La corruzione per l’esercizio della funzione: ambito di applicazione e vicende di diritto intertemporale

29 Luglio 2015

L'analisi che segue è diretta a valutare gli effetti della introduzione, all'art. 318 c.p., del delitto di corruzione per l'esercizio della funzione.
Abstract

L'analisi che segue è diretta a valutare gli effetti della introduzione, all'

art. 318 c.p.

, del delitto di corruzione per l'esercizio della funzione, tentando di definire l'ambito di applicazione della fattispecie attraverso l'analisi di alcuni elementi costituivi particolarmente problematici; nonché i rapporti, in una prospettiva sia diacronica che sincronica, del nuovo reato con gli altri delitti che compongono la galassia delle fattispecie corruttive.

La nuova fattispecie incriminatrice

La l. 190/2012, sostituendo alla c.d. corruzione impropria di cui all'art. 318 il delitto di corruzione per l'esercizio delle funzioni, per la prima volta introduce nel nostro ordinamento un delitto di corruzione che prescinde dal riferimento ad un atto dell'ufficio quale oggetto dell'accordo corruttivo. A tale elemento, infatti, il legislatore sostituisce i concetti di funzioni e poteri del pubblico agente, al cui esercizio è riferita la dazione o promessa di denaro o altra utilità da parte del privato.

Si è inteso, in questo modo, ricomporre la frattura che si era venuta a creare tra il diritto di fonte legislativa e il “diritto vivente” di matrice giurisprudenziale, che già da tempo interpretava in modo sostanzialmente analogico il concetto di atto d'ufficio, ritenendo che rientrassero nell'ambito di applicazione dell'art. 319 c.p. anche gli accordi conclusi in relazione all'esercizio della funzione (Cass. pen., Sez. VI, 29 ottobre 1992).

La nuova fattispecie sembra ricomprendere nel suo ambito di applicazione fatti estremamente diversi tra loro, anche sotto il profilo del disvalore. Infatti, oltre alle ipotesi in cui l'oggetto dell'accordo sia costituito da un atto dell'ufficio, che certamente rientra nel concetto di esercizio della funzione, il nuovo art. 318 c.p. si presta ad essere applicato sia a quelle ipotesi di “pagamenti a futura memoria”, effettuati al fine di conquistarsi una generica benevolenza del pubblico ufficiale, sia a quelle ipotesi di corruzione in incertis actis ove l'accordo corruttivo ha ad oggetto l'asservimento continuativo di tutte le funzioni svolte dal pubblico agente agli interessi del privato.

La preposizione “per”: retribuzione a carattere sinallagmatico o accettazione di doni “in relazione” all'esercizio della funzione

L'assenza di un riferimento al carattere retributivo della dazione, unitamente alla sostituzione dell'elemento dell'atto d'ufficio con quelli generici delle funzioni o dei poteri dell'agente, potrebbe comportare il venir meno del carattere necessariamente sinallagmatico dell'accordo e il connesso requisito della proporzione tra prestazione indebita del privato e controprestazione del pubblico agente. La riforma avrebbe determinato un definitivo superamento del c.d. paradigma mercantile, con conseguente attrazione nell'area del penalmente rilevante di tutte le ipotesi di donativi semplicemente giustificati dalla qualifica del pubblico agente, quand'anche di valore irrisorio o erogati senza la funzione di corrispettivo per prestazioni, sia pur indeterminate, realizzate o da realizzarsi da parte del soggetto pubblico.

Tuttavia, parte della dottrina (Mongillo; Seminara) rileva come l'utilizzo della preposizione “per” (il pubblico ufficiale che, “per” l'esercizio delle sue funzione o dei suoi poteri) non sia affatto casuale e che tale “semplice” preposizione possa in realtà costituire l'ultimo ponte per tenere uniti in un rapporto sinallagmatico la promessa o dazione di utilità da parte del privato e l'esercizio delle funzioni dell'agente.

Tale soluzione emergerebbe in primo luogo da una lettura dei lavori preparatori, ove l'originaria locuzione “in relazione all'esercizio della funzione” è stata sostituita con la preposizione “per” proprio al fine di scongiurare “il rischio di applicare la fattispecie a comportamenti che nella realtà concreta non devono essere ricondotti al fenomeno della corruzione”. Inoltre la necessaria presenza di un legame sinallagmatico sarebbe imposta anche dal principio di offensività, in quanto solo le utilità conferite o promesse come corrispettivo di una – anche generica – futura attività funzionale possono essere idonee a determinare un pericolo per i beni del buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione.

Tuttavia, tale interpretazione restrittiva è stata esplicitamente rigettata da parte della giurisprudenza di legittimità. Infatti, si è affermato a più riprese che il nuovo reato, sostituendo all'atto dell'ufficio, oggetto di "retribuzione", il più generico collegamento dell'utilità all'esercizio delle funzioni, avrebbe configurato “una fattispecie di onnicomprensiva "monetizzazione" del munus pubblico, sganciata in sè da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo, pur nel contesto di un'interpretazione ragionevolmente estensiva, presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio” (Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 19189). A leggere tali affermazioni, dunque, sembrerebbe che la giurisprudenza abbia sfruttato gli ampi spazi aperti dall'indeterminatezza del dato legislativo per dar vita ad una fattispecie ove rientrino indistintamente tutte le ipotesi di ricezione di utilità indebite da parte di un pubblico agente, svicolandosi in questo modo dall'onere di accertare il pur attenuato legame sinallagmatico tra utilità e funzione.

La preposizione “per”: legame finalistico o causale

L'altra fondamentale questione connessa al significato da attribuire alla preposizione “per” è quella concernente il tipo di legame che attraverso di essa s'intende esprimere tra la prestazione del privato e la funzione svolta dal pubblico agente. La soluzione di tale questione ermeneutica ha infatti importanti riflessi sia sull'ambito di applicazione della fattispecie in esame, sia sulle vicende di diritto intertemporale.

Secondo la prima opzione ermeneutica la preposizione “per” andrebbe intesa in un'accezione finalistica, concependo l'utilità data o promessa dal privato come finalizzata ad orientare l'attività futura del pubblico agente. La fattispecie soggettiva del delitto di cui agli artt. 318 e 319 c.p. si caratterizzerebbe, quindi, per la presenza del dolo specifico consistente nella volontà di influenzare, attraverso la promessa o la dazione di utilità, il futuro esercizio della funzione da parte del pubblico agente. Gli effetti di tale soluzione consisterebbero nella limitazione dell'ambito di applicazione della nuova fattispecie alle sole ipotesi di corruzione antecedente, in cui l'accordo illecito precede l'attività funzionale del pubblico ufficiale ed è finalizzato a influenzarla. In questo modo, inoltre, sul piano della successione di leggi nel tempo si produrrebbe l'effetto di abrogare la previgente ipotesi di corruzione impropria passiva susseguente, di cui all'art. 318, comma 2, c.p.

L'argomento più solido che depone nel senso di un'interpretazione finalistica della fattispecie è rappresentato, anche in questa ipotesi, da un'interpretazione teleologica, informata al rispetto del principio di offensività. Infatti, le ipotesi di corruzione susseguente, specialmente se impropria, risultano possedere un portata offensiva minima nei confronti del beni giuridici dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, tanto che da più parti nella dottrina si sono levate voci a sostegno di una abrogazione o di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di cui all'art. 318, comma 2, c.p.

Se, infatti, si intendesse la preposizione “per” in un'accezione causale, si determinerebbe l'effetto di estendere la punibilità anche al privato nei casi di corruzione attiva susseguente, prima penalmente irrilevanti, prevedendo per essi una pena decisamente sproporzionata.

Tuttavia, tale interpretazione non è stata accolta dalla dottrina maggioritaria (Dolcini–Viganò) e dalla giurisprudenza (Cass. pen., Sez. VI, 23 gennaio 2014, n. 10889; Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226) che hanno ritenuto che la preposizione “per” possa intendersi sia in una accezione finalistica sia in un'accezione causale, estendendo così l'ambito di applicazione della norma anche alle ipotesi di corruzione susseguente.

In tal modo, sul piano del diritto intertemporale, non solo non si verificherebbe alcuna abolitio criminis rispetto al delitto di cui al precedente art. 318, comma 2, c.p. ma si sarebbe altresì in presenza di una nuova incriminazione per le ipotesi corruzione impropria attiva susseguente prima escluse dall'area di tipicità. Infatti, nel caso di attrazione delle ipotesi di corruzione susseguente nell'unico comma del nuovo art. 318 c.p., opererebbe anche rispetto a queste il rinvio effettuato dall'art. 321, che disciplina il versante attivo delle fattispecie di corruzione.

L'oggetto dello scambio: i concetti di funzione e di poteri

Rientrerebbero nel concetto di esercizio di funzioni sia le ipotesi in cui l'accordo illecito abbia ad oggetto un atto o una serie di atti, anche determinati o determinabili, conformi ai doveri d'ufficio, sia quelle di asservimento dell'intera funzione, sia, infine, le ipotesi di pagamenti a futura memoria diretti ad assicurarsi la benevolenza del pubblico ufficiale per quando questa potrà tornare utile. Al riguardo, occorre notare come l'ipotesi della c.d. messa a libro paga del pubblico agente, secondo la giurisprudenza precedente, rientrasse nell'ambito di applicazione della corruzione propria, in quanto si riteneva che l'asservimento della funzione, indipendentemente dalla conformità o difformità dai doveri d'ufficio dei singoli atti, rappresentasse di per sé una violazione dei canoni di fedeltà e imparzialità sufficiente a determinare la contrarietà ai doveri d'ufficio dell'intero servizio svolto. Pertanto, il legislatore, attraverso la nuova fattispecie di cui all'art. 318 c.p., avrebbe realizzato una “sorta di interpretazione autentica”, riqualificando sotto la fattispecie di corruzione per l'esercizio della funzione le ipotesi di corruzione per asservimento, prima analogicamente ricondotte nell'ambito applicativo di cui all'art. 319 c.p.

Tuttavia, proprio la “riqualificazione” delle ipotesi di corruzione per asservimento nell'ambito dell'art. 318 c.p., con il conseguente assoggettamento ad un regime sanzionatorio più mite rispetto a quello previsto per la corruzione propria, ha suscitato le critiche di parte della dottrina, che ha ritenuto irragionevole l'assetto risultante dalla riforma, in quanto “piegare una funzione o un servizio alla realizzazione di un interesse privato è ontologicamente più grave che piegare a quell'interesse un atto” (Ielo; Gambardella).

Proprio l'asserita irragionevolezza della nuova disciplina ha spinto la Corte di cassazione, in alcune recenti pronunce, ad adottare soluzioni che in sostanza vanificano l'intervento legislativo e perseverano nel qualificare la c.d. corruzione per asservimento nell'ambito dell'art. 319 c.p. (Cass. pen., Sez. VI, 28 febbraio 2014, n. 9883; Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2013, n. 41898). Infatti, in tali sentenze, la Corte ha affermato che appare almeno “discutibile che la fattispecie o categoria criminosa dell'asservimento dell'intera funzione (pubblico ufficiale corrotto posto a c.d. libro paga del privato corruttore), disegnata dall'evoluzione giurisprudenziale e pacificamente sussunta nell'ipotesi di corruzione propria (antecedente o successiva) ex art. 319 c.p., possa o debba essere oggi ricondotta nella previsione del novellato art. 318 c.p. (prima intestato alla corruzione per un atto di ufficio), come apparirebbe ad una prima lettura”. Ciò in quanto, aderendo a tale tesi, “un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l'intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato” in relazione “ad atti contrari alla funzione non predefiniti o non specificamente individuabili ex post”, sarebbe irrazionalmente punito con una pena assai più mite di quella prevista per l'ipotesi in cui oggetto dell'accordo illecito sia un singolo atto determinato contrario ai doveri d'ufficio, “malgrado appaiano in tutta evidenza indiscutibili la ben maggiore offensività e il più elevato disvalore giuridico e sociale” della prima ipotesi. Se così interpretata, infatti, la disciplina si esporrebbe “a possibili rilievi in termini di graduazione dell'offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.)”. Pertanto, coerentemente con lo spirito della riforma, si ritiene che la non “immediata decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri possa assumere in concreto” consenta un'interpretazione in virtù della quale le ipotesi di corruzione per asservimento debbano continuare ad essere sussunte nel delitto di corruzione propria.

Nella decisione esaminata, a nostro avviso, si è andati persino oltre l'analogia in malam partem dei precedenti orientamenti giurisprudenziali, essendosi giunti ad un'interpretazione apertamente contra legem, che disapplica una norma incriminatrice più favorevole in ragione di un asserito contrasto della stessa con i principi di “graduazione dell'offensività, di ragionevolezza, e di proporzionalità della pena”. Peraltro, è agevole notare come, in sede di accertamento giudiziale, non possa reputarsi sufficiente il riferimento ad un evanescente e non meglio precisato “asservimento della funzione” per ritenere provato il requisito dell'atto contrario ai doveri d'ufficio che designa la tipicità del delitto di corruzione propria e che giustifica una pena così gravosa come quella per esso comminata (reclusione da sei a dieci anni, a seguito dell'ultima novella l. 69/2015). Occorrerebbe dimostrare, infatti, che l'asservimento sia specificamente rivolto al compimento ad atti contrari ai doveri di ufficio, ancorché non specificamente determinati ex ante.

Tale soluzione è stata peraltro smentita da una sentenza di poco successiva, ove si è affermato che i fatti “caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, finora sussunti – alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale sopra richiamato – nella fattispecie prevista dall'art. 319 c.p., devono ora, dopo l'entrata in vigore della l. 190/2012, essere ricondotti nella previsione del novellato art. 318 c.p., sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio” (Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226). Pertanto, alla luce di tale orientamento giurisprudenziale “l'asservimento della funzione” dovrà essere ricondotto nell'ambito applicativo di cui all'art. 318 c.p. sempre che esso non si sia concretizzato nell'accordo per l'adozione di uno o più atti, specificamente individuati, contrari ai doveri d'ufficio, nel qual caso troverà applicazione, in forza del principio di specialità, la fattispecie di cui all'art. 319 c.p. Peraltro, nella decisione in questione si fa esplicito riferimento all'orientamento precedentemente citato, osservandosi correttamente come tale soluzione non conduca affatto ad esiti irragionevoli sul piano sanzionatorio, in quanto, mentre nell'ipotesi di cui all'art. 318 c.p. “la dazione indebita, condizionando la fedeltà e imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altr[a] la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa”.

Vicende di diritto intertemporale

Un tema strettamente connesso alle questioni appena esaminate riguarda le problematiche di diritto intertemporale ingenerate dall'intervento legislativo. In particolare, il problema successorio si pone sia in relazione ai fatti precedentemente descritti nella fattispecie di cui all'art. 318 c.p., sia rispetto alle ipotesi che, anche alla luce dei citati orientamenti giurisprudenziali, erano sussumibili nell'ambito dell'art. 319 c.p.

Quanto alla prima questione, non vi è dubbio nell'affermare la continuità normativa, con conseguente applicazione dell'art. 2, comma 4, c.p., per i fatti descritti nella fattispecie di corruzione impropria antecedente, attiva e passiva, stante il carattere generale della nuova fattispecie rispetto a quella previgente.

Maggiormente problematica appare la soluzione del problema relativo alla corruzione impropria susseguente. Se, infatti, si intende il legame tra utilità ed esercizio della funzione in un'accezione finalistica, allora attraverso la modifica normativa si sarebbe realizzata una abolitio criminis delle ipotesi di corruzione impropria attiva susseguente. Se invece si sposa l'orientamento maggioritario, che intende il nesso tra prestazione del privato e l'esercizio delle funzioni da parte dell'agente in un'accezione sia finalistica sia causale, allora non solo dovrebbe affermarsi il verificarsi di un fenomeno successorio anche per l'ipotesi precedentemente delineata dall'art. 318, comma 2 c.p. ma si sarebbe anche in presenza di una nuova incriminazione che estenderebbe la rilevanza penale anche alle ipotesi di corruzione attiva susseguente per atto conforme ai doveri d'ufficio, precedentemente escluse dall'area di tipicità.

Ben più complessa invece è la questione relativa all'eventuale prodursi di un fenomeno successorio tra il riformato art. 318 e l'art. 319 c.p. che, come si è detto, non ha subito modifiche nel precetto ma solo un sensibile aumento delle sanzioni. Se non vi sono dubbi sul fatto che le ipotesi di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio, nelle ipotesi in cui tale atto sia specificamente individuato, continueranno ad essere disciplinate dall'art. 319 c.p., con l'applicazione della precedente disciplina più favorevole, il problema si pone invece per le multiformi tipologie di accordi corruttivi che, pur in assenza dell'individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio oggetto dell'accordo, venivano sussunti nella fattispecie di corruzione propria attraverso la creazione giurisprudenziale delle figure della corruzione per asservimento o della messa a libro paga del pubblico agente. Al riguardo, in dottrina si è affermato che tutte “le ipotesi cripto-analogiche prima stipate nell'art. 319 c.p. (iscrizioni a libro paga, dazioni a futura e benevolente memoria, attività conformi a diritto ma sviate a fini privatistici, etc.), continuano a dover essere punite, ma con la più mite pena prevista dal novum” di cui all'attuale art. 318 c.p., che prevede una pena nel minimo inferiore a quella precedentemente prevista dall'art. 319 c.p. (Valentini). In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza affermando, in particolare, che nelle ipotesi di “asservimento della funzione”, l'art. 318 “elevando a fatto tipico uno dei tanti fenomeni di corruzione propria prima compresi nell'art. 319 c.p., ha assunto — rispetto ai fatti commessi ante riforma — il ruolo di norma speciale destinata a succedere nel tempo a quella generale, perché la pena comminata dall'art. 318, è, nel minimo edittale (un anno di reclusione, anziché due), più favorevole al reo” (Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226).

Tuttavia, a ben vedere, l'affermazione secondo cui l'art. 318 c.p. sarebbe norma speciale rispetto alla fattispecie descritta all'art. 319 c.p. e che per tale ragione sarebbe destinata a succedere a quest'ultima appare in aperta contraddizione con quanto sostenuto dalla dottrina maggioritaria, e ribadito dalla stessa sentenza in esame, secondo cui sarebbe la corruzione per l'esercizio della funzione a rappresentare la fattispecie generale, mentre il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio presenta dei caratteri di “specialità per specificazione” rispetto all'articolo precedente. Accade dunque che, mentre da un punto di vista sincronico si riconosce l'evidente carattere di norma generale dell'art. 318 c.p., da un punto di vista diacronico, pur rimanendo la struttura precettiva delle fattispecie invariata, il rapporto si rovescia e l'art. 318 c.p. diviene norma speciale rispetto all'art. 319 c.p., questa volta però letto nella conformazione assunta nel “diritto vivente”.

Tale conclusione appare logicamente contraddittoria: il rapporto di specialità tra due fattispecie incriminatrici attiene ai rapporti strutturali tra fattispecie astratte e non può mutare a seconda della prospettiva, diacronica o sincronica, da cui viene guardato. Affermare, dunque, che la fattispecie di corruzione per l'esercizio della funzione sia norma speciale rispetto alla fattispecie tipica (invariata nel tempo) di cui all'art. 319 è inequivocabilmente falso, in quanto il concetto di funzione è concetto generale rispetto a quello di atto d'ufficio (di cui l'atto contrario ai doveri d'ufficio rappresenta un'ulteriore sottospecie).

Se dunque è vero che la fattispecie di cui all'art. 318 c.p. è norma generale rispetto a quella di cui all'art. 319 c.p., che non ha subito modifiche e continua ad essere vigente, a nostro avviso appare logicamente impossibile, adottando il criterio dei rapporti strutturali tra norme, affermare il verificarsi di un fenomeno successorio. Infatti, si affermerebbe la successione tra una norma speciale non abrogata ed una norma generale successivamente introdotta.

Per chiarire l'impossibilità di tale successione può ricorrersi ad un esempio poco realistico ma in grado di esprimere con chiarezza i termini del problema.

Esempio

Si immagini che in un ipotetico sovvertimento del regime democratico il legislatore scelga di incriminare l'associazione tra più persone in sé considerata, indipendentemente dal fine perseguito, lasciando sopravvivere come ipotesi più grave l'associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p. In tale situazione è certamente da escludere che possa verificarsi un fenomeno successorio tra le due ipotesi, con conseguente rifluire di condotte ricomprese nell'associazione a delinquere sotto la fattispecie di associazione “semplice”. Ciò perché non è possibile alcun fenomeno successorio tra una norma speciale non modificata né abrogata e una norma generale di nuova introduzione.

In conclusione

Affermare la continuità normativa tra l'art. 319 e l'art. 318 c.p. per le ipotesi di corruzione per asservimento della funzione, ad avviso di chi scrive, non solo equivale a perpetuare, legittimandoli, precedenti casi di applicazione analogica ma comporterebbe anche un'applicazione scorretta e logicamente fallace del criterio dei rapporti strutturali tra norme, che devono guidare la soluzione dei problemi di diritto intertemporale in materia penale (Cass. pen., Sez. un., 16 giugno 2009; Cass. pen., Sez. un., 28 febbraio 2008; Cass. pen., Sez. un., 16 gennaio 2008). Piuttosto, in contrasto con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, dovrebbe ritenersi che la corruzione per l'esercizio della funzione, nella parte in cui estende la tipicità alle ipotesi di corruzione “per asservimento”, sia una nuova incriminazione, come tale non applicabile a fatti pregressi.

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