Motivi e movente

Andrea Grandinetti
02 Agosto 2019

Il sintagma motivo, ovvero movente, si riferisce ad una inclinazione psicologica, specificamente affettiva, che – superata la tradizionale, pretesa, “pura” separatezza (metodologica) tra i diversi saperi - merita di essere osservata da due (non già contrapposte, quanto piuttosto) complementari prospettive.Da un lato, quella c.d. ontologica (o pre/extra-giuridica), decrittabile tramite plurime scienze (tra cui spiccano filosofia, psicologia, sociologia, antropologia, financo biologia, specie con riferimento al ramo delle neuroscienze) che indagano essenza e connotazioni strutturali e funzionali proprie di tale dato psichico.
Inquadramento

Il sintagma motivo, ovvero movente, si riferisce ad una inclinazione psicologica, specificamente affettiva, che – superata la tradizionale, pretesa, “pura” separatezza (metodologica) tra i diversi saperi - merita di essere osservata da due (non già contrapposte, quanto piuttosto) complementari prospettive.

Da un lato, quella c.d. ontologica (o pre/extra-giuridica), decrittabile tramite plurime scienze (tra cui spiccano filosofia, psicologia, sociologia, antropologia, financo biologia, specie con riferimento al ramo delle neuroscienze) che indagano essenza e connotazioni strutturali e funzionali proprie di tale dato psichico.

Dall'altro, la prospettiva c.d. giuridica, ove – fermo il multiforme rilievo accordatogli dal legislatore – pare esservi una certa concordia nel definire tale coefficiente interiore come “il quid, la causa psichica, lo stimolo, la molla, l'impulso, il sentimento, l'istinto, che ha spinto, mosso, indotto, il soggetto ad agire (o ad omettere), che ha fatto scattare la volontà, che ha determinato l'individuo a delinquere” (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Giappichelli, 2000, 3).

Motivi, movente, causa, obiettivi e scopo

Da un punto di vista pre/extra-giuridico, plurimi fattori psicologici paiono inquadrabili in un più ampio, multi-fattoriale, dinamico, processo motivazionale, dotato di una più o meno intensa efficienza eziologica rispetto all'agire umano. Molteplici le espressioni utilizzate per descrivere le componenti di tale fenomeno: “motivi”, “movente”, “intenzione”, “interesse”, “causa”, “scopo”, “obiettivo”, “proposito”. Proprio tale varietà lessicale giustifica lo sforzo di perimetrazione dei rispettivi confini.

Giova muovere dal rapporto tra “motivi” e “movente”: da taluni viene descritto in termini di alternatività, in ossequio alla tradizione kantiana (secondo cui il movente sarebbe il fondamento soggettivo del desiderare, da contrapporre ai motivi, fondamento oggettivo della volontà); secondo l'impostazione prevalente, invero, sarebbe più correttamente da intendere come relazione di sinonimia, incapace di produrre significative differenze dal punto di vista giuridico.

Maggiormente dibattuta è la dicotomia tra “motivi” (o “movente”) e “scopo” (e altri equivalenti: “fine”, “obiettivo”). Una prima opinione poggia su tre asserzioni, volte a descrivere un incedere motivazionale circolare, ricorsivo: non potrebbe darsi un'azione senza scopo; il motivo dell'agire “costituisce soltanto una forma in cui si esprime lo scopo”; (pertanto) ogni motivo può essere trasformato in uno scopo” (Von Jhering, Der Zweck im Recht, Leipzig, 1877, trad. it., Lo scopo del diritto, Giappichelli, 1972, 24 ss.).

Diversamente, l'opzione interpretativa maggioritaria valorizza l'opportunità di mantenere una distinzione tra i due concetti, pur senza trovare concordia circa i criteri discretivi. In particolare, accanto ad una ricostruzione che valorizza la dinamicità del motivo in luogo della staticità dello scopo, si collocano teoriche costruite tutte intorno al dualismo “interiorità”/“esteriorità”: la prima proprietà, ad avviso di taluni, connoterebbe il motivo (o movente); in senso diametralmente opposto opinano altri autori, che proprio al medesimo termine riferirebbero, invece, la qualità dell'esteriorità.

In evidenza

Secondo l'opinione preferibile sarebbe necessario distinguere tra movente” o “motivo”, che indica la molla, l'impulso, la causa, l'istinto che spinge psicologicamente, in maniera conscia ovvero inconscia, alla condotta; e “scopo” (o “fine”), quale obiettivo del contegno, consistente nella (sempre consapevole) rappresentazione di un risultato preso di mira.

Così ricostruita, la relazione tra i due termini pare atteggiarsi quale concatenazione, seriazione tra plurimi anelli psicologici di una catena complessa, composta da svariati fattori affettivi, la cui rilevanza giuridica risente di precise scelte (e modalità) di tipizzazione ad opera del legislatore, capaci, peraltro, di contrastare eccessi di frantumazione propri di quelle tesi, superate, che pretenderebbero di distinguere tra dati psichici remoti, intermedi, finali, prossimi, ultimi.

Il proteiforme rilievo giuridico dei motivi

Come segnalato dalla dottrina (Malinverni, Scopo e movente nel diritto penale, Torino, 1955, 3), il legislatore impiega frequentemente espressioni descrittive di fatti psichici, assunti a determinati effetti giuridici; parimenti è a dirsi per la dottrina e la giurisprudenza.

Con specifico riferimento ai “motivi”, dalla ricognizione dell'apparato normativo ne emerge, con nettezza, una rilevanza giuridica multi-forme, circa la cui riconduzione a sistema vi sono differenti opinioni. Un'impostazione risalente, muovendo da una contrapposizione rinvenibile nella struttura stessa del codice penale, propone una netta distinzione tra “motivi” quali elementi della teoria generale del reato, rilevanti come co-elementi di fattispecie incriminatrici, circostanziali, ovvero esimenti; e “motivi” indici della capacità criminale o della pericolosità dell'autore del reato, il cui studio rientrerebbe nella c.d. teoria del reo.

Più recentemente, alcuni autori muovono da una accezione ristretta di “movente”, circoscrivendone il campo denotativo ai soli elementi accidentali e circostanziali del reato: precisamente, tale dato psicologico rileverebbe in via diretta soltanto nei casi in cui il legislatore ricorra esclusivamente ad un giudizio di valore, con cui rinvii ad una qualificazione della genesi psichica del comportamento, o di sue componenti, senza descrivere specificamente alcun elemento esterno o finalistico, apprezzabile come situazione oggettiva, concomitante o anche successiva alla condotta, nella quale la prima debba tipicamente proiettarsi o manifestarsi (Picotti, Il dolo specifico. Un'indagine sugli elementi finalistici delle fattispecie penali, Milano, 1993, 525).

Secondo una differente, preferibile, ricostruzione, invece, occorrerebbe distinguere tra rilevanza indiretta e diretta dei motivi: nel primo caso, il dato motivazionale concorrerebbe a comporre il tipo criminoso, restandone completamente assorbito, di modo che possa essere decifrato soltanto tramite il filtro della tipicità, anche subiettiva, del fatto; nel secondo caso, invece, il coefficiente psichico afferirebbe più direttamente all'autore, assumendo rilievo nella prospettiva commisurativa (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 24 ss.).

In linea con questa opinione, pare utile approfondire ulteriormente l'analisi, distinguendo a seconda che i motivi assumano rilievo: a) nella perimetrazione del tipo criminoso; b) nella configurazione dell'elemento subiettivo doloso; c) nella edificazione di cause di esclusione della punibilità (lato sensu intesa); d) nella costruzione di fattispecie circostanziali; e) in sede di commisurazione in senso stretto della sanzione; f) in vista dell'elaborazione di determinate categorie di reato, cui seguono peculiari effetti giuridici.

(Segue). Rilevanza nella perimetrazione del tipo criminoso

In alcune ipotesi, il legislatore eleva taluni segmenti del processo motivazionale dell'agente a co-elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice: precisamente, dall'accertamento di tale coefficiente psichico dipende, talvolta, l'an stesso della penale rilevanza; talaltra, l'inquadramento giuridico della vicenda, già penalmente rilevante ad altro titolo criminoso.

A conferma dell'assunto, oltre all'abrogata fattispecie di “omicidio e lesione personale per causa d'onore”, di cui all'art. 587 c.p., speciale rispetto alle generali disposizioni a tutela dell'incolumità individuale, si pensi, fra gli altri, agli illeciti penali previsti dagli artt. 660 c.p. e 604-bis c.p.

In particolare, nell'ambito della contravvenzione di molestia o disturbo alle persone, di cui all'art. 660 c.p., il dato psicologico “biasimevole motivo” pare assumere un ruolo centrale in vista dell'emersione dell'illiceità penale del fatto: adesivamente, ad avviso di consolidata giurisprudenza, “ai fini della sussistenza del reato è necessario che il comportamento sia connotato dalla petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone o per altro biasimevole motivo, ovvero qualsiasi altra motivazione che sia da considerare riprovevole per se stessa o in relazione alla persona molestata, considerata dalla norma come avente gli stessi effetti della petulanza” (Cass. pen., Sez. I, 28 giugno 2016, n. 26776).

Diverso pare il rilievo del movente nel delitto di “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”, già previsto dall'art. 3 L. 654/1975, ma trasfuso nell'art. 604-bis c.p., in attuazione della c.d. riserva di codice, di recente introduzione. Intesa la "discriminazione per motivi razziali" come quella fondata su qualità personali del soggetto, non - invece - sui suoi comportamenti (Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2015, n. 36906). Tale dato psichico, lungi dall'assumere ruolo propriamente fondante l'illiceità penale, pare utilizzato dal legislatore al fine di fare emergere particolari note di disvalore sottese a comportamenti già penalmente rilevanti.

(Segue). Nella configurazione dell'elemento subiettivo doloso

Innegabili paiono le reciproche interferenze tra motivi e dolo, che hanno spinto dottrina e giurisprudenza alla ricerca di una linea di confine; operazione ancora più complessa qualora si valorizzi, in accordo con l'opinione prevalente, contraria ad eccessi normativizzanti, la componente volontaristica del coefficiente subiettivo, il cui rilievo indefettibile emergerebbe dal riferimento alla “intenzione”, contenuto nella definizione stessa di delitto doloso, di cui all'art. 43 c.p.

Non stupisce, pertanto, la diffusione (in tempi meno recenti) di ricostruzioni unificanti: l'intenzione – si dice – sarebbe sinonimo di scopo, nonché di motivo, non essendo possibile concepire un “volere simpliciter (…); si deve volere un quid, ciò che è lo scopo, il fine, il motivo della volontà. (..) Motivo e intenzione sono la stessa cosa, non si possono staccare l'uno dall'altro” (Finzi, Scopo, fine, intento, intenzione, motivo nel codice penale italiano, Napoli, 1932, 4).

Più correttamente, opinioni recenti valorizzano la separatezza tra moventi e dolo, senza però obliterare la rilevanza dei primi nell'incedere motivazionale, utile chiave di lettura della scelta a delinquere da parte dell'agente. In particolare, i moventi costituirebbero delle “ragioni per agire”, da tenere distinti – ex se – dall'intenzione: quest'ultima infatti, si ricollega al momento e alla fase della decisione fra diverse, giustapposte ovvero contrapposte, ragioni per agire diversamente (Eusebi, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, 138 ss.).

Proprio la conformazione di tale sviluppo psichico illumina i confini tra motivi e intenzione: ove guardata, in ottica grandangolare, l'intera seriazione motivazionale, il motivo-“ragione per agire”, entra a far parte della componente psicologico-volontaristica del dolo, rappresentando la molla psichica più prossima alla (scelta verso la) condotta; diversamente, il movente (o motivo) in senso stretto, costituisce una spinta meno prossima verso l'agire, idonea a fornire una spiegazione ulteriore e più ampia dell'accadimento (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 119).

Tale dicotomia si riflette sull'attività di accertamento giudiziale, come confermato da consolidata giurisprudenza, ad avviso della quale "l'assenza di movente dell'azione (..) è irrilevante ai fini dell'affermazione della responsabilità, allorché vi sia comunque la prova dell'attribuibilità di detta azione all'imputato; né il mancato accertamento del movente può risolversi nell'affermazione probatoria di assenza di dolo del delitto (…), o, tanto meno, di assenza di coscienza e volontà dell'azione (Cass. pen., Sez. I, 30 maggio 2019, n. 24136).

Inoltre, l'analisi del processo motivazionale dell'agente può assumere rilievo in vista dell'accertamento del profilo volontaristico del dolo eventuale, centrale fattore discretivo rispetto alla colpa cosciente. Infatti, la giurisprudenza più recente, nel delineare alcuni “indicatori”, quali aspetti da valutare e soppesare in funzione di qualificazione ed accertamento della fattispecie concreta, si riferisce “(al) fine della condotta, (al)la sua motivazione di fondo; e (al)la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali, cioè la congruenza del "prezzo" connesso all'evento non direttamente voluto rispetto al progetto d'azione” (Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343).

(Segue). Nella edificazione di cause di esclusione della punibilità (lato sensu intesa)

La (a)normalità del processo motivazionale dell'autore dell'illecito può costituire proficua chiave di lettura di alcune previsioni legali, di dibattuta qualificazione, ma accomunate dalla produzione dell'effetto di esclusione della punibilità (in senso lato intesa).

Anzitutto, soccorre l'art. 97 c.p., punto d'emersione di una precisa scelta politico-criminale: tradizionalmente è stata ricostruita come presunzione assoluta di non imputabilità, derivante da vera e propria incapacità di diritto penale; di recente, invero, se ne è indagata la giustificazione, rinvenuta nell'irregolarità dell'incedere psichico, viziato dalla immaturità del soggetto.

Interessanti paiono, altresì, le fattispecie di cui agli artt. 307, III comma e 418, III comma c.p., che sanciscono la non punibilità dell'autore, in ragione della particolare considerazione di determinati rapporti intersoggettivi. Si tratta di ipotesi di dubbio inquadramento: ad avviso di taluni, si sarebbe innanzi ad una causa di non punibilità in senso stretto, originaria, la cui integrazione richiederebbe esclusivamente l'esistenza del rapporto qualificato menzionato dalla previsione legale; secondo una differente opinione, invece, il fatto che l'attenzione del legislatore si rivolga alla particolarità della situazione soggettiva vissuta dall'agente, che gli impedisce un normale procedimento di motivazione, renderebbe preferibile una qualificazione in termini di causa di esclusione della colpevolezza (Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, 355 ss.).

Ancora, vi sono ipotesi in cui l'esclusione della punibilità impone una verifica sia di elementi oggettivi, che dell'atteggiarsi delle motivazioni dell'autore: tra queste spiccano quelle previste dagli artt. 599, II comma e 384, I comma c.p.

In entrambi i casi, ai fini dell'operatività della previsione, costruita tutta intorno a rapporti di causa-effetto tra accadimenti, è necessaria un'indagine avente ad oggetto il processo motivazionale dell'agente: nella prima ipotesi, occorre che effettivamente sussista uno stato d'ira, determinato dal fatto ingiusto subito; nella seconda, invece, la commissione di uno dei reati indicati dalla fattispecie deve essere stata determinata dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave nocumento nella libertà o nell'onore (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 299).

Da ultimo, il rilievo di fattori psichici emerge con nettezza, sia pure in negativo, nell'art. 90 c.p., che sancisce perentoriamente: “gli stati emotivi o passionali non escludono, né diminuiscono l'imputabilità”.

Ad avviso dell'impostazione tradizionale, tale disposto andrebbe inteso come vero e proprio filtro invalicabile rispetto al riconoscimento della rilevanza giuridica dei dati psichici effettivi: “la disposizione dell'art. 90 c.p., vietando di valutare gli stati emotivi o passionali ai fini della imputabilità, non consente di riprenderli in esame nell'art. 42 c.p., come causa di esclusione della colpevolezza” (Cass. pen., Sez. I, 739/1972).

Più di recente, invero, da più parti se ne invoca (quantomeno) un'esegesi restrittiva: per alcuni, tali stati psicologici potrebbero determinare l'applicazione di attenuanti generiche (Cass. pen., Sez. I, n. 7272/2013; da ultimo Corte Assise, Bologna, Sez. I, 8 febbraio 2019, n. 29); per altri occorrerebbe valorizzare la situazione motivazionale anomala (cagionata da peculiari emozioni o passioni provate dall'autore di un illecito), capace di incidere sul quantum di colpevolezza dell'agente, attraverso il parametro della inesigibilità o ridotta esigibilità del comportamento osservante nel contesto dato (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 311).

(Segue). Nella costruzione di fattispecie circostanziali: motivi abietti o futili

La sequenza motivazionale che ha spinto il soggetto ad agire assume ruolo centrale nella tipizzazione di taluni elementi accidentali del reato, capaci di far emergere l'interferenza tra grado della colpevolezza per il fatto (come concretamente manifestatosi) e modulazione della risposta sanzionatoria.

In alcuni casi, il motivo trova espressa menzione ad opera del legislatore: talvolta, pregno di disvalore, conduce ad un inasprimento della pena; talaltra, portatore di valore, ne produce un'attenuazione.

Soccorre, anzitutto, l'art. 61, n. 1 c.p., che delinea una circostanza comune, definita (o tipica), ad efficacia comune, che dà luogo ad un aggravamento (quantitativo) di pena fino ad un terzo nel caso in cui l'autore abbia “agito per motivi abietti o futili”.

In evidenza

Per consolidata giurisprudenza, per abietto” si intende il motivo “espressione di un sentimento spregevole”, ossia “turpe, ignobile, che rivela nell'agente un grado di tale perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità, nonché quello spregevole o vile, che provoca ripulsione ed è ingiustificabile per l'abnormità di fronte al sentimento umano” (Cassazione penale , Sez. I , 6 luglio 2018 , n. 49129).

Diversamente, il movente è da considerarsi futile quando la determinazione delittuosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire, per la generalità delle persone, assolutamente insufficiente a provocare l'azione delittuosa, tanto da poter essere riguardato, più che come causa determinante dell'evento, come pretesto o scusa perché l'agente potesse dare sfogo al suo impulso criminale (Cass. pen., Sez. I, 41052/2014).

Peraltro, l'espressione “motivi abietti o futili” delinea fattispecie tra loro autonome, capaci di coesistere allorché il delitto sia contemporaneamente espressione di un impulso sproporzionato rispetto alla causa scatenante e tale da costituire un mero pretesto di uno sfogo violento e di una ragione spregevole, idonea a cagionare sentimenti di ripugnanza (Cass. pen., Sez. V, 6 luglio 2018, n. 40090)

Si tratta di una aggravante c.d. soggettiva (Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2018, 605), in quanto tale non estensibile tout court ai concorrenti ai sensi dell'art. 118 c.p. Eppure, ad avviso della giurisprudenza prevalente, tale circostanza sarebbe estensibile a colui “che, con il proprio volontario contributo, abbia dato adesione alla realizzazione dell'evento, rappresentandosi e condividendo gli sviluppi dell'azione esecutiva posta in essere dall'autore materiale del delitto (Cass. pen., Sez. I, 10 luglio 2018, n. 50405).

Dal punto di vista processuale, ai fini della configurabilità dell'aggravante, non è sufficiente la mera sequenza logica tra l'accadimento di un fatto astrattamente idoneo a integrare un movente sproporzionato e l'azione criminosa; piuttosto, è necessaria l'identificazione certa del movente, nonché la positiva dimostrazione che il soggetto attivo si sia effettivamente determinato all'azione in ragione di causale non congrua (Cass. pen., Sez. I, 19925/2014).

Casistica

Delitto commesso per mero spirito punitivo

Nell'ambito di delitti di criminalità organizzata, l'aggravante del motivo abietto è stata ravvisata nell'omicidio compiuto, su ordine del capo di un gruppo mafioso, per mero spirito punitivo, in danno di chi abbia intrapreso una relazione sentimentale con una donna già a lui legata da analogo rapporto (Cass. pen., Sez. Unite, 18 dicembre 2008, n. 337)

Delitto commesso per vendetta

Lavendetta, di per sé sola, non costituisce motivo abietto, poiché non suscita nei consociati il senso di ripugnanza e disprezzo che caratterizza la circostanza. Tuttavia, l'aggravante è integrata se il fine di vendetta si accompagna ad ulteriori finalità spregevoli, quali l'affermazione del prestigio criminale del soggetto, la sua capacità di sopraffazione, la repressione della libertà di autodeterminazione della vittima (Cass. pen., Sez. I, 14 febbraio 2014, n. 7274)

Delitto commesso per gelosia

Non può configurare motivo abbietto o futile la sola manifestazione, per quanto parossistica e ingiustificabile, di gelosia, che, collegata ad un sia pur abnorme desiderio di vita in comune, non è espressione di per sé di spirito punitivo nei confronti della vittima considerata come propria appartenenza, della quale pertanto non può tollerarsi l'insubordinazione (Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2018, n. 49129

Delitto per questioni di tifo calcistico

È configurabile l'aggravante dei futili motivi in relazione ad una rissa insorta per questioni di tifo calcistico, in quanto la passione per una attività sportiva non può mai giustificare possibili manifestazioni di violenza;

Quanto alla compatibilità con istituti contigui, tale aggravante viene ritenuta: compatibile con il dolo d'impeto (Cass. pen., Sez. V, n. 17686/2010); incompatibile con l'attenuante della provocazione, non potendo coesistere stati d'animo contrastanti, dei quali l'uno escluda l'ingiustizia dell'azione dell'antagonista (Cass. pen., Sez. I, 24683/2008).

Maggiormente dibattuta, invece, è la relazione con il vizio parziale di mente: ad avviso di taluno si darebbe incompatibilità, posto che non potrebbe farsi carico all'agente di una malvagità che trovi spiegazione nell'ambito di un quadro morboso (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Torino, 2014, 450); secondo una differente prospettazione, invece, si darebbe perfetta compatibilità, in quanto i due particolari motivi non costituiscono, in sé, una costante e diretta estrinsecazione dell'infermità per la quale la capacità di intendere e di volere può risultare grandemente scemata (Cass. pen., Sez. II, 15571/2012).

(Segue). Motivi di particolare valore morale o sociale

Altra fattispecie in cui emerge la rilevanza del fattore motivazionale è quella di cui all'art. 62, n. 1 c.p.: contrapposta idealmente all'art. 61, n. 1 c.p., viene tipizzata un'attenuante comune, definita, ad efficacia comune, capace di dare luogo ad una riduzione sanzionatoria fino ad un terzo nel caso in cui l'agente agisca “per motivi di particolare valore morale o sociale”.

In evidenza

Secondo l'opinione consolidata, è di particolare valore morale il motivo che nella normalità dei casi determina azioni moralmente nobili e che la coscienza etica umana o del popolo in un dato momento storico approva, ovvero il motivo ispirato a ragioni corrispondenti ad un'etica che dell'uomo sottolinei i valori più elevati.

Diversamente, è da intendere come di particolare valore sociale il motivo che corrisponda alle direttive, alle concezioni ed alle finalità della comunità organizzata, ossia oggetto di valutazione favorevole alla stregua delle medesime, ovvero il motivo informato a ragioni sentite in virtù delle necessità della comunità civile

Si tratta di una fattispecie descritta tramite l'utilizzo di elementi normativi, specificamente extragiuridici, circa il cui significato, ancorato a concetti come “moralità” ovvero “socialità”, non pare esservi unanimità di vedute, che – tuttavia – condividono due aspetti: la necessità di tenere distinto il disvalore dell'azione commessa, penalmente rilevante, dal valore del motivo; nonché la necessità di andare alla ricerca di criteri di qualificazione non già meramente soggettivi, individuali, bensì oggettivi (Cass. pen., Sez. I, 15 febbraio 2018, n. 7390)

Orientamenti a confronto. Parametro di qualificazione dei motivi di particolare valore morale o sociale: orientamenti a confronto.

Tesi I,
tradizionale,
monistica.

Il movente deve essere riconosciuto come di particolare valore morale o sociale dalla generalità dei consociati, perché conforme alla morale o alle esigenze sociali del tempo o comunque alle concezioni etico sociali dominanti (Cass. pen., Sez. I, 20312/2010)

Tesi II,
recente,
pluralista.

Il motivo può essere considerato come di particolare valore morale o sociale ogniqualvolta esprima una concezione della vita o della società tale da meritare diritto di cittadinanza nell'ordinamento giuridico, obbedendo a valori non già conformi alle concezioni della generalità degli individui, ma anche soltanto compatibili con la Costituzione.

Tesi III
(minoritaria)

Un movente può essere considerato di particolare valore sociale anche in assenza di un sottostante aggancio costituzionale, purché si tratti di valori, emersi dopo l'entrata in vigore della Costituzione, recepiti dalla legislazione nazionale, anche in attuazione di normative sovranazionali (Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2018, 618)

Quanto alla natura dell'attenuante, si dibatte: ad avviso di taluni, concernendo i motivi a delinquere, si sarebbe innanzi ad una circostanza soggettiva, applicabile soltanto alla persona animata da tale dato psichico; una differente opinione, invece, ne valorizza la natura composita, in parte oggettiva (inerente alla qualificazione del motivo, che deve essere obiettivamente di valore morale o sociale), in parte soggettiva (il soggetto deve essere realmente mosso da quel motivo) (Romano, Commentario sistematico del codice penale. I. Artt. 1.-84, Milano, 2004, 672).

Componente, ulteriore, inespressa, sarebbe il rapporto di congruenza, esteriormente accertabile, tra azione delittuosa e motivo sottostante: precisamente, ai fini dell'integrazione della fattispecie in parola, occorrerebbe una ragionevole proporzione tra il motivo allegato ed il fatto alla cui realizzazione quel dato psichico ha spinto (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 238; in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. I, 27 novembre 2008, n. 11236).

Casistica

Gelosia e vendetta

“Non è configurabile l'attenuante in parola in caso di omicidio commesso per salvaguardare l'onore pretesamente offeso dalla relazione amorosa con il proprio coniuge e per ricostruire l'unità familiare; ciò in quanto la gelosia e la vendetta, dettate da un malinteso senso dell'orgoglio maschile colpito dall'infedeltà coniugale costituiscono sempre passioni morali riprovevoli, mai suscettibili di valutazione positiva” (Cass. pen., 4 luglio 1991, n. 10644)

Eutanasia pietatis causa

Nell'attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pietà è incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo. Di talché, non può essere ritenuto di particolare valore morale il motivo che spinge alla condotta di omicidio della persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica (Cass. pen., Sez. I, 7 novembre 2018, n. 50378).

Motivi politici

Il motivo politico non può assurgere a motivo di particolare valore morale o sociale quando è alla radice del desiderio e del proposito d'affermare la propria opinione o fazione contro le altre; quando è diretto a creare disordine o sovvertimento; quando spinge a realizzare pretese e finalità politiche o sociali mediante l'uso sistematico della violenza o della lotta armata; quando l'agente, ancorché animato da sentimenti patriottici, ricorre alla pratica terroristica, per seminare morte, lutti e distruzioni anche in territori stranieri ed in danno di persone innocenti, perché inermi ed estranee agli interessi della contesa politica o alla lotta armata (Cass. pen., Sez. I, 13988/1989; Cass. pen., Sez. I, 25275/2008).

Si dibatte circa la compatibilità dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1 con quella della provocazione: ad avviso di una ricostruzione risalente, tra le fattispecie si darebbe un rapporto di specialità, da risolvere in favore della provocazione (Cass. pen., Sez. IV, 10 ottobre 1996, n. 11024); secondo una diversa, più recente, opinione, occorrerebbe distinguere: l'attenuante potrebbe concorrere con quella della provocazione solo ove siano fondate su distinte situazioni concrete; viceversa, qualora il fatto alla base sia unitario, in ragione del principio del ne bis in idem sostanziale, dovrebbe applicarsi soltanto una delle anzidette circostanze (Cass. pen., Sez.

(Segue). In sede di commisurazione in senso stretto della sanzione

I fattori motivazionali che hanno spinto l'agente ad agire possono essere apprezzati anche nell'attività di commisurazione in senso stretto della pena, di cui agli artt. 132-133 c.p.

Nell'esercizio del potere a discrezionalità vincolata attribuitogli, il giudice è chiamato a cogliere, nella multiforme varietà del caso concreto, la significazione di valore più idonea a produrre un determinato trattamento penale (Bricola, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, 98 ss.), conformemente alle esigenze di personalizzazione del rimprovero penale imposte dall'art. 27 cost.

Nel dettare alcuni criteri in base ai quali orientare la dosimetria della pena, il legislatore fa cenno alla capacità a delinquere: espressione dal significato dibattuto (ma preferibilmente da intendere in ottica bidimensionale, verso il passato, non meno che verso il futuro), ai sensi dell'art. 133, II comma c.p., deve essere inferita tramite alcuni indici espressamente indicati.

Tra questi, centrale il rilievo dei “motivi a delinquere”, di cui al n. 1 dell'articolo citato, elemento che, da un lato, permette di decifrare il grado di partecipazione, ossia l'entità di adesione del reo al fatto, da considerare in relazione alla natura, all'intensità e all'idoneità a perdurare nel tempo (Dolcini, La commisurazione della pena. La pena detentiva, Padova, 1979, 332); dall'altro, illumina la personalità dell'autore e la sua attitudine o propensione a compiere in futuro ulteriori fatti criminosi (Romano, Commentario sistematico del codice penale. II. Artt. 85-149, Milano, 2012).

Orientamenti a confronto. Possibilità di considerare lo stesso elemento motivazionale ai fini della commisurazione in senso lato ed in senso stretto: orientamenti a confronto

Tesi I,
minoritaria

Il giudice non può valutare un fatto integrante una specifica circostanza attenuante o aggravante sia ai fini della quantificazione della pena base che ai fini della sua successiva attenuazione o aggravamento (Cass. pen., Sez. III, 30 aprile 2015, n. 40765).

Tesi II,
prevalente

Una duplice valutazione dei criteri dell'art. 133 c.p. è legittima a condizione che venga compiuta dal giudice per finalità diverse (Cass. pen., Sez. IV, 18 aprile 2018, n. 17401)

(Segue). In vista dell'elaborazione di determinate categorie di reato, cui seguono peculiari effetti giuridici

Taluni segmenti del processo psichico che ha condotto il reo ad agire sono presi in considerazione dal legislatore, nonché dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nell'elaborazione di precise categorie di reato, presupposto – di volta in volta – di differenti effetti giuridici.

Il riferimento, anzitutto, è ai c.d. delitti politici, di cui l'art. 8 c.p. fornisce una definizione agli effetti penali, capace di illuminare struttura e morfologia degli stessi: accanto a quelli oggettivamente tali, infatti, si staglia la species di delitto soggettivamente politico, da intendere quale delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici, ossia “allo scopo di incidere sull'esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato ovvero favorire o contrastare idee o tendenze politiche proprio dello Stato, o anche offendere un diritto politico del cittadino” (Cass. pen., Sez. I, n. 16808/2004).

Ulteriore categoria, cui fa cenno direttamente il legislatore, è quella di delitti commessi per motivi di lucro, che assumono rilievo, in prima battuta, ai sensi dell'art. 24 c.p.

Tale disposizione attribuisce al giudice il potere di aggiungere, alla pena della reclusione, una sanzione pecuniaria al ricorrere dei seguenti presupposti: che la figura delittuosa non sia già strutturata su una lesione patrimoniale, né caratterizzata, tipicamente, da finalità di lucro; che di fatto l'agente si sia ispirato o sia stato mosso da motivo di lucro, ossia alla ricerca di un vantaggio economico-patrimoniale proprio o altrui (Romano, Commentario sistematico del codice penale. I. Artt. 1-84, Milano, 2004, 236).

Proprio in ragione della sua rilevanza nella modulazione della risposta sanzionatoria, dibattuto ne è l'inquadramento: ad avviso di taluni, si sarebbe innanzi ad una circostanza aggravante, sia pure peculiare (Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2018, 674); invero, l'impostazione prevalente è contraria alla qualificazione in termini di circostanza aggravante (Cass. pen., Sez. III, n. 29878/2006).

Ancora, la categoria dei delitti commessi per motivi di lucro acquista rilievo: nell'aggravante di cui all'art. 61, n. 7 c.p., circoscrivendone l'alveo d'operatività; nella fattispecie di cui all'art. 62, n. 4 c.p., che fa da pendant, in chiave attenuante della disposizione sopra citata; nonché nell'art. 707 c.p., ove la previa condanna per delitti determinati da motivi di lucro, costituisce co-elemento perfezionativo della fattispecie, su cui, inter alia, viene a radicarsi il profilo offensivo dell'illecito.

Il dato motivazionale assume rilievo, altresì, nella costruzione, in ossequio anche alla normativa sovranazionale, di un sistema di contrasto alla violenza contro le donne per motivi di genere, che passi attraverso la predisposizione di diversi strumenti, non soltanto di diritto penale.

Mancando una definizione ad opera del legislatore nazionale, soccorre quella contenuta nell'art. 3 della Convenzione di Instabul (Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), ratificata con L. 77/2013: l'espressione “violenza contro le donne basata sul genere” è da intendersi come “una violazione di diritti umani o una forma di discriminazione nei confronti delle donne comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provochino o rischino di provocare danni o sofferenze di carattere fisico, sessuale, psicologico o economico, inclusi i casi di minacce di simili condotte, coercizione o privazione arbitraria della libertà, occorsi nella sfera pubblica o nella sfera privata”.

In altri termini, si tratta di fatti di diverso tipo non occasionalmente diretti nei confronti della vittima, bensì accomunati dal contesto e dal soggetto passivo cui sono diretti, la cui causa o movente sistemico sia radicato nella condizione specifica della donna (Merli, Violenza di genere e femminicidio, in Dir. Pen. cont.- riv. Trim., 1/2015, 430 ss., spec. 435 ss.).

(Segue). I reati culturalmente motivati

Da ultimo, il dato psichico costituisce elemento indefettibile nella costruzione della categoria dei c.d. reati culturali (anche detti reati culturalmente motivati o orientati): emersa in ragione della progressiva trasformazione in senso multiculturale delle società attuali, da più parti se ne valorizza la “mobilità dei confini”, che porta con sé plurimi dibattiti; primo fra tutti quello relativo alla definizione stessa di reato culturale.

Infatti, ad avviso di taluni, occorrerebbe distinguere tra: “reati culturali in senso stretto”, realizzati da soggetti appartenenti ad un gruppo minoritario, caratterizzato da una cultura complessivamente assai diversa da quella riflessa dal sistema giuridico vigente nel luogo di commissione del fatto; “reati culturali in senso lato”, commessi da soggetti appartenenti ad un Paese caratterizzato da una cultura e da un sistema giuridico non troppo differente da quello italiano; “reati culturali in senso latissimo”, posti in essere (non già da appartenenti a minoranza o altro Paese, ma) da soggetti italiani, che aderiscano a concezioni del mondo fondate su norme culturali in conflitto con quelle dell'ordinamento; infine, “reati culturali in senso improprio”, formula che indicherebbe fatti indotti non da vere e proprie norme culturali, ma da modi di vivere potenzialmente confliggenti con norme giuridiche nazionali (Bernardi, Il fattore culturale nel sistema penale, Torino, 2010, 5).

In evidenza

Secondo l'opinione maggioritaria in dottrina e recepita anche in giurisprudenza, per reato culturale (o culturalmente motivato) si intende un comportamento, tenuto da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale di minoranza, che, da un lato, è considerato reato dall'ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza, ma, d'altro lato, è valutato con minor rigore, ovvero accettato come lecito, o addirittura imposto all'interno del gruppo culturale d'origine dell'autore (in dottrina, v. De Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010,30).

Accomunate dal dato centrale della genesi della condotta, riconducibile a convenzioni culturali, sociali, religiose diffuse entro il gruppo d'appartenenza dell'agente, tramite l'espressione “reato culturalmente orientato” si suole fare riferimento a fattispecie eterogenee, tra cui spiccano:

  • omicidi, lesioni personali e maltrattamenti commessi in contesto familiare da soggetti (marito, capofamiglia) che, in virtù della cultura d'appartenenza, si ritengano attributari di poteri e prerogative non più riconosciuti dalla cultura italiana;
  • omicidi o lesioni personali “a causa d'onore”, dovuti ad un esasperato concetto dell'onore familiare, di gruppo;
  • reati di riduzione in schiavitù a danno di minori, giustificate da un diverso assetto dei rapporti tra genitori e figli, che caratterizzerebbe la cultura d'appartenenza dell'agente;
  • mutilazioni genitali femminili (v. art. 583-bis c.p.), circoncisioni maschili, quali rituali suggeriti, ammessi ovvero addirittura imposti dalle convenzioni sociali e culturali proprie dell'ambiente d'appartenenza;
  • illeciti contro la sicurezza pubblica: si pensi all'art. 4 L. 110/1975 contestato a soggetti, indiani sikh, per aver portato in pubblico, senza giustificato motivo, il coltellino kirpan, amuleto simbolico religioso.

Orientamenti a confronto. Rilevanza, de iure condito, del fattore culturale: orientamenti a confronto

Motivazione culturale
e consenso dell'avente diritto

Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) non può essere scriminato dal consenso dell'avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub-culturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Dette sub-culture, infatti, ove vigenti, si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli art. 29-31 cost. (Cass. pen., Sez. VI, 22 ottobre 1999, n. 3398).

Motivi culturali
ed esercizio del diritto

In tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare – in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica (Cass. pen., Sez. III, 13 aprile 2015 , n. 14960)

Fattore culturale e coscienza dell'illiceità penale del fatto

Ai fini della valutazione della sussistenza della consapevolezza dell'illiceità penale della condotta, può essere presa in considerazione la categoria dei reati culturalmente orientati o culturalmente motivati, purché all'esito di un rigoroso bilanciamento tra il diritto inviolabile del soggetto agente a non ripudiare le proprie tradizioni culturali, religiose e sociali e i valori offesi o posti in pericolo dal suo comportamento (In motivazione la Corte ha precisato che, per compiere il giudizio indicato, è utile accertare la matrice religiosa o giuridica della regola culturale in adesione alla quale è stato commesso il fatto, il suo effettivo carattere vincolante nella comunità di origine dell'imputato ed il grado d'inserimento dell'immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d'arrivo) (Cass. pen., Sez. III, 2 luglio 2018, n. 29613).

Movente culturale e aggravante dei futili motivi

Per quanto non siano assolutamente condivisibili nella moderna società occidentale, nemmeno possono essere ritenuti "futili" motivi ad agire connessi al rispetto dell'onore familiare e della fede religiosa (Cass. pen., Sez. I, 18 dicembre 2013, n. 51059). Contra: sussiste l'aggravante dei futili motivi in caso di omicidio commesso da due soggetti di etnia rom; infatti, lo stile di vita e la particolare concezione dell'onore familiare, propri dell'etnia di appartenenza degli imputati, non può attenuare il disvalore etico-giuridico della condotta, anche solo per escludere l'aggravante in questione. Ciò in quanto non è possibile giustificare in alcun modo una compressione della tutela inderogabile dei principi e dei beni fondamentali riconosciuti dall'ordinamento costituzionale, rispetto ai quali nessun orientamento ideale, culturale o di costume proprio di persone, gruppi o comunità che vivono e operano nella comunità generale può porsi in aperto contrasto (Cass. pen., Sez. I, 18 marzo 2016, n. 11591)

Cultura e motivi di particolare valore morale o sociale

Ai fini della concedibilità dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1 c.p., non può farsi riferimento al sistema di valori proprio del soggetto agente, allorché tale sistema non sia quello condiviso dalla generalità degli italiani (Cass. pen., Sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 3419). Contra: dottrina maggioritaria (v. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, 2010, 434).

Fattore culturale e commisurazione in senso stretto della pena

L'eventuale considerazione, da parte dell'imputato dei fatti da lui compiuti come innocui, o socialmente utili o non riprovevoli alla luce della sua cultura e della sua religione potrebbe essere apprezzata dal giudice nel quadro multiforme delle variabili apprestate dall'art. 133 c.p., in punto di personalizzazione e adeguatezza della pena (Cass. pen., Sez. VI, 16 dicembre 2008, n. 46300)

Aspetti processuali

L'accertamento del processo motivazionale presenta spiccate peculiarità, in ragione della natura psichica (di parte) del thema probandum. Infatti, a differenza delle componenti materiali, dotate di una consistenza empirico-fattuale, il fatto psichico non si estrinseca nella realtà, se non in via puramente indiretta.

Ciò si riverbera sulle premesse probatorie, nonché sul tipo di procedimento inferenziale che deve condurre al risultato di prova, oggetto di valutazione ad opera del giudicante.

Conscia di tali particolarità è la giurisprudenza, secondo cui “per ricostruire il fatto psichico interno del soggetto agente deve farsi ricorso a massime di esperienza che consentano di inferirlo da elementi esterni, accessibili e riscontrabili (Cass. pen., Sez. III, 649/2012).

Peraltro, «il movente, per il carattere di ambiguità ad esso intrinseco, non è comunque mai assimilabile ad un grave elemento indiziario» (Cass. pen., Sez. I, 19759/2011); tuttavia, la causale «può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza degli indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità, in quanto essi, all'esito dell'apprezzamento analitico e nel quadro di una valutazione globale di insieme, si presentino, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, chiari precisi e convergenti per la loro univoca significazione» (Cass. pen., Sez. I, 813/2016).

Sommario