Tra scienza e diritto: il metodo scientifico nel processo penale

Cataldo Intrieri
30 Gennaio 2017

Quando si pensa alla scienza nel processo l'accostamento più ovvio è quello con la prova scientifica. Un riflesso istintivo e rivelatore: la scienza come grande facilitatrice dell'esito processuale. Questa illusione si è sviluppata nel corso di tempo e sulla scia della famosa sentenza della Corte federale americana Daubert vs Dow Chemical del 1993.

Quando si pensa alla scienza nel processo l'accostamento più ovvio è quello con la prova scientifica. Un riflesso istintivo e rivelatore: la scienza come grande facilitatrice dell'esito processuale. Questa illusione si è sviluppata nel corso di tempo e sulla scia della famosa sentenza della Corte federale americana Daubert vs Dow Chemical del 1993.

Da allora le prove scientifiche, prima centellinate e tipicizzate in poche, determinate espressioni (dattiloscopica, merceologica, grafologica ) hanno addirittura dilagato.

Alcune si sono rivelate decisive ed addirittura rivoluzionarie, come il DNA fino ad assumere un ruolo di indiscussa predominanza nel processo

La vicenda legata all'omicidio di Yara Gambirasio probabilmente segna un punto di non ritorno: la rilevazione genetica oscura ogni altro elemento indiziante. Non esiste neanche la prova che l'imputato avesse mai conosciuto o addirittura visto la sua vittima ma una macchia sugli indumenti ha assorbito ogni considerazione, argomentazione, confutazione dialettica. La voce della scienza tacita tutte le altre.

Non è finita: una nuova avanzatissima quanto invasiva tecnologia appare sul proscenio nella espressione estrema del captatore informatico. L'efficacia è devastante: il software si insinua nei computer e nei devices mobili di ultima generazione, parassitariamente penetra nei più remoti recessi dell'apparecchio, “succhia “ corrispondenza, messaggi ed addirittura come se non bastasse funziona da microfono a cielo aperto in tutti gli ambienti in cui l'intercettato si muove, senza il la barriera di alcuna intimità. Tempo verrà che il virus (perché tale è) potrà propalarsi da un terminale all'altro contagiando epidemicamente anche coloro che venissero in contatto col portatore.

La funerea previsione di Orwell ad un passo.

Ed è vicinissima tramite il ricorso a statistiche ed algoritmi pure la sinistra previsione di Philip K. Dick in Total Recall per cui già oggi è “ragionevolmente” prevedibile la consumazione imminente di un reato.

Sembra lontanissimo il 2002, anno in cui le Sezioni unite con la famosa sentenza Franzese fissarono le tavole dell'argomentazione scientifico-giuridica. Il confine veniva tracciato in modo netto: la scienza è un mezzo come un altro, interfungibile pure con le massime di comune esperienza e comunque gerarchicamente sottoposto alla eccellenza dialettica della confutazione contro-fattuale.

L'assunto era che anche il calcolo probabilistico più accurato non poteva sostituire il ragionamento induttivo-indiziario: la macchina finisce là dove inizia la mente umana.

Oggi è arrivata la prova totalitaria. Le tecniche assorbono nella loro avanzata ed invasiva perfezione ogni possibile contraria confutazione.

Cosa si può obiettare? Quale spazio resta alla ragione umana per controbattere? E del resto già si aggiunge la prossima utopia finale: la riproduzione delle sinapsi umane in una macchina.

L'epistemologo Charles Percy Snow appena pochi decenni fa parlava ancora di “due culture” e sognava di arrivare ad un unico canone che le fondesse.

Oggi il timore è che la regola scientifica spazzi via l'ermeneutica ed ogni necessità di rifarsi alla logica umana.

Può un giurista ragionare come uno studioso di scienze? O forse “deve”?

Conoscere le regole di interpretazione del metodo scientifico è altrettanto importante quanto la padronanza di un'adeguata cultura giuridica. Forse di più.

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