Falsa testimonianza, falsa perizia e false dichiarazioni al P.M.

Francesca Perrotta
10 Novembre 2016

I delitti contro l'amministrazione della giustizia sono disciplinati nel Titolo III del secondo Libro del codice penale e si articolano in tre diversi capi: a) delitti contro l'attività giudiziaria (Capo I); b) delitti contro l'autorità delle decisioni giudiziarie (Capo II); c) tutela arbitraria delle private ragioni (Capo III). L'amministrazione della giustizia, quale oggetto di tutela, si atteggia come species del genus rappresentato dai beni superindividuali di natura funzionale: il Legislatore, infatti, al fine di assicurare ai cittadini l'ordinato svolgimento dell'attività giudiziaria, punisce quei comportamenti che risultano idonei ad offendere il bene giuridico in parola.
Inquadramento

I delitti contro l'amministrazione della giustizia sono disciplinati nel Titolo III del secondo Libro del codice penale e si articolano in tre diversi capi :

a) delitti contro l'attività giudiziaria (Capo I);

b) delitti contro l'autorità delle decisioni giudiziarie (Capo II);

c) tutela arbitraria delle private ragioni (Capo III).

L'amministrazione della giustizia, quale oggetto di tutela, si atteggia come species del genus rappresentato dai beni superindividuali di natura funzionale: il Legislatore, infatti, al fine di assicurare ai cittadini l'ordinato svolgimento dell'attività giudiziaria, punisce quei comportamenti che risultano idonei ad offendere il bene giuridico in parola.

La giurisprudenza (sia di merito, che di legittimità) e la dottrina qualificano l'amministrazione della giustizia come il potere dello Stato avente per oggetto il mantenimento, l'accertamento e l'attuazione del diritto (Cass. pen., Sez. VI, n. 34749/2008) e distinguono i reati che offendono l'amministrazione della giustizia intesa in senso oggettivo da quelli che, invece, pongono in pericolo l'amministrazione della giustizia intesa in senso soggettivo.

La prima categoria di reati fa riferimento all'attività tipica del potere giudiziario, che consiste nell'interpretazione e nell'applicazione della legge – generale e astratta – al caso concreto; ex adverso, la seconda categoria di reati offende il prestigio dei soggetti che sono investiti della funzione giurisdizionale.

Particolare rilevanza assume la tecnica legislativa di tutela dei reati de quibus. Sul punto, infatti, va precisato che i comportamenti che offendono l'amministrazione della giustizia (sia essa intesa in senso oggettivo, che soggettivo) si configurano come illeciti di pericolo. Questi si annoverano, insieme ai reati di danno, tra i reati di offesa con la differenza che, quanto ai reati di pericolo, basta che il bene tutelato sia solo minacciato e non già distrutto, diminuito o perduto.

Dall'esame delle figure criminose, non a caso, risulta – come dato costante – l'anticipazione della tutela e della soglia di punibilità operata dal Legislatore. All'uopo si osserva che, ai fini della punibilità, non è necessario l'accertamento di un effettivo pregiudizio all'attività giudiziaria, ma è sufficiente che il fatto concretamente posto in essere dall'agente sia potenzialmente idoneo a porre in pericolo l'esercizio della funzione giurisdizionale.

Va da sé, quindi, che il soggetto andrà esente da pena, per il venir meno della tipicità, tutte le volte in cui l'interprete valuti la condotta manifestamente inidonea a porre in pericolo l'attività giudiziaria.

False informazioni al P.M. (art. 371-bis c.p.)

L'art. 371-bis c.p. punisce con la reclusione fino a quattro anni chiunque, nel corso di un procedimento penale, richiesto dal pubblico ministero o dal procuratore della Corte penale internazionale di fornire informazioni ai fini delle indagini, rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito.

La figura criminis descritta dall'art. 371-bis c.p. è stata introdotta dall'art.11 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 1992, n. 356.

Essa rappresenta il punto di arrivo di un iter parlamentare piuttosto complesso. Infatti, il testo originario, tradizionalmente composto da un unico comma, è stato sottoposto più volte al vaglio del Legislatore che, con la l. 8 agosto 1995,n. 332, ha provveduto a ridurre la pena edittale e ad introdurre una causa ad hoc di sospensione del procedimento e, con la l. 7 dicembre 2000, n. 397, ha aggiunto un ulteriore comma in punto di indagini difensive.

Più in particolare, con la nuova disposizione, il Legislatore ha stabilito in capo all'informatore l'obbligo di dire la verità così da garantire la genuinità delle indagini preliminari.

Le ragioni della novella legislativa sono da ricercare nell'esigenza di porre rimedio alla lacuna derivante dalla mancata previsione di una sanzione penale per l'ipotesi in cui il soggetto, chiamato a collaborare con il P.M., anziché contribuire a che le indagini rivelino la verità processuale, ne altera il contenuto.

La disposizione di nuovo conio viene tecnicamente giustificata anche alla luce delle decisioni della giurisprudenza di legittimità che, più volte, aveva negato l'estensibilità della disciplina della falsa testimonianza alla condotta di coloro che, nella fase delle indagini preliminari, rendano false dichiarazioni ovvero tacciano quel che sanno al P.M.

Ciò in ragione del divieto tassativo di interpretazione analogica in malam partem vigente nel nostro sistema penale – misto e garantista – per le norme incriminatrici di parte speciale.

Tali considerazioni, unitamente alle preoccupazioni sia del Legislatore che della giurisprudenza legate all'inadeguatezza dell'impianto probatorio (disegnato dal nuovo codice di procedura penale) a fronteggiare l'universo dei sodalizi mafiosi, hanno rappresentato le rationes dell'incriminazione.

La condotta penalmente rilevante. Quanto alla struttura del reato in esame, è doveroso precisare che soggetto attivo del delitto di false informazioni all'organo requirente può essere soltanto colui al quale sia stato richiesto – personalmente dal P.M. – di fornire informazioni utili ai fini delle indagini, così come disposto dall'art. 362 c.p.p. (senza peraltro la necessità di una preventiva citazione a norma dell'art. 377 c.p.p.). Trattasi, dunque, di un reato proprio nonostante l'utilizzo da parte del Legislatore del chiunque.

In evidenza

Non è, quindi, punibile a norma dell'art. 371-bis c.p. chi, richiesto autonomamente dalla polizia giudiziaria ovvero su delega del P.M., renda dichiarazioni false o reticenti alla stessa polizia giudiziaria. In questi casi, infatti, stante la necessità di scongiurare interpretazioni di tipo analogico su norme penali incriminatrici, si ritiene configurabile il reato di favoreggiamento personale (previsto e punito dall'art. 378 c.p.) (Cass. pen., 24 ottobre 2003, n. 46796).

Un'analisi attenta della portata oggettiva della fattispecie induce a ritenere che il Legislatore, per far fronte all'esigenza di rispettare il principio di tassatività e di determinatezza, ha descritto in modo puntuale la condotta criminosa, precisando che quest'ultima consiste nel rendere dichiarazioni false ovvero nel tacere, in tutto o in parte, ciò che si sa intorno ai fatti sui quali si viene sentito.

Ebbene, dall'interpretazione letterale della norma di cui all'art. 371-bis c.p., emerge che l'elemento oggettivo della figura criminis in esameè modellato sulla falsariga dello statuto di tipicità del delitto di falsa testimonianza. Nell'ambito di questa fattispecie incriminatrice si prende, infatti, in considerazione sia una condotta attiva, costituita dalla falsa attestazione o dichiarazione; sia una condotta omissiva che è, invece, rappresentata dal rifiuto di rendere la dichiarazione ovvero dalla reticenza, e cioè dal tacere le informazioni di cui si è in possesso dopo aver accettato di rendere la dichiarazione richiesta.

Le informazioni rese al P.M. devono riguardare – secondo autorevole dottrina – contributi fattuali, percettivi e sensoriali che consentono allo stesso organo requirente di proseguire le indagini, continuando ad indagare sulla presunta colpevolezza del reo.

Come noto, infatti, il P.M. raccoglie le informazioni nel corso delle indagini preliminari con lo scopo immediato di formulare l'imputazione e, quindi, la domanda di rinvio a giudizio.

In evidenza

L'elemento materiale del delitto di false informazioni al P.M., come autorevolmente sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, si risolve quindi nella mera difformità tra quanto la persona dichiara e ciò che, invece, effettivamente conosce sui fatti in ordine ai quali è interrogata. Ne deriva come conseguenza che è del tutto irrilevante, ai fini della sussistenza del reato in esame, che le false dichiarazioni risultino successivamente ininfluenti ai fini dell'accertamento della verità dei fatti (Cass. pen., Sez. VI, n. 7358/2010).

Ciò in ragione della natura giuridica del delitto di false informazioni al P.M. che è, tipicamente, considerato un reato di pericolo. Il Legislatore, difatti, anticipa la soglia della punibilità attesa la particolare pregnanza del bene giuridico tutelato, che si identifica nel corretto svolgimento della funzione giudiziaria e nella veritiera risoluzione del caso sottoposto al vaglio del giudice. Tuttavia, giova sottolineare che, secondo una parte della dottrina, sarebbe da escludere la configurabilità dell'illecito in tutti quei casi in cui l'informazione, ancorché falsa e reticente, non sia in grado di influenzare negativamente lo svolgimento delle indagini. Intesa in tali termini, la norma non contemplerebbe un reato di pericolo, bensì di danno. Ciò in quanto l'interprete dovrebbe valutare non solo la concreta lesività del comportamento posto in essere dall'agente, ma anche l'effettivo pregiudizio cagionato allo svolgimento delle indagini.

Il comma 2 dell'art. 371-bis c.p. – aggiunto con la l. 8 agosto 1995, n. 332 – prevede che ferma l'immediata procedibilità nel caso di rifiuto di informazioni, il procedimento penale, negli altri casi, resta sospeso fino a quando nel procedimento nel corso del quale sono state assunte le informazioni sia stata pronunciata sentenza di primo grado ovvero il procedimento sia stato anteriormente definito con archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere.

La ratio legis di questo intervento normativo va individuata nella volontà del Legislatore di proteggere la libertà di autodeterminazione del soggetto cui viene richiesto di rendere informazioni al P.M. Diversamente opinando, infatti, si sarebbe rischiato di sottoporre il dichiarante ad una forte pressione psicologica e tale da indurlo a rendere informazioni viziate, non corrispondenti al vero. Non a caso quest'intervento legislativo è stato salutato con favore sia dalla dottrina, che dalla giurisprudenza che ne hanno fin da subito evidenziato i risvolti positivi, specie in sede applicativa.

Tuttavia, la Corte di cassazione ha precisato che la disposizione di cui all'art. 371-bis, comma 2, c.p. è norma eccezionale e, in quanto tale, non suscettibile di applicazione analogica (Cass. pen., Sez. VI, n. 7358/2010). Per questi motivi, quindi, non potrà essere applicata al delitto di falsa testimonianza.

L'ipotesi di cui al comma 3 è stata, invece, inserita nel corpo della norma di cui all'art. 371-bis c.p. dalla l. 7 dicembre 2000, n. 397. Quest'ultima dispone che le disposizioni di cui ai commi primo e secondo si applicano, nell'ipotesi prevista dall'art. 391-bis, comma 10, c.p.p., anche quando le informazioni ai fini delle indagini sono richieste dal difensore”. La riforma si innesta nel solco tracciato dal Legislatore che ha inteso evitare che il soggetto, in grado di fornire notizie utili ai fini delle indagini, si rifiutasse di rispondere alle istanze del difensore. Questi, infatti, oggi – per espressa previsione normativa – acclarato il rifiuto opposto da colui a cui ha richiesto di collaborare alle indagini difensive, ben potrà richiedere al P.M. di intervenire in sua vece. Così ragionando si è, quindi, definitivamente colmata la lacuna legislativa e si offerta un'ulteriore garanzia ai cittadini che, fiduciosamente, confidano nella corretta amministrazione della giustizia.

Elemento soggettivo. Il dolo richiesto è generico. Ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo del reato de quo è, infatti, sufficiente la coscienza e la volontà di rendere dichiarazioni difformi dall'intimo convincimento sui fatti oggetto della dichiarazione resa (Cass. pen., Sez. VI, n. 34749/2008).

Momento consumativo e tentativo. Il momento consumativo del delitto di false informazioni al P.M. è comunemente individuato in quello in cui la dichiarazione mendace ha avuto termine, vale a dire quello in cui il P.M. ne ha preso atto, giudicandola definitiva.

Nell'ipotesi della reticenza, invece, il momento consumativo si identificherebbe con quello che coincide con la chiusura dell'esame del dichiarante.

Ci si è interrogati circa la configurabilità del delitto di false informazioni al P.M. nella forma tentata. Ebbene, sul punto, si è affermato che, essendo il reato in esame unissusstente (considerato che si perfeziona con un solo atto, mentre il tentativo richiede necessariamente un iter criminis frazionabile), non si dovrebbe punire l'agente in tutte le ipotesi in cui, questi, si limiti a porre in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco a cagionare il fatto penalmente rilevante (Cass. pen., Sez. VI, n. 7358/2010).

In evidenza

Dottrina e giurisprudenza concordano sull'applicabilità della causa di non punibilità di cui all'art. 376 c.p. al reato in esame. La ritrattazione, come noto, consiste in primo luogo nella smentita non equivoca di una precedente informazione resa al P.M. e, in secondo luogo, nella manifestazione della verità processuale. Ne deriva come conseguenza che, in tutte le ipotesi in cui il reo – nello stesso procedimento penale in cui ha reso dichiarazioni false ovvero ha taciuto in merito ai fatti sui quali è stato sentito – ritratta e manifesta il vero, non sarà punibile ai sensi dell'art. 376 c.p. (Cass. pen., Sez. VI, n. 5255/2000).

Orientamenti giurisprudenziali. La Corte di cassazione è intervenuta più volte sulla problematica relativa all'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 384 c.p. al delitto di false informazioni al P.M., definendo l'ambito di operatività della norma predetta.

Prima di approfondire quanto disposto dalla suprema Corte, sembra opportuno un riferimento alla natura giuridica della causa di non punibilità disciplinata dall'art. 384 c.p. e alle condizioni che ne legittimano la ricorrenza.

L'art. 384 c.p. è la norma che la dottrina più autorevole considera come referente generale del principio etico, prima che giuridico, nemo tenetur se detegere. Più in particolare, il brocardo latino esprime l'esigenza dell'ordinamento di autoconservazione tanto di se stessi, quanto di conservazione dei prossimi congiunti.

La norma contenuta nell'art. 384 c.p., in sostanza, prevede un'ipotesi speciale dello stato di necessità regolata con una norma che deroga a quella generale dell'art. 54 c.p. posto che, a differenza della causa di giustificazione da ultimo citata, è applicabile anche se il pericolo sia stato volontariamente causato dal soggetto passivo e possa essere altrimenti evitato. Essa presuppone – come condizione che ne legittima l'applicazione – lo stato di necessità, vale a dire una situazione di pericolo non determinata dal soggetto attivo del reato e strettamente collegata, da un lato, al bisogno di conservazione della libertà ovvero dell'onore; dall'altro alla tutela della solidarietà familiare. Va da sé che, in questi casi, l'interprete non potrà condannare l'agente sul presupposto che lo stato di necessità in cui agisce elimina dalla fattispecie tipica il carattere dell'antigiuridicità. Un limite tacito all'operatività della scriminante in parola si ha nel caso in cui l'agente stesso, colposamente, eccede dai limiti stabiliti dall'art. 55 c.p.

L'eccesso colposo (che può tanto dipendere dall'errore-motivo quanto dall'errore-inabilità, entrambi inescusabili), come noto, dà luogo a responsabilità colposa (punita secondo le regole dettate dal Legislatore in tema di colpa), sempre che il fatto sia previsto dalla legge anche come reato colposo. In base a tali considerazioni, quindi, il giudice potrà condannare il reo purché accerti - preventivamente - non solo l'esistenza di tutti i presupposti della scriminante in esame, ma anche il superamento dei limiti fissati all'uopo dal Legislatore.

Ciò posto, va evidenziato quanto statuito sul punto dalla giurisprudenza di legittimità. Secondo la Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. VI, n. 26583/2008), ricorre la causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p. per il reato di false dichiarazioni al P.M. qualora il soggetto che le abbia rese vi sia stato costretto dalla necessità di evitare di accusarsi implicitamente (per esempio, di favoreggiamento personale) o di accusare i suoi prossimi congiunti. La punibilità, ad avviso del supremo Collegio, è del pari esclusa tutte le volte in cui il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o non avrebbe potuto essere obbligato a deporre ovvero ancora avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni.

Rapporti con altri reati. Tra le principali questioni interpretative concernenti il delitto di false informazioni al P.M. vi è quella relativa ai rapporti con il reato di favoreggiamento personale di cui all'art. 378 c.p. In proposito, la giurisprudenza prevalente ha affermato che i reati de quibus si pongono tra loro in un rapporto di specialità unilaterale per specificazione. Infatti, nell'ipotesi in cui la condotta di favoreggiamento personale si realizzi mediante false o mendaci informazioni al P.M., l'interprete, venendosi a configurare un concorso apparente di norme, dovrà applicare solo l'art. 371 bis c.p. (che è norma speciale rispetto a quella generale di cui all'art. 378 c.p.), escludendo in nuce il concorso di reati (Cass. pen., 24 ottobre 2003, n. 46796).

Aspetti processuali. La competenza a giudicare delle false informazioni al P.M. è attribuita al tribunale monocratico, che può perseguire il crimine anche d'ufficio. È prevista finanche la citazione diretta a giudizio.

Falsa testimonianza (art. 372 c.p.)

L'art. 372 c.p. punisce con la reclusione da due a sei anni chiunque, deponendo come testimone innanzi all'Autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato.

La ratio legis, che ne giustifica l'inserimento nel corpus del codice penale, si rinviene nell'interesse legislativo a punire severamente la condotta di colui che pone in pericolo l'ordinato svolgimento dell'attività giudiziaria. Infatti, ai fini della configurabilità del reato in parola, non è necessaria l'elaborazione da parte dell'interprete di una sentenza ingiusta ma è sufficiente che il comportamento del reo si tale da minare la corretta amministrazione della giustizia. L'obiettivo che il Legislatore si propone di raggiungere consiste, dunque, nel garantire la veridicità e la completezza della testimonianza. In questo quadro, quindi, si giustifica l'innalzamento dei limiti edittali della pena, attesa la maggiore riprovevolezza del reato in esame rispetto a quelli di falso processuale ad esso contigui. Anzi, la disparità di trattamento rispetto ai reati succitati è stata salutata con favore dalla Consulta (Corte cost., 13 gennaio 2010, n. 47) che ha affermato – in proposito – che le fattispecie poste a confronto non hanno la stessa oggettività giuridica, posto che la falsa testimonianza assume nell'attuale panorama normativo e giurisprudenziale un ruolo di primaria importanza.

I soggetti del reato. Sebbene la disposizione esordisca con un chiunque la falsa testimonianza è un reato proprio. Il delitto in parola, infatti, può essere commesso soltanto da colui che, ai sensi dell'art. 194 c.p.p., assume l'ufficio di testimone innanzi all'autorità giudiziaria.

In evidenza

La giurisprudenza e la dottrina, tuttavia, concordano sulla estensibilità della qualifica di soggetto attivo del reato anche al querelante, al denunziante, alla persona offesa in ossequio al disposto di cui all'art. 199 c.p.p.(Cass. pen., Sez. VI, n. 5911/2012).

La falsa testimonianza deve essere resa dinanzi all'autorità giudiziaria, ai sensi dell'art. 372 c.p. La lettera della legge rinvia, infatti, all'ordinamento giudiziario. I destinatari, quindi, del delitto de quo sono i giudici civili, penali e amministrativi così come i giudici ordinari e speciali. Secondo autorevole dottrina non sono annoverabili nel genus dei destinatari del delitto di falsa testimonianza gli arbitri, seppur in principio si riconosceva tale qualifica agli arbitri obbligatori.

Immediato riflesso di questa ricostruzione è che il delitto di falsa testimonianza è escluso qualora il soggetto renda dichiarazioni alla polizia giudiziaria, attesa la diversità di ruoli tra quest'ultima e l'autorità giudiziaria.

Esulano dall'ambito di operatività della norma di cui all'art. 372 c.p. le ipotesi in cui è lo stesso Legislatore ad escludere la possibilità di testimoniare (come nei casi di incompatibilità, si pensi – a titolo esemplificativo – ai coimputati nel medesimo reato) o ad attribuire facoltà di scelta al soggetto a cui è richiesta la deposizione (così per i pubblici ufficiali e per gli incaricati di pubblico servizio).

Coerentemente con una tradizione legislativa piuttosto consolidata, il Legislatore ha circoscritto in modo rigoroso i limiti oggettivi della testimonianza ai fatti che costituiscono oggetto di prova. Tuttavia, allo scopo di valutare la credibilità del teste, l'esame può essere finanche esteso al c.d. oggetto indiretto del processo e cioè ai fatti indirettamente collegabili a quelli oggetto di imputazione.

Il delitto di falsa testimonianza è un reato contro l'amministrazione della giustizia e, pertanto, persona offesa dal reato va considerato innanzitutto lo Stato-collettività.

In evidenza

La giurisprudenza della Cassazione (sentenza n. 9085/2012) ha affermato che nei delitti contro l'amministrazione della giustizia, persona offesa dal reato è lo Stato, a cui può aggiungersi un'altra vittima, quando nella struttura della fattispecie astratta vi sia anche la descrizione dell'aggressione alla sfera giuridica di questa, la cui posizione viene così a differenziarsi da quella di qualsiasi ulteriore danneggiato. Ciò non avviene però nella falsa testimonianza di cui all'art. 372 c.p., che solo eventualmente può danneggiare le situazioni giuridiche di una serie indefinita di persone, non contemplate nella descrizione normativa.

La norma penale incriminatrice, secondo autorevole dottrina, protegge anche l'interesse del privato cittadino leso dalla falsa deposizione. Ne deriva come conseguenza logica che, qualora il P.M. intenda richiedere l'archiviazione, dovrà pertanto notificare l'avviso al privato che, vantando un interesse sul punto, sarà legittimato a proporre opposizione.

La condotta tipica. Il delitto di falsa testimonianza si atteggia quale species del genus rappresentato dai reati di pericolo. Ed infatti, ai fini della configurazione del reato in esame, non è necessario che l'interprete venga tratto in inganno, essendo piuttosto sufficiente che la falsa testimonianza sia astrattamente idonea ad alterare il processo di formazione della prova e, di conseguenza, ad indurre il giudice a pronunciare una sentenza ingiusta. La fattispecie delittuosa è tipicamente strutturata come reato di mera condotta e non già di un reato ad evento naturalistico.

Le forme di manifestazione del delitto di falsa testimonianza vengono descritte dallo stesso Legislatore. La condotta tipica del reato in parola può consistere:

a) nell'affermare il falso, cioè nel sostenere positivamente qualcosa che diverga dalla realtà ovvero nell'alterare la verità (si pensi, a titolo esemplificativo, all'ipotesi in cui il teste dichiari esistente un fatto che non si è mai verificato in rerum natura);

b) nel negare il vero, vale a dire nel confutare l'esistenza di un fatto realmente accaduto o percepito;

c) nella reticenza, in tutto o in parte, su ciò che si intorno ai fatti su cui si è interrogati. Quest'ultima ipotesi, che presuppone un contegno di tipo omissivo, si discosta da quella in cui il teste si rifiuta di rispondere, punibile ai sensi dell'art. 366 c.p.

Il suo disvalore risiede nel non dire qualcosa, pur in presenza di un obbligo che promana dall'assunzione della qualifica di teste. Ciò posto, è chiaro che spetta all'interprete delimitare l'ambito di operatività della disposizione in esame in modo da recuperarne la dimensione offensiva. Così opinando, la rilevanza della condotta reticente non potrà dunque prescindere da un giudizio circa la possibilità di trarre in inganno il giudice, che deve rendere giustizia al caso concreto sottoposto al suo vaglio. E perché potrà dirsi configurato il reato de quo, l'interrogatorio testimoniale dovrà essere condotto sulla base di domande piuttosto circostanziate. Fuori da queste ipotesi, infatti, il delitto sussisterà solo laddove si provi che la rilevanza del fatto taciuto sia di per se stessa palese ed obiettiva.

Ebbene, nelle prime due ipotesi succitate, la condotta è caratterizzata da un'azione illecita; nell'ultimo caso, invece, da un'omissione penalmente rilevante. Le condotte tipiche descritte dalla fattispecie incriminatrice di parte speciale sono equivalenti tra loro, pertanto, ai fini della configurabilità del delitto di falsa testimonianza, è sufficiente la realizzazione di una sola tra esse.

Dall'interpretazione sistematica della norma in esame si evince, secondo autorevole dottrina, che l'elemento materiale della falsa testimonianza consiste nella difformità tra quanto il teste depone e ciò che egli conosce realmente sui fatti in ordine ai quali viene interrogato. È stata, a tal uopo, elaborata la teoria del “vero soggettivo”, secondo cui si ha una testimonianza mendace quando il giudice ravvisa un contrasto tra quanto dichiarato e percepito. Non così, invece, per quanti affermano che la falsa testimonianza postula una divergenza tra il dichiarato e l'accaduto (c.d. teoria del “vero oggettivo”).

Va da sé che i fatti e le circostanze sui quali il teste rende la sua deposizione devono necessariamente risultare “pertinenti” rispetto all'accertamento giurisdizionale, svolto nel processo in cui viene raccolta la testimonianza, e devono “rilevare” ai fini della decisione. La rilevanza è funzionalmente collegata all'efficacia probatoria della testimonianza resa, potendo quest'ultima deviare l'interprete dall'autentica e genuina verità processuale. Ne consegue che il delitto di falsa testimonianza non sussiste qualora i fatti e le circostanze che costituiscono oggetto della deposizione siano ex ante irrilevanti ai fini della decisione. Tale assunto risulta ulteriormente avvalorato dalla natura giuridica del delitto in esame, che è un reato di pericolo e non di danno (Cass. pen., Sez. VI, n. 51032/2013).

In evidenza

Ai fini della configurabilità del delitto di falsa testimonianza, la valutazione sulla pertinenza (da intendersi come riferibilità o afferenza dell'oggetto della testimonianza ai fatti che il processo è destinato ad accertare) e sulla rilevanza (che riguarda l'efficacia probatoria dei fatti dichiarati) della deposizione va effettuata con riferimento alla situazione processuale esistente al momento in cui il reato è consumato, ossia ex ante e non ex post. (Nella specie, la suprema Corte ha affermato che detta valutazione va effettuata da parte del giudice sulla base di norme giuridiche e non anche mediante l'utilizzazione di massime di esperienza (Cass. pen., Sez. VI, n. 4299/2013).

Elemento soggettivo. Ai fini della configurabilità del delitto di falsa testimonianza, si richiede – per espressa previsione normativa – che il soggetto agisca con consapevolezza e volontà. L'integrazione della fattispecie incriminatrice in esame, infatti, non postula la sussistenza del dolo specifico (che ricorre quando la legge stessa esige che il soggetto agisca per un fine particolare che va oltre il fatto materiale tipico), essendo sufficiente il riscontro del dolo generico. L'agente, in altri termini, deve affermare il falso ovvero negare il vero con coscienza e volontà (Cass. pen., Sez. VI, n. 37482/2014).

Sul punto, particolare rilevanza assume l'accertamento della falsità della deposizione del teste. Spesso, infatti, la narrazione del fatto penalmente rilevante non corrisponde alla realtà fattuale a causa di percezioni erronee e dimenticanze. In questi casi la falsa conoscenza della realtà dovuta ad un errore sul fatto esclude il dolo (ex art. 47 c.p.). In base a tali considerazioni, dunque, sarà compito dell'interprete accertare la buona fede del soggetto sottoposto all'interrogatorio testimoniale e sottrarlo, se del caso, al trattamento sanzionatorio disposto dal Legislatore.

Momento consumativo e tentativo. Si è soliti identificare il momento consumativo del delitto di falsa testimonianza con quello in cui è viene resa dinanzi all'autorità giudiziaria la deposizione. Detto altrimenti, il reato si consuma quando il giudice percepisce la falsa testimonianza ovvero la falsa negazione. Il tentativo, trattandosi di un reato unisussistente, non è configurabile: mentre, infatti, il delitto di falsa testimonianza si perfeziona con il compimento di un unico atto, il tentativo postula un iter criminis frazionabile.

Un' ipotesi che ha suscitato un vivace dibattito giurisprudenziale è quella relativa al regime applicabile nel caso in cui l'agente ripeta la medesima testimonianza sullo stesso oggetto e nell'ambito di un unico procedimento. Sul punto, la Suprema Corte ha affermato che, nell'ipotesi in cui il soggetto reiteri – nell'ambito della medesima fase processuale – la falsa testimonianza, si avrà un solo reato che si viene a perfezionare con il compimento del primo atto illecito (la replica del mendacio ben potrà essere considerata un post factum non punibile); al contrario, nel caso in cui la condotta venga ripetuta in diverse fasi del processo e - quindi - dinanzi a diversi organi giudicanti, potrà dirsi configurato un concorso di reati (Cass. pen., Sez. VI, n. 51032/2013).

Forme di manifestazione del reato. Il delitto è aggravato ai sensi dell'art. 375 c.p. se dal fatto deriva:

a) una condanna alla reclusione non superiore a cinque anni;

b) una condanna superiore a cinque anni;

c) una condanna all'ergastolo.

In tutte e tre le ipotesi citate la condanna deve derivare da una sentenza di condanna passata in giudicato e ingiusta, per tale intendendosi quella che punisce un innocente ovvero punisce più severamente il reo a causa della mendace deposizione resa sul suo conto.

In evidenza

La giurisprudenza di legittimità annovera la fattispecie suddetta tra i delitti aggravati dall'evento e addebita la circostanza per il sol fatto del suo verificarsi, a prescindere dunque dalla riconducibilità della stessa alla volontà dell'agente (sempre che si accerti l'elemento della colpa) (Cass. pen., Sez. VI, n. 5911/2012).

Rapporti con altri reati. Nella prassi applicativa, spesso, il delitto di falsa testimonianza concorre con quello di favoreggiamento personale di cui all'art. 378 c.p.

Emblematica appare l'ipotesi in cui la dichiarazione mendace, teleologicamente orientata a favorire l'autore di un delitto, sia resa prima alla polizia giudiziaria e, successivamente, all'autorità giudiziaria. In questi casi, infatti, stante la diversità dell'elemento oggettivo dei due reati, si ipotizza un concorso di reati.

Aspetti processuali. La competenza a giudicare delle false informazioni al P.M. è attribuita al tribunale monocratico, che può perseguire il crimine anche d'ufficio.

Falsa perizia o interpretazione (art. 373 c.p.)

L'art. 373 c.p. incrimina le condotte del perito o dell'interprete che, nominati dall'autorità giudiziaria, rendono un parere o un'interpretazione mendace ovvero affermano fatti non conformi al vero, con un richiamo quoad poenam al delitto di falsa testimonianza (che viene severamente punito con la reclusione da due a sei anni).

La condanna – precisa il Legislatore – importa, oltre l'interdizione dai pubblici uffici, l'interdizione dalla professione o dall'arte.

La fattispecie oggettiva: le condotte incriminate e il bene giuridico tutelato. Il delitto di falsa perizia o interpretazione appartiene alla categoria dei reati contro l'amministrazione della giustizia. Dalla collocazione topografica della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 373 c.p. si evince che l'oggetto giuridico è l'interesse pubblico al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale. Il Legislatore, detto altrimenti, al fine di evitare che la falsità della perizia ovvero dell'interpretazione possa ripercuotersi negativamente sull'epilogo della vicenda processuale e, dunque, compromettere la decisione dell'interprete, minaccia l'irrogazione della pena. Il perito e l'interprete, infatti, in quanto ausiliari del giudice, ben potrebbero indurre in errore il giudice, alterando il contenuto della perizia o dell'interpretazione.

Non è, dunque, peregrino affermare che l'ufficio adempiuto dall'art. 373 c.p. sia stato quello di rafforzare la tutela delle indagini (intese in senso atecnico) sulla verità processuale, potendo questa ricerca essere frustrata dal rilascio di pareri o di interpretazioni non corrispondenti al fatto storico.

Quanto alla condotta tipica, l'art. 373 c.p. si struttura come una norma a più fattispecie. Il Legislatore prevede, infatti, che il perito o l'interprete possano tanto fornire pareri o interpretazioni mendaci, quanto affermare fatti non conformi al vero.

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Sul punto, autorevole dottrina ha affermato che per “parere o interpretazione mendace” debba intendersi un giudizio (che può manifestarsi sia sub specie di documento scritto, che nella forma dell'esposizione orale) che si discosta dall'intimo convincimento di colui che lo rende perché difforme da quella che, secondo la sua coscienza, è la verità processuale (in giurisprudenza, per questa impostazione, Cass. pen., Sez. VI, n. 38475/2012).

Tuttavia, nell'art. 373 c.p. il Legislatore pone sullo stesso piano la condotta del falso perito e quella dell'interprete. Eppure, ad un'analisi attenta del codice di procedura penale, ben diverse risultano la natura giuridica e il ruolo che, questi, svolgono nel processo penale. La perizia, infatti, viene comunemente annoverata tra i mezzi di prova di cui possono avvalersi le parti processuali (P.M. e indagato/imputato) per sostenere le proprie ragioni in giudizio (sicché si spiega la contiguità normativa rispetto al delitto di falsa testimonianza con cui condivide finanche l'omogeneità del bene-interesse giuridicamente tutelato). Come noto, essa viene disposta dal giudice in tutti quei casi in cui occorre svolgere indagini ovvero acquisire dati o valutazioni, che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche.

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Giova, a tal uopo, precisare che il giudice non è vincolato al risultato della perizia potendo discostarsi o disattendere del tutto le conclusioni cui il perito è giunto (da qui il brocardo latino iudex peritus peritorum) (Cass. pen., Sez. VI, n. 38475/2012).

La disciplina dell'interpretazione, invece, si rinviene nel Titolo IV del Libro II del codice penale, rubricato Traduzione degli atti. Quest'ultimo regolamenta gli atti del processo e attribuisce un vero e proprio diritto all'indagato ovvero all'imputato (a seconda del contesto temporale – procedimento/processo – in cui il diritto viene fatto valere) all'assistenza di un interprete qualora dimostri la scarsa conoscenza della lingua italiana.

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Ne deriva, come conseguenza, che soggetto passivo del delitto di falsa interpretazione è l'indagato o l'imputato che subisce un pregiudizio dal comportamento scorretto del mendacio (che lede il suo diritto - appunto - all'assistenza di un interprete). Al contrario, invece, nell'ipotesi in cui venga realizzato il delitto di falsa perizia, soggetto passivo del reato sarà lo Stato-collettività al quale la Carta costituzionale (ex art. 102) attribuisce la funzione giurisdizionale come componente indefettibile della sovranità.

Ciò in quanto il privato, danneggiato dalla falsa perizia o interpretazione, non è titolare o contitolare dell'interesse preso in considerazione dalla norma incriminatrice (Cass. pen., Sez. VI, n. 17375/2015).

Eppure, una parte della dottrina osserva che potrebbe annoverarsi tra le persone offese dal reato anche il privato cittadino, posto che il comportamento contra legem del perito o dell'interprete potrebbe incidere negativamente anche la sua sfera giuridica così come potrebbe ledere il suo onore, la sua libertà personale o il suo patrimonio.

Come si desume dallo stesso tenore letterale, l'art. 373 c.p. è un reato proprio. La condotta penalmente rilevante può, per espressa previsione normativa, essere realizzata unicamente da chi riveste la specifica qualifica di “perito” o di “interprete”.

Va, altresì, sottolineato che tra i soggetti attivi del reato dovrebbe annoverarsi finanche il consulente tecnico d'ufficio nominato nel corso di un procedimento civile. La ragione che giustifica tale assunto si rinviene nell'art. 64 c.p.c. che dispone l'applicazione delle norme penali, riferibili ai periti, anche ai consulenti tecnici del giudice civile.

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La suprema Corte di cassazione ha affermato, in proposito, che la disposizione in esame si estende a tutte le ipotesi in cui venga nominato un consulente tecnico nel processo civile non solo di cognizione e di esecuzione, ma anche nei procedimenti cautelari. Per altro, al consulente tecnico nominato dal giudice civile si è soliti equiparare anche quello citato in giudizio dal giudice amministrativo. Questi, infatti, rispondono del delitto di falsa perizia o interpretazione, ma anche del falso contravvenzionale di cui al 64 c.p.c. Non così, invece, per i consulenti tecnici di parte nominati nel processo penale dal difensore dell'imputato e dal p.m.

Il che si desume, da un lato, dal principio di stretta legalità di cui all'art. 2 c.p. che esclude il ricorso all'applicazione analogica (quantomeno in malam partem) delle norme penali incriminatrici; dall'altro, anche dal fatto che, in occasione delle modifiche apportate dall'art. 11 comma 6 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 7 agosto 1992, n. 356, in tema di subornazione, è stato incluso tra le persone verso le quali si dirige l'opera del subornatore anche il consulente tecnico. Tale modifica normativa sembra avallare la tesi di quanti ritengono che l'omessa indicazione del consulente tecnico tra i soggetti attivi del reato sia intenzionale (Cass. pen., Sez. VI, n. 38475/2012).

La consumazione del reato e il tentativo. Il delitto di falsa perizia o interpretazione si consuma nel momento in cui il perito o l'interprete rendano pareri o interpretazioni mendaci sull'oggetto dell'accertamento valutativo. Va da sé che l'art. 373 c.p. disegna un reato di evento e non già di mera condotta.

Tuttavia, l'accertamento della condotta tipica risulta piuttosto complesso, attesa la difficoltà di accertare quando il parere o l'interpretazione si discosti realmente dalla verità. Questo spiega perché, sul punto, non si rinvengono – quantomeno negli ultimi anni – rilevanti pronunce giurisprudenziali.

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Si discute, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa la configurabilità del reato de quo in caso di reticenza. Un primo indirizzo ermeneutico, prediligendo un' interpretazione letterale ispirata all'antico brocardo ubi lex voluti dixit, ubi noluit tacuit, esclude tale possibilità. Al contrario, invece, un diverso orientamento interpretativo afferma che l'omissione penalmente rilevante non possa non inficiare la veridicità della perizia o interpretazione e, per questi motivi, ritiene che anche la reticenza sia sussumibile nella condotta incriminata dall'art. 373 c.p.

Il tentativo non si ritiene configurabile, trattandosi di un reato unisussistente (la falsa perizia o interpretazione, infatti, si perfeziona in un solo atto).

L'elemento soggettivo. La dimensione soggettiva del fatto tipico è caratterizzata dal dolo generico. Il delitto tipizzato dalla norma incriminatrice di parte speciale è punito sempre che il soggetto si sia rappresentato e abbia voluto l'evento tipico. Sul punto, non si può mancare di rilevare che l'oggetto del dolo si compone di due diverse parti. La prima si identifica nella consapevolezza di rendere un parere ovvero un'interpretazione non corrispondente alla verità processuale e, dunque, in contrasto col dovere assunto con la dichiarazione solenne che precede l'incarico (dichiarazione che ha sostituito l'istituto del giuramento abolito dal nuovo codice di procedura penale); la seconda, invece, consiste nella volontà di alterare il contenuto delle indagini ricorrendo - ove necessario - alla formulazione di un parere o di un'interpretazione mendace.

Il trattamento sanzionatorio. Il trattamento punitivo previsto dal Legislatore per la fattispecie della falsa perizia o interpretazione è identico a quello disposto in tema di falsa testimonianza. Il che non solo rispecchia il disvalore penale del fatto tipico, ma appare finanche apprezzabile alla luce dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità della pena. Il falso perito o interprete, infatti, viene punito con la reclusione da due a sei anni. Il Legislatore, inoltre, dispone l'applicazione automatica dell'interdizione dai pubblici uffici e dalla professione o dall'arte.

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La giurisprudenza consolidata, fedele al dato letterale, ritiene che al delitto de quo si applica sia la causa di non punibilità della ritrattazione, disciplinata dall'art. 376 c.p., che quella di cui all'art. 384 c.p.

Difatti, ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p. se il fatto è realizzato da colui che - per legge - non avrebbe dovuto essere nominato come perito o interprete ovvero avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere il parere o l'interpretazione mendace, la punibilità va esclusa.

Aspetti processuali. La competenza a giudicare della falsità della perizia o dell'interpretazione è attribuita al Tribunale monocratico, che può perseguire il crimine anche d'ufficio.

Casistica

False informazioni al P.M. e calunnia

In base al principio di specialità, deve escludersi la configurabilità del delitto di cui all'art. 371-bis cod. pen. nell'ipotesi in cui la prospettazione di false accuse rivolte a terzi in sede di informazioni assunte dal P.M. integri gli estremi del delitto di calunnia (Cass. pen., Sez. VI, n. 2421/2009).

Esimente di cui all'art. 384 c.p. e onere della prova

In tema di reati contro l'amministrazione della giustizia, la norma di cui all'art. 384 cod. pen. contempla un'esimente ovvero un elemento negativo del fatto-reato, la prova della cui ricorrenza è demandata all'imputato che intende avvalersene e che, al fine di assolvere all'onere probatorio, non può limitarsi alla mera allegazione delle condizioni della sua esistenza, occorrendo l'indicazione di elementi specifici che pongano il giudice in condizione di rilevarne l'applicabilità. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che, in riferimento al delitto di falsa testimonianza, aveva escluso la sussistenza dell'esimente invocata in sede di discussione dal difensore, senza che fosse stato allegato alcun timore per la propria libertà o per il proprio onore dall'imputato nel corso del dibattimento) (Cass. pen., Sez. VI, n. 1401/2014).

In tema di falsa testimonianza, la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un'accusa penale nei suoi confronti, ovvero per il timore di essere licenziato e perdere il proprio posto di lavoro, a condizione che tale timore attenga ad un rapporto di derivazione del danno dal contenuto della deposizione, rilevabile sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialità e non di semplice supposizione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto non applicabile la causa di esclusione della punibilità in relazione alla falsa testimonianza resa da due operai nel processo a carico del loro datore di lavoro per il reato di cui all'art. 22 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, con riferimento all'occupazione di altro dipendente, non risultando dagli atti processuali alcuna situazione indicativa del pericolo per gli imputati di perdere il rapporto di lavoro in conseguenza di una corretta deposizione) (Cass. pen., Sez. VI, n. 16443/2015).

Falsa testimonianza e influenza sulla decisione del giudice

Ai fini della configurabilità del delitto di falsa testimonianza, è sufficiente che i fatti oggetto della deposizione siano pertinenti alla causa e suscettibili di avere efficacia probatoria, anche se, in concreto, le dichiarazioni non hanno influito sulla decisione del giudice (Cass. pen., Sez. VI, n. 51032/2013).

Domande dirette a sondare attendibilità del teste

È figurabile il delitto di falsa testimonianza anche quando le dichiarazioni mendaci sono rese in risposta a domande dirette a sondare l'attendibilità del teste, poiché le stesse sono dotate dei caratteri della pertinenzialità, sia pur mediata, rispetto ai temi del processo e della rilevanza ai fini del (Cass. pen., Sez. VI, n. 41572/2013).

Trasformazione di società di persone in società di capitali

Integra il reato di cui all'art. 373 c.p. la falsa relazione redatta dal consulente incaricato, in sede di trasformazione di una società di persone in una società a responsabilità limitata, della stima del capitale sociale ai sensi degli artt. 2500-ter, secondo comma, e 2645 cod. civ., anche se la nomina dell'esperto non è stata effettuata dall'Autorità giudiziaria. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la responsabilità del consulente incaricato delle valutazioni estimatorie è regolata dal predetto art. 2645 con un richiamo dell'art. 2343 c.c., il quale, a propria volta, rinvia all'art. 64 c.p.c., ai cui sensi si applicano al consulente tecnico le disposizioni del cod. pen. relative ai periti, tra le quali va incluso anche l'art. 373 c.p. in tema di falsa perizia o interpretazione) (Cass. pen., Sez. VI, n. 20314/2015).

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