Mobbing

Paolo Di Fresco
28 Gennaio 2016

In assenza di un'autonoma disciplina penale del mobbing e sollecitata dalla crescente diffusione delle pratiche persecutorie sul posto di lavoro, negli ultimi dieci anni la giurisprudenza, anche di merito, ha cercato di riportare una fattispecie aperta, composta da dati sistematicamente esposti alle incertezze della verifica medica o psicologica, nell'alveo di quelle figure di reato che, più di altre, sembravano prestarsi alla repressione penale del fenomeno. Tuttavia la fattispecie astratta più affine alle caratteristiche criminologiche del fenomeno si è rivelata quella dei maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. che, diversamente dalle altre, consente una valutazione unitaria e sintetica dei comportamenti ostili finalizzati all'emarginazione del lavoratore
Inquadramento

In assenza di un'autonoma disciplina penale del mobbing e sollecitata dalla crescente diffusione delle pratiche persecutorie sul posto di lavoro, negli ultimi dieci anni la giurisprudenza, anche di merito, ha cercato di riportare una fattispecie aperta, composta da dati sistematicamente esposti alle incertezze della verifica medica o psicologica (cfr. TOSI, Il «mobbing»: una fattispecie in cerca d'autore, in AA.VV., Il «mobbing», a cura di Tosi, Torino, 2004, 165), nell'alveo di quelle figure di reato che, più di altre, sembravano prestarsi alla repressione penale del fenomeno.

Casistica

Cass. pen., Sez. IV, 21 settembre 2006, n. 31413

È stato ritenuto configurabile il reato di violenza privata, consumata o tentata, a carico di datori di lavoro i quali costringano o cerchino di costringere taluni lavoratori dipendenti ad accettare una mutazione del rapporto di lavoro comportante un loro “demansionamento” (nella specie costituito dal declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio) mediante minaccia di destinarli, altrimenti, a forzata ed umiliante inerzia in ambiente fatiscente ed emarginandoli dal resto del contesto aziendale, nella prospettiva di un susseguente licenziamento.

Cass. pen., Sez. V, 29 agosto 2007, n. 33624

La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale. Gli atteggiamenti vessatori del datore di lavoro possono essere puniti soltanto se integrino figure di reato espressamente incriminate e le ipotesi maggiormente prossime ai connotati caratterizzanti il mobbing sono l'ingiuria, la diffamazione e soprattutto i maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione, reati che pertanto vanno singolarmente e specificamente contestati al datore, non potendosi astringere tutti i comportamenti nel complesso e unitario "reato di mobbing", attualmente inesistente.

Cass. pen., sez. VI, 17 ottobre 2007, n. 40891

Nell'ambito del pubblico impiego, invece, la Cassazione ha ritenuto ravvisabile il reato di abuso d'ufficio nella condotta del sindaco di un Comune che, in violazione della disciplina normativa di settore, aveva adibito un dipendente allo svolgimento di mansioni inferiori, con modalità tali da aver posto in essere gli estremi del mobbing, arrecando in tal modo intenzionalmente a tale lavoratore un danno ingiusto, sostanziatosi nella dequalificazione professionale del dipendente (in dottrina, cfr. DI FRESCO, Mobbing e Abuso d'ufficio, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2008, 1001).

Tuttavia la fattispecie astratta più affine alle caratteristiche criminologiche del fenomeno si è rivelata quella dei maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. che, diversamente dalle altre, consente una valutazione unitaria e sintetica dei comportamenti ostili finalizzati all'emarginazione del lavoratore.

Il mobbing e i maltrattamenti in famiglia condividono, infatti, l'abituale serialità delle condotte pretestuose, la funzionalità delle stesse al danno che si vuole cagionare al lavoratore “bersaglio”, l'intenzionalità della condotta che cementa e travalica i singoli episodi offensivi (cfr. VERRUCCHI, Rilevanza penale del «mobbing», in Dir. pen. proc., 2008, 897).

In effetti, la condotta tipica del delitto previsto dall'art. 572 c.p. – una pluralità di atti che, considerati unitamente, nel loro ripetersi nel tempo, determinano appunto quell'effetto di maltrattamento che la fattispecie in esame intende reprimere (FIANDACA–MUSCO, Diritto penale, parte speciale. I delitti contro la persona, Bologna, 2007, 347) – sembrerebbe già contenere, in una sorta di rapporto di genere a specie, quella reiterazione di comportamenti ostili e vessatori che, sotto il profilo oggettivo, connotano la fattispecie di mobbing.

Così come la struttura psicologica del mobbing sembrerebbe – almeno in certa misura – coincidere con l'elemento soggettivo dei maltrattamenti, che non consiste in un dolo unitario, equivalente ad un disegno complessivo anticipatamente programmato ma nella rappresentazione del particolare disvalore prodotto dalla reiterazione degli atti posti in essere dal soggetto attivo verso determinati soggetti passivi e, più precisamente, dalla rappresentazione di quella incidenza sulla personalità del soggetto passivo, che è propria della reiterazione e che va oltre l'offesa del singolo particolare bene (onore; integrità fisica, ecc.), che l'atto componente della serie produce in sé autonomamente considerato (COPPI, Maltrattamenti in famiglia, voce dell'Enciclopedia del diritto, Milano, 1975, XXV, 254 ss.).

Mobbing e maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p.

A prescindere da queste innegabili similitudini strutturali, resta ancora da chiarire se e a quali condizioni il rapporto di lavoro in cui si verifichino le persecuzioni di tipo mobbizzante rientri tra quelle situazioni di subordinazione cui fa riferimento l'art. 572 c.p.

Benché il nomen iuris possa fuorviare (a causa dell'esclusivo riferimento all'ipotesi di più frequente verificazione dei maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli), il tenore letterale della norma consente di dare risposta affermativa al primo interrogativo.

L'art. 572 c.p. enumera, infatti, un ampio catalogo di soggetti passivi, non circoscritto ai soli familiari o ai minori degli anni quattordici ma esteso a chi sia sottoposto all'autorità dcl soggetto attivo o sia a lui affidato per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte.

Da questo punto di vista, i riferimenti alla famiglia, alle relazioni fondate su autorità e affidamento e all'età, assolverebbero tutti la medesima funzione: quella di individuare sinteticamente i soggetti attivi e passivi del reato, mettendo in evidenza come il delitto di maltrattamenti presupponga una relazione interpersonale – talora di tipo familiare, talaltra fondata sull'autorità e la fiducia – destinata a protrarsi nel tempo.

Ciò sottende, tra le altre cose, una netta presa di posizione sull'identità del bene giuridico tutelato dall'art. 572 c.p. che, nonostante la controversa collocazione del reato tra i delitti contro l'assistenza familiare, non andrebbe individuato nella famiglia quale nucleo elementare, coniugale e parentale della società e dello Stato e quale istituto di ordine pubblico (MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1984, VII; 926), bensì nell'interesse del soggetto al rispetto della propria personalità nello svolgimento del rapporto interpersonale (cfr. FIANDACA - MUSCO, Diritto penale, cit., 346).

Sulla base di tali premesse, Cass. pen.,Sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 10090, ha inaugurato l'indirizzo giurisprudenziale che nella condotta persecutoria del datore di lavoro ravvisa gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia.

In particolare, dopo aver precisato che l'art. 572 c.p. prevede anche ipotesi di reato che non richiedono coabitazione o convivenza tra soggetto attivo e passivo ma solo un rapporto continuativo diverso da quello familiare, la suprema Corte ha affermato che il rapporto intersoggettivo che s'instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest'ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il che sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti.

La giurisprudenza successiva, pur condividendo l'assunto secondo cui che il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro rientra nelle nozioni di subordinazione ad autorità e affidamento, ha però valorizzato il requisito della para-familiarità, fino a farne il fulcro stesso dell'incriminazione.

La natura para-familiare del rapporto di lavoro: fondamento e rilievi critici

Secondo quest'opzione ricostruttiva, perché si configuri il delitto previsto dall'art. 572 c.p., è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia: rapporto di soggezione anche psicologica che può assumere siffatte caratteristiche para-familiari in ragione delle peculiarità dell'attività lavorativa prestata (si pensi alla relazione tra un maestro d'arte ed il suo apprendista) ovvero delle dimensioni e natura organizzativa del luogo di lavoro (si pensi alla relazione tra padrone di casa e lavoratore domestico), cioè in situazioni nelle quali è possibile riconoscere quella sottoposizione all'altrui autorità ovvero quell'affidamento per l'esercizio di una professione o di un'arte, cui fa espresso riferimento l'articolo 572 c.p. (Cass. pen., Sez. VI, 20 marzo 2014, n. 13088; Cass. pen., Sez. VI, 3 luglio 2013, n. 28603; Cass. pen., Sez. VI, 3 aprile 2012, n. 12517; Cass. pen., sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594).

Viceversa, il reato non sarà configurabile quando il rapporto si inscriva in una realtà aziendale complessa, la cui articolata organizzazione non implichi una stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente che possa determinare una comunanza di vita assimilabile a quella propria del consorzio familiare.

La tesi, accolta dalla giurisprudenza maggioritaria, presta tuttavia il fianco ad alcune obiezioni.

Il ragionamento giudiziale fa leva, anzi tutto, sull'inserimento dei maltrattamenti tra i delitti contro l'assistenza familiare, rispolverando un argomento, in sé anacronistico, che trarrebbe nuova linfa dal ruolo che la Costituzione assegna alla famiglia quale società intermedia destinata alla formazione e all'affermazione della personalità dei suoi corrispondenti. In particolare, secondo Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2009,n. 26594, andrebbero interpretati nella stessa ottica quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare.

L'assunto riecheggia la presa di posizione di una parte della dottrina che, nel tentativo di rivitalizzare il bene giuridico della famiglia, ritiene che il danno causato alla personalità della persona offesa dai maltrattamenti subiti comporti giocoforza la degenerazione della funzionalità della famiglia, vero e proprio terreno di coltura privilegiato per lo sviluppo della personalità.

In quest'ottica, l'inserimento dei maltrattamenti tra i delitti contro la famiglia rappresenterebbe una felice anticipazione del disegno costituzionale che assegna alla famiglia il ruolo di formare e di consentire di affermare la personalità dei suoi membri nei rapporti familiari e sociali: ruolo che certo tradisce chi, obbligato ad assistere un membro della famiglia, invece lo maltratti (DELOGU, Diritto penale, in Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova, 1995, VII, 642).

Quest'opzione ermeneutica non considera, però, che il testo della norma fa espresso riferimento a categorie di persone (alla cui autorità o al cui affidamento sono a vario titolo rimessi i soggetti passivi), che non appaiono in alcun modo riferibili alla nozione di famiglia, comunque la si voglia intendere. Né l'ampio catalogo dei soggetti attivi di cui all'art. 572 c.p. può essere ridimensionato in base ad un'impropria interpretazione restrittiva, che assegni valore decisivo ad una non meglio definita pretesa all'assistenza familiare o para-familiare su cui potrebbe fare affidamento la persona offesa dal reato (cfr. DI FRESCO, Mobbing e maltrattamenti in famiglia: un “automatismo” giurisprudenziale da rivedere, in Foro it., 2009, II, 534).

Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 572 c.p. appare pertanto poco condivisibile l'assegnazione di un ruolo dominante alla nozione allargata di famiglia, dato che la stessa parrebbe rappresentare al pari dell'autorità o della ragione di affidamento soltanto una delle fonti del rapporto interpersonale, nel cui ambito la personalità dell'individuo deve potersi liberamente sviluppare (cfr. COPPI, Maltrattamenti in famiglia, cit., 233).

Evoluzione giurisprudenziale

La discutibile tendenza giurisprudenziale a valorizzare il requisito delle dimensioni dell'impresa, escludendo a priori la configurabilità del reato di maltrattamenti in presenza di imprese di medio-grandi dimensioni, è stata disattesa da alcune pronunce di merito (cfr. Trib. Milano, Sez. Cassano d'Adda, 14 marzo 2012; Trib. Milano, Sez. V, 30 novembre 2011), che hanno fatto proprie le perplessità della dottrina, secondo cui, anche nel contesto di imprese di grandi dimensioni, potrebbero svilupparsi strette relazioni abituali tra lavoratore subordinato e diretto superiore gerarchico (in tal senso BARTOLI, Fenomeno del mobbing e tipo criminoso forgiato dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, in Dir. pen. cont.).

Questa diverso punto di vista, incline a valorizzare il particolare contesto relazionale del rapporto di lavoro, è stato recentemente riproposto da Cass.pen., Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416, che ha annullato una pronuncia della Corte d'Appello di Torino, secondo cui l'elevato numero dei dipendenti dell'impresa (nella specie, oltre venticinque) sarebbe stato incompatibile con i tratti della para-familiarità del rapporto di subordinazione.

La Cassazione ha, in particolare, rilevato che la sussistenza (o insussistenza) di un rapporto di natura para-familiare non può essere desunta dal dato – meramente quantitativo – costituito dal numero dei dipendenti dell'impresa nell'ambito della quale siano commesse le condotte in ipotesi maltrattanti, dovendo essa piuttosto fondarsi sull'aspetto qualitativo, id est sulla natura dei rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e lavoratore. Si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para familiarità allorché ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare (come nel caso della collaborazione domestica svolta in ambito familiare) o comunque caratterizzata da un rapporto di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare, il quale gestisca l'azienda con atteggiamento “padronale” e, dunque, in modo autoritario sì da innestare quella dinamica relazionale "supremazia – subalternità" che si ritrova nelle relazioni fra soggetti che si trovino ad operare su piani diversi.

Una relazione di questo tipo – si legge ancora nella motivazione della sentenza – difficilmente potrà essere configurarsi in realtà aziendali di notevoli dimensioni, dove i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati. Ciò non esclude, però, che dinamiche para-familiari possano aversi nell'ambito dei singoli reparti e, dunque, nei rapporti fra il capo reparto ed il singolo addetto.

Rifiutando l'adesione ad astratti modelli teorici in favore di un'attenta indagine sulle effettive dinamiche relazionali intercorrenti fra titolare e lavoratore, la sentenza in questione non solo appare più rispettosa del principio di legalità (dato che la dimensione dell'impresa non costituisce un requisito di tipicità della fattispecie prevista dall'art. 572 c.p.) ma riduce sensibilmente le distanze con il dato sociologico rappresentato dalla diffusione del mobbing soprattutto all'interno delle imprese di grandi dimensioni: cioè in contesti lavorativi in cui è più facile, per un verso, che si creino gruppi di lavoratori in concorrenza o in contrasto con singoli o con altri gruppi e, per altro verso, che le condotte persecutorie rispondano ad una precisa strategia aziendale di riduzione del personale o di riorganizzazione degli uffici, perseguita allontanando i dipendenti più deboli o quelli che hanno maturato un'anzianità ormai troppo onerosa sotto il profilo stipendiale (cfr. OLIVA, Mobbing: quale risarcimento? in Danno e resp., 2000, 38).

Guida all'approfondimento

AA.VV., Il «mobbing», a cura di Paolo Tosi, Torino, 2004.

BARTOLI, Fenomeno del mobbing e tipo criminoso forgiato dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, in Dir. pen. cont.

COPPI, Maltrattamenti in famiglia, voce dell'Enciclopedia del diritto, Milano, 1975, XXV, 254.

DE FALCO, La rilevanza penale del «mobbing» approda in Cassazione, in Cass. pen., 2008, 182.

DELOGU, Diritto penale, in Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova, 1995, VII, 642.

DI FRESCO, Mobbing e abuso d'ufficio, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2008, 1001,

DI FRESCO, Mobbing e maltrattamenti in famiglia: un “automatismo” giurisprudenziale da rivedere, in Foro it., 2009, II, 534.

FIANDACA–MUSCO, Diritto penale, parte speciale. I delitti contro la persona, Bologna, 2007.

MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1984, VII, 926.

OLIVA, Mobbing: quale risarcimento? in Danno e resp., 2000, 38.

PARODI, Ancora su mobbing e maltrattamenti in famiglia, in Dir. pen. cont.

PICCININI, Mobbing (lavoro privato e pubblico), vocedell'Enciclopedia giuridica Treccani, 2004, XX.

SANSONE, Prospettive di una penalizzazione del «mobbing», in Riv. pen., 2006, 885.

SZEGO, «Mobbing» e diritto penale, Napoli, 2007.

VERRUCCHI, Rilevanza penale del «mobbing», in Dir. pen. proc., 2008, 897.

ZOLI, Sulla rilevanza penale del mobbing: i maltrattamenti sono configurabili anche all'interno di imprese medio-grandi, in Dir. pen. cont.

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