di tutto quanto l'avvocato ha appreso nell'esercizio della professione. Cioè, in buona sostanza, in occasione dell'espletamento della specifica funzione difensiva anche se solo consultiva. Anche e comunque in relazione a fatti o circostanze non attinenti allo specifico mandato preso in considerazione, bensì conoscenza derivante dall'espletamento di qualunque altro incarico e, persino, su quanto gli è stato riferito al solo scopo di consentirgli di operare la preventiva valutazione dell'incarico difensivo poi non accettato.

Dunque il dato che occorre prendere in considerazione per ritenere la operatività della copertura della previsione normativa di garanzia è unicamente il risultato positivo della verifica che sia stato l'esercizio della professione forense la causa della conoscenza del fatto da considerarsi oggetto del segreto professionale.

È questa la regola che si ricava dal sistema vigente semplicemente coordinando quanto dispone l'art. 6, comma 3, l. 247/2012 – laddove si afferma che il diritto di astensione dal deporre per l'avvocato, i suoi collaboratori e i dipendenti nei procedimenti e nei giudizi di qualunque specieconcerne, appunto, ciò di cui siano venuti a conoscenza nell'esercizio della professione … – con la specifica previsione dell'art. 200, comma 1, c.p.p., secondo cui il diritto di astenersi dal deporre nel processo penale risulta correlato a quanto dall'avvocato è stato conosciuto per ragione della propria professione.

La giurisprudenza di legittimità, occupandosi di un caso limite in tema di intercettazioni indirette di conversazioni di un avvocato consultato come amico dalla persona indagata che in tal guisa gli si confidava tuttavia richiedendogli ed ottenendo consigli legali pur in assenza di un formale mandato, ha avuto occasione di valorizzare il principio enucleandolo attraverso una lettura orientata alla massima estensione della garanzia in parola e così giungendo ad affermare che il divieto di utilizzazione dei risultati di quelle intercettazioni previsto dall'art. 271, comma 2, c.p.p. è posto … a tutela dell'avvocato … e dell'esercizio della sua funzione, ancorché non formalizzato in un mandato professionale, purché detto esercizio sia causa della conoscenza del fatto, ben potendo un avvocato venire a conoscenza, in ragione della sua professione, di fatti relativi ad un soggetto del quale non sia difensore (Cass. pen. Sez. V, 19 aprile 2013, n.17979).

Tuttavia sempre l'art. 28 codice deontologico contempla, quanto ai doveri di segretezza-riservatezza, alcune deroghe, specificando che l'avvocato può divulgare in tutto o in parte il proprio sapere professionale, ma avendo cura di contenere il disvelamento a quanto strettamente necessario per il fine tutelato, allorché:

  • sia necessario per un più utile svolgimento dell'attività di difesa (ad esempio perché quanto si intende rivelare concerne fatti o circostanze favorevoli alla posizione processuale della parte assistita; oppure mettendo a parte l'assistito - non necessariamente anche il cliente - di quanto appreso aliunde anche in forma riservata o confidenziale allo scopo di ricevere dallo stesso ulteriori lumi idonei all'espletamento di una più penetrante e mirata attività di difesa);
  • lo reputi ineludibile per impedire la commissione di un reato di particolare gravità non soltanto ad opera del proprio assistito ma, proprio in conseguenza di quanto conosciuto, anche da parte di terzi;
  • lo ritenga indispensabile per difendersi sia in sede di controversia giudiziale (verosimilmente di natura risarcitoria per responsabilità professionale ovvero dallo stesso avviata per conseguire il compenso) che lo contrapponga alla parte assistita o al cliente; sia in sede disciplinare.
In conclusione

Quanto al contenuto del segreto, in tempi non molto risalenti è stato sostenuto che il concetto di ciò che è da considerarsi segreto non ricomprenderebbe la c.d. cornice, laddove con tal termine bisognerebbe intendere l'esistenza stessa di un fatto o circostanza destinati a restare segreti.

Sicché, stando a tale indirizzo ermeneutico, colui che afferma l'esistenza di un fatto coperto da segreto senza rivelarne in alcun modo il contenuto materiale non violerebbe la norma precettiva dal momento che l'oggetto del segreto non sarebbe in alcun modo manifestato restando tal quale.

Tuttavia a ben riconsiderare tal profilo, soprattutto alla luce dei ricordati parametri normativi con i connessi canoni deontologici, la operazione di scorporo tra cornice e oggetto del segreto non appare del tutto convincente. Dovendosi ritenere come anche la rivelazione circa la esistenza di fatti che sono destinati a restare segreti, pur se operata in assoluta buona fede, è di per sé sola idonea a divenire lesiva della funzione difensiva stessa prima che dell'interesse della parte assistita.

È sufficiente ipotizzare a tal riguardo i rischi, forse improbabili ma non certo impossibili, di abusive strumentalizzazioni o di speciose contaminazioni anche di tipo suggestivo o manipolatorio che da tale rivelazione potrebbero derivare specie ad opera delle parti contrapposte nel contesto processuale .

Appare quindi più che opportuno intendere il mantenimento del segreto verso i terzi in senso assoluto comprendendo anche l'involucro esterno o cornice per una più sicura protezione proprio del contenuto di modo che […] possa restare segreta anche l'esistenza stessa del segreto.

Quanto ai limiti, una prima configurazione risulta certamente ricollegabile alla scelta che l'avvocato opera allorché richiesto in sede processuale si determina a deporre così facendo venir meno il segreto professionale di cui è il solo incontrastabile custode.

Poiché si tratta di una facoltà rimessa unicamente al proprio vaglio etico professionale, egli deponendo e rivelando potrà essere chiamato a rispondere in sede disciplinare del relativo illecito ove risulti insussistente una causa di giustificazione Ma se anche dovesse essere alfine ritenuta la sussistenza di una violazione siffatta, la testimonianza sarebbe comunque processualmente utilizzabile non rientrando tal tipo di illecito disciplinare in alcuna disposizione processuale prevista a pena di inutilizzabilità (Cass. pen., Sez. VI, 2 aprile 2013, n. 15003).

Altro limite al segreto è ravvisabile rivolgendo lo sguardo al versante interno della assistenza della parte, con particolare riferimento alla assunzione in forma collegiale della difesa tecnica.

In tale contesto tutte le informazioni utili dal punto di vista delle strategie da adottare e delle scelte da operare comunque orientate verso una comune difesa, oltre che quelle rilevanti ai fini processuali, debbono dar corpo ad un flusso di scambio tra i componenti il collegio difensivo privo di condizionamenti o limitazioni, fermo restando che ciascuno dei detti componenti rimane poi tenuto al segreto esterno.

Vi è poi l'ulteriore limite che può ravvisarsi nella prospettiva rivelatrice che si profila al difensore allorché si trovi ad assistere una persona che pur essendo vittima di un reato che appaia di indubbia gravità e la cui consumazione risulti perdurante, tuttavia, nonostante il contrario consiglio ricevuto, non intenda denunciare i fatti. Tanto a cagione del grave stato di prostrazione in cui appare versare l'assistito determinato soprattutto dal timore di subire ritorsioni ancor più pesanti ad opera dell'autore.

Tuttavia, allorché quel difensore, dopo avere resistito alla spinta di riferire alla competente autorità del reato in atto per non violare il segreto così malvolentieri adeguandosi alla volontà di non denunciare seppur viziata dell'assistito-vittima, viene poi chiamato a riferire agli inquirenti o testimoniare nell'ambito del procedimento penale scaturito dalla iniziativa di un terzo, è tenuto a rivelare quanto è a sua conoscenza non residuando ormai alcuna remora che possa in qualche modo ricollegarsi al dovere di mantenimento del segreto (Cass. pen., Sez. II, 6 novembre 2015, n. 44674), salvo che egli abbia compiuto nell'interesse del medesimo assistito atti di investigazione difensiva. Solo per una evenienza siffatta è stata ritenuta la incompatibilità di quel difensore ad assumere l'ufficio di testimone quanto al contenuto della attività d'indagine direttamente svolta, anche se ciò dovesse verificarsi dopo il venir meno del mandato difensivo (Cass. pen., Sez. V, 24 febbraio 2014, n. 87561)

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