Perché il giudice non può e perché non deve porre domande suggestive

Valerio Vancheri
03 Agosto 2016

Il diritto va purtroppo sempre più perdendo il suo valore etico e filosofico, a vantaggio di una connotazione tecnicistica. Donde la necessità di tornare a porsi un antico problema: l'Autorità non costituisce, né si sostituisce alla Verità, dovendo i due ambiti rimanere rigorosamente separati. All'Autorità si riconduce la norma, prima ancora che la sua applicazione. Alla Verità si lega il diritto. A chi, dunque, afferma che la Legge – e quindi l'Autorità – si fonda su di un “giusto”, occorre obiettare che essa, piuttosto, si fonda su di un “certo”, cui si riconducono le cangianti esigenze del contingente storico.
Abstract

Il diritto va purtroppo sempre più perdendo il suo valore etico e filosofico, a vantaggio di una connotazione tecnicistica. Donde la necessità di tornare a porsi un antico problema: l'Autorità non costituisce, né si sostituisce alla Verità, dovendo i due ambiti rimanere rigorosamente separati.

All'Autorità si riconduce la norma, prima ancora che la sua applicazione. Alla Verità si lega il diritto.

A chi, dunque, afferma che la Legge – e quindi l'Autorità – si fonda su di un “giusto”, occorre obiettare che essa, piuttosto, si fonda su di un “certo”, cui si riconducono le cangianti esigenze del contingente storico.

Il singolo uomo – come singolo o come appartenente ad una comunità – partecipa alla gestione del “certo”, in armonia e collaborazione col “giusto”. Enunciato, questo (per dirla con GERMANO BELLUSSI), da collocare anche in ambito processuale, laddove il rapporto tra il giudice e le parti richiama quello tra Autorità e Verità.

Il valore Costituzionale del principio del contraddittorio

La modifica dell'art. 111 della Costituzione, con la legge attuativa 63 del 1 marzo 2001 (c.d. legge sul giusto processo) hanno sancito un cardine di fondamentale modernità e cultura giuridica: il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova.

Contraddittorio inteso come metodo di conoscenza dialettica, fulcro di un processo di parti “tendenzialmente” uguali, nel quale la prova non può che scaturire dal contributo, dalla partecipazione dei contraddittori, nei cui confronti la prova medesima deve essere fatta valere.

Principio il cui contraltare negativo è costituito dalla cancellazione di ogni valore probatorio di qualsiasi elemento acquisito con metodo diverso da quello dialettico, a meno che – secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale (sent. n. 361/1998) – non si tratti di prova a discarico dell'imputato, per la quale non vi sono preclusioni sulla utilizzabilità delle dichiarazioni a favore.

Le domande del giudice

L'ordine col quale è consentito alle parti di esaminare i testi è notoriamente indicato all'art. 498 c.p.p., mentre il successivo art. 499 c.p.p. detta le regole sulla formulazione e sul contenuto delle domande. Solo all'art. 506 c.p.p., il Legislatore ha previsto che è consentito al giudice, dopo che le parti abbiano terminato esame e controesame, di: a) indicare alle parti temi di prova rimasti oscuri nel corso dell'esame incrociato, ma utili per la decisione (art. 506, comma 1, c.p.p.); b) procedere direttamente ad interrogare i testi, fatto salvo il diritto delle parti, comunque, di concludere l'esame, secondo l'ordine indicato (art. 506, comma 2, c.p.p.).

Come ha opportunamente sottolineato Giorgio Spangher, l'errore che viene comunemente commesso nelle aule giudiziarie è quello di leggere le norme dettate dal codice di rito sull'esame incrociato – evidentemente concepite secondo una cadenza logica e cronologica ben chiara – nell'ordine inverso, ovvero partendo spesso dal secondo comma dell'art. 506 c.p.p., con un giudice che, per probabile retaggio di una cultura inquisitoria, pensa di bypassare il contraddittorio, forte di una propria idea sul capo di imputazione, per andare alla ricerca degli elementi a conferma della stessa.

Leggendo, viceversa, il codice secondo l'ordine stabilito dal Legislatore, ci si rende conto che v'è stata, ci piaccia o no, una scelta di fondo in ottica epistemologica: la prova scaturente dal contraddittorio tra le parti è il metodo attualmente più efficace, per la ricerca di una verità processuale accettabile.

Nel processo penale non c'è una verità precostituita, della quale il giudice è custode sacerdotale ma una verità da costruire, della quale le parti sono gli artefici, nel rispetto delle regole, a beneficio del giudice.

Un giudice che si sottrae a questo assunto priva se stesso, oltre che il processo e le parti (persino la persona offesa), del miglior livello di giudizio: in senso scientifico, oltre che costituzionale e giuridico.

In definitiva, chi è chiamato a giudicare deve essere non solo consapevole ma ancor più portatore di un valore irrinunciabile: non sono la propria sensibilità, il buon senso e la cultura giuridica del singolo giudicante la tutela e la garanzia del giusto processo ma la sua consapevolezza delle regole e dei principi che le sottendono.

È, inoltre, un errore di metodo e di approccio al problema ritenere di astrarre la regola dalla norma giuridica. Questa, infatti, è ispirata da una esigenza superiore, dalla quale la prassi applicativa non può prescindere e non può discostarsi. L'interprete, quindi, vada alla ratio, alla fonte che generò la norma, piuttosto che fermarsi alla norma medesima.

Il fondamento di una buona prassi applicativa non va cercata nella norma ma nel principio che la sottende.

Prima di chiederci se il giudice possa o meno e quando formulare domande suggestive; e prima di risolvere (maldestramente) il quesito attraverso una lettura superficiale del singolo articolo del codice di rito, dovremmo dunque chiederci: cos'è la suggestione? Cos'è la suggestionabilità? E cosa si intende per domanda suggestiva? Quando ed a chi è vietata e perché?

La suggestionabilità

Le suggestioni possono avere un grande effetto sull'attendibilità dei ricordi. Allo stesso modo, le pratiche suggestive finiscono inevitabilmente per incidere sulla genuinità di una testimonianza.

Il codice del 1989 pone il divieto, all'art. 499, comma 3, c.p.p. di proporre domande che tendano suggerire la risposta. Il Legislatore ha ritenuto, in sede dibattimentale (ma enormi sono le disfunzioni della mancanza del divieto in sede di indagine), di impedire che il teste, attraverso tecniche di interrogatorio che inducono, condizionano e suggeriscono la risposta, non sia libero di dare il proprio apporto conoscitivo genuino al processo.

La suggestionabilità è la tendenza ad incorporare nel ricordo l'informazione acquisita attraverso altri mezzi o persone, diverse dalla diretta percezione dell'evento; con conseguente alterazione dell'evento stesso.

Per dirla con TONI FORZA, le domande tendenziose possono indurre un testimone a fare un errato riconoscimento, a ricordare fatti o persone in modo diverso dalla realtà. chiedere ad un teste: “Cosa ha visto?”, non è la stessa cosa dal chiedergli: “Ha visto una macchina?”, né dal chiedere: “Ha visto la macchina?”; né ancora dal chiedere: “Ha visto la macchina rossa?”.

Approfonditi studi di psicologia forense dimostrano che la domanda suggestiva, o quella tendenziosa alterano il ricordo e la ricostruzione dei fatti nella risposta, persino anche quando il teste si renda conto che l'interrogante sta cercando di orientare le sue risposte.

Si è constatato, inoltre, che anche il contesto e l'autorità dell'interrogante influiscono in modo determinante sulla genuinità della risposta, inducendo la persona sottoposta ad esame a compiacere chi lo interroga, sino al punto da ammettere ciò che non è nel suo ricordo o nella sua volontà. Una vulnerabilità psicologica che non colpisce solo i soggetti deboli o i portatori di disagi mentali ma apprezzabilmente qualsiasi cittadino, persino di elevata cultura.

La suggestionabilità, intesa come tendenza a rispondere in ottemperanza all'informazione indotta dalla domanda; la remissività, intesa come la tendenza a rispondere in modo affermativo, a prescindere dal contenuto della domanda; l'accondiscendenza, intesa come disponibilità dell'interrogato ad allinearsi alle affermazioni, alle richieste ed alle istruzioni dell'esaminatore, sono fallacie delle quali bisogna avere conoscenza, dimestichezza, padronanza. Non solo nel saperle riconoscere ma anche per non esserne strumento o veicolo.

Il ragionamento a prosteriori

Nel film del 1959 di Otto Premingher, Anatomia di un omicidio, dopo che il giudice, accogliendo una obiezione del procuratore, aveva invitato la giuria a non tener conto di un dato emerso durante l'esame di un testimone, l'imputato Ben Gazzara chiede all'avvocato James Stuart: “Come può la giuria non tener conto di ciò che ha sentito?”, sentendosi rispondere dall'avvocato: “Non può… non può…”.

Il nostro cervello è strutturato in modo tale che, per adattarsi alle situazioni, l'informazione comunque assunta tende ad incastrarsi con il ricordo. Allo stesso modo, i pregiudizi, le convinzioni, gli stereotipi, le euristiche.

Ai giuristi compete il rendersi conto che i ricordi risentono delle convinzioni, dei sentimenti, dei limiti del testimone e che tutto questo finisce per distorcere i ricordi.

L'umanità del giudice è data anche dal fatto che nemmeno a lui è consentito sfuggire a queste semplici condizioni. La differenza sta nella consapevolezza. Una buona cultura giuridica, accompagnata dal senso di responsabilità del ruolo, consentono quanto meno di conoscere la delicatezza del terreno su cui si muove la testimonianza.

Il ragionamento a priori. Il ragionamento “a tunnel”

Allo stesso modo, quanto mai improvvido è il giudice che, confidando sul proprio buon senso e sulla propria esperienza, si induca a condurre un proprio “controesame” del teste, seguendo la sua visione del processo e le sue valutazioni del capo d'imputazione. Insomma, un giudice che agisca secondo la logica del “ci penso io!”.

Quello è il caso in cui provatamente si cade nella fallacia del ragionamento a priori, che induce l'inquirente (termine non utilizzato casualmente) a ricercare nella sua indagine solo le conferme alla propria idea preconcetta, fino a scartare e non considerare sia gli elementi, che le ipotesi – con le loro probabilità – che neghino quell'idea.

Le tendenze sistematiche fin qui illustrate sono alla base della cosiddetta visione a tunnel (Findley, Scott, 2006) a cui tutti siamo soggetti e che induce i protagonisti del sistema di giustizia penale a focalizzarsi su di un sospetto, selezionare e filtrare le prove che porteranno ad una condanna, ignorando o svalutando le prove che allontanano dalla colpevolezza. La visione a tunnel è stata correttamente definita come il compendio di tutte le distorsioni cognitive e delle fallacie logiche (Martin, 2002).

Insomma: la negazione del metodo popperiano, fonte ispiratrice dei criteri epistemologici della prova del processo penale.

Le domande vietate

Le domande che tendono a suggerire la risposta sono vietate alla parte che ha chiesto l'esame del teste, nonché alle parti che abbiano un interesse parallelo o comune. Esse risultano, viceversa, consentite a chi opera in controesame, al fine di vagliare l'attendibilità del teste. Al divieto si accompagna il potere del giudice, dettato dall'art. 499 comma 6, c.p.p. di vigilare sulla lealtà dell'esame. Si tratta con evidenza di una norma volta a garantire il rispetto delle regole e dei divieti e che mira a reprimere gli abusi. E ciò non per un fair play di tipo agonistico tra le parti ma per la garanzia del miglior giudizio possibile da parte del decidente. Tant'è che, quando il divieto viene aggirato, la conseguenza non può che essere la inutilizzabilità della risposta; singola, se astraibile, o dell'intera testimonianza, se si accerta che la suggestione ha inficiato l'attendibilità di tutta la deposizione.

Dunque, se compete al giudice di vigilare sul rispetto del buon agire processuale, specificamente in ordine alle regole di assunzione della prova testimoniale; e se queste norme a tutela della genuinità della testimonianza tendono a garantire una qualità di giudizio superiore, perché mai una simile prudenza dovrebbe essere esclusa per le domande del giudice?

In realtà, come è stato affermato da autorevole fonte (FERRUA), è la disciplina dettata dall'art. 499 c.p.p. ad essere infelice. Se il divieto di porre domande suggestive rivolto alla sola parte che ha chiesto l'ammissione del teste va inteso come un'eccezione a fronte di una generale ammissibilità di tali domande, esso deve rimanere circoscritto al solo esame diretto ed il giudice ne sarebbe esente. Se, invece, si interpreta il divieto di domande suggestive nell'esame diretto come esemplificazione di un più generale principio, volto a tutelare la genuinità della testimonianza, il divieto va senz'altro esteso al giudice. Ma con il possibile risultato che l'interprete ritenga di estenderlo anche al controesame (Cass. pen.18 gennaio 2012, in Giust. Pen., 1012, III, 321). Si tratta di due letture errate dei principi che sottendono alla norma.

Il divieto di porre domande suggestive poggia sull'esigenza di tutelare la genuinità delle risposte; e va applicato in ogni contesto processuale, a meno che non vi sia una ragione per derogarvi. A differenza di quanto affermato da certa giurisprudenza (Cass. pen., 13 febbraio 2008, n. 239966), non è il rapporto di simpatia tra interrogante e teste che giustifica il divieto – in via di eccezione – nell'esame diretto; al contrario, è il rapporto di ostilità tra teste e controesaminatore che, in via di eccezione alla regola generale, giustifica la proponibilità delle domande suggestive, quale strumento efficace per smascherare l'inattendibilità, se non persino la falsità del teste.

La deroga non può valere, in quest'ottica, per l'esame condotto dal giudice che, proprio per la sua terzietà, non ha alcun rapporto di ostilità col teste, piuttosto che di simpatia. A fronte delle molteplici ragioni per non derogare al divieto, quindi, non ve n'è alcuna per derogarvi.

La conduzione dell'udienza

È del giudice la responsabilità nella conduzione dell'udienza, per il rispetto della legalità nell'istruttoria dibattimentale. La violazione delle regole, determinata dal carico d'udienza, dalla noncuranza o, anche nella migliore ipotesi, dalla fame di conoscenza del giudice, spesso determina un discostarsi dai principi e dalle norme sin qui delineati.

È impropria, oltre che inopportuna, l'ingerenza del giudice durante l'esame incrociato condotto dalle parti, di norma ispirato da adeguata preparazione, da un percorso logico e psicologico preordinato e tendente, attraverso un ordine ben preciso di domande e circostanze, a giungere ad un determinato risultato. Un giudice – fortunatamente di grande apertura, oltre che di cultura – al quale obiettai – sollevando vera e propria eccezione – che il suo intervento, a norma dell'art. 506 C.p.p., avrebbe potuto svolgersi solo all'esito dell'esame incrociato, senza scomporsi emise ordinanza di accoglimento dell'eccezione, riportandosi a quella decisione per il resto sin qui della sua carriera e facendomi l'onore di citare l'episodio in ogni convegno nel quale si è parlato delle regole dell'esame incrociato.

Com'è stato autorevolmente sostenuto, l'adattamento arbitrario delle regole al proprio pensiero, quand'anche egregio, costituisce un'anomalia che stride irrimediabilmente con l'armonia e la sacralità della giustizia (RANDAZZO).

La terzietà

Il giudice non è solo terzo ma tale deve anche apparire.

Da qui (anche da qui) l'esigenza che anch'egli si uniformi ai divieti. Un giudice che, sia pur inconsapevolmente, non si adegui a simili regole, lascerebbe trapelare un'aspettativa circa le risposte, che non si addice al suo ruolo. La terzietà non si concilia con una malcelata preferenza nelle risposte.

La ricerca in materia di psicologia forense dimostra che l'autorevolezza dell'interrogante influisce sulla suggestionabilità del dichiarante e la possibilità di inquinamento della deposizione può essere maggiore. È proprio questa la prospettiva cui tendere, per affermare i limiti in ordine alle domande del giudice. Come dice GUGLIELMO GULOTTA, a tutti gli avvocati è capitata la sgradevole esperienza del testimone che non voglia rispondere alla domanda del difensore, mentre risponde immediatamente alla stessa domanda, se gli viene posta dal Presidente del collegio.

La ratio dell'intera disciplina risiede nell'esigenza di evitare che si creino memorie indotte, con domande che ad arte suggeriscano, tendenziosamente conducano. Queste, al contrario, vanno ammesse solo nel controesame di parte, proprio perché utili a mettere alla prova l'attendibilità del teste e della sua versione.

D'accordo ancora con GULOTTA, diremo che le argomentazioni addotte dalla citata giurisprudenza derivano dal fatto che gli studi di diritto, purtroppo, non prevedono corsi di psicologia e psicolinguistica, che aiuterebbero a capire come una domanda possa inquinare una risposta, indipendentemente da qualsivoglia preliminare accordo.

In conclusione

La conduzione del processo penale è un misto di arte e tecnica; il giusto compendio tra cultura e rito; un rituale agonistico, nel quale le parti, date le regole, sin confrontano dinanzi al giudice terzo ed imparziale, al quale rimettono il risultato del loro impegno. Il giudice non è un terzo contendente, portatore di una verità propria ed altra ma colui che beneficia del contributo conoscitivo fornito dalle parti.

Al “governo” dell'udienza, per il puntuale rispetto delle regole, si accompagna, funzione ancor più importante, l'esercizio della giusta attenzione, volta al decidere. Come ha scritto MICHELE CONSIGLIO: Il corretto svolgersi di esame, controesame e riesame presuppone doti di competenza, attenzione e pazienza, nessuna delle quali deve far difetto.

Tutto ruota, come detto, attorno all'art. 499 c.p.p. ed alla sua corretta applicazione. Ma laddove il giudice non si identifichi nella disciplina della suddetta norma, volta letteralmente più alle parti, sia data la regola che nemmeno il giudice è sollevato dalla necessità (evitando di definirla regola, obbligo o divieto) di non porre domande suggestive.

Salvo casi straordinari, di soggetti adusi alla testimonianza in aula (si pensi agli ufficiali di P.G.), la maggioranza delle persone ha solo quel rapporto occasionale con l'udienza e con la deposizione e sconta un certo metus nei confronti di chi in aula amministra la Giustizia. Timore e rispetto che possono condurre il testimone, anche in assoluta buona fede, ad “accontentare” un giudice che lo esamina in modo suggestivo, fornendo risposte che, al di là del vero, sono in linea con quanto l'esaminatore vuol sentirsi dire. Così ponendosi a forte rischio la formazione della prova e, gioco forza, la correttezza della decisione. In palese contrasto con la finalità del processo, che è il bene primario cui le norme tendono.

Guida all'approfondimento

BELLUSSI, in De Cataldo Neuburger (a cura di), L'Operazione decisoria da emanazione divina alla prova scientifica, Padova, 2014, pag. 118;

CONSIGLIO, Giudice, Difensore e PM in aula – Strategie e tecniche del processo, Giuffrè 2010;

FERRUA, La Prova nel Processo Penale, Torino, 2015;

FORZA, La Psicologia nel processo penale, Giuffrè, 2010;

GULOTTA, Le 200 regole della cross-examination, Giuffrè, 2012;

RANDAZZO, Insidie e strategie dell'esame incrociato, Giuffrè, 2008.

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