Motivi e moventeFonte: Cod. Pen Articolo 61
02 Agosto 2019
Inquadramento
Il sintagma motivo, ovvero movente, si riferisce ad una inclinazione psicologica, specificamente affettiva, che – superata la tradizionale, pretesa, “pura” separatezza (metodologica) tra i diversi saperi - merita di essere osservata da due (non già contrapposte, quanto piuttosto) complementari prospettive. Da un lato, quella c.d. ontologica (o pre/extra-giuridica), decrittabile tramite plurime scienze (tra cui spiccano filosofia, psicologia, sociologia, antropologia, financo biologia, specie con riferimento al ramo delle neuroscienze) che indagano essenza e connotazioni strutturali e funzionali proprie di tale dato psichico. Dall'altro, la prospettiva c.d. giuridica, ove – fermo il multiforme rilievo accordatogli dal legislatore – pare esservi una certa concordia nel definire tale coefficiente interiore come “il quid, la causa psichica, lo stimolo, la molla, l'impulso, il sentimento, l'istinto, che ha spinto, mosso, indotto, il soggetto ad agire (o ad omettere), che ha fatto scattare la volontà, che ha determinato l'individuo a delinquere” (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Giappichelli, 2000, 3). Da un punto di vista pre/extra-giuridico, plurimi fattori psicologici paiono inquadrabili in un più ampio, multi-fattoriale, dinamico, processo motivazionale, dotato di una più o meno intensa efficienza eziologica rispetto all'agire umano. Molteplici le espressioni utilizzate per descrivere le componenti di tale fenomeno: “motivi”, “movente”, “intenzione”, “interesse”, “causa”, “scopo”, “obiettivo”, “proposito”. Proprio tale varietà lessicale giustifica lo sforzo di perimetrazione dei rispettivi confini. Giova muovere dal rapporto tra “motivi” e “movente”: da taluni viene descritto in termini di alternatività, in ossequio alla tradizione kantiana (secondo cui il movente sarebbe il fondamento soggettivo del desiderare, da contrapporre ai motivi, fondamento oggettivo della volontà); secondo l'impostazione prevalente, invero, sarebbe più correttamente da intendere come relazione di sinonimia, incapace di produrre significative differenze dal punto di vista giuridico. Maggiormente dibattuta è la dicotomia tra “motivi” (o “movente”) e “scopo” (e altri equivalenti: “fine”, “obiettivo”). Una prima opinione poggia su tre asserzioni, volte a descrivere un incedere motivazionale circolare, ricorsivo: non potrebbe darsi un'azione senza scopo; il motivo dell'agire “costituisce soltanto una forma in cui si esprime lo scopo”; (pertanto) ogni motivo può essere trasformato in uno scopo” (Von Jhering, Der Zweck im Recht, Leipzig, 1877, trad. it., Lo scopo del diritto, Giappichelli, 1972, 24 ss.). Diversamente, l'opzione interpretativa maggioritaria valorizza l'opportunità di mantenere una distinzione tra i due concetti, pur senza trovare concordia circa i criteri discretivi. In particolare, accanto ad una ricostruzione che valorizza la dinamicità del motivo in luogo della staticità dello scopo, si collocano teoriche costruite tutte intorno al dualismo “interiorità”/“esteriorità”: la prima proprietà, ad avviso di taluni, connoterebbe il motivo (o movente); in senso diametralmente opposto opinano altri autori, che proprio al medesimo termine riferirebbero, invece, la qualità dell'esteriorità.
Così ricostruita, la relazione tra i due termini pare atteggiarsi quale concatenazione, seriazione tra plurimi anelli psicologici di una catena complessa, composta da svariati fattori affettivi, la cui rilevanza giuridica risente di precise scelte (e modalità) di tipizzazione ad opera del legislatore, capaci, peraltro, di contrastare eccessi di frantumazione propri di quelle tesi, superate, che pretenderebbero di distinguere tra dati psichici remoti, intermedi, finali, prossimi, ultimi. Il proteiforme rilievo giuridico dei motivi
Come segnalato dalla dottrina (Malinverni, Scopo e movente nel diritto penale, Torino, 1955, 3), il legislatore impiega frequentemente espressioni descrittive di fatti psichici, assunti a determinati effetti giuridici; parimenti è a dirsi per la dottrina e la giurisprudenza. Con specifico riferimento ai “motivi”, dalla ricognizione dell'apparato normativo ne emerge, con nettezza, una rilevanza giuridica multi-forme, circa la cui riconduzione a sistema vi sono differenti opinioni. Un'impostazione risalente, muovendo da una contrapposizione rinvenibile nella struttura stessa del codice penale, propone una netta distinzione tra “motivi” quali elementi della teoria generale del reato, rilevanti come co-elementi di fattispecie incriminatrici, circostanziali, ovvero esimenti; e “motivi” indici della capacità criminale o della pericolosità dell'autore del reato, il cui studio rientrerebbe nella c.d. teoria del reo. Più recentemente, alcuni autori muovono da una accezione ristretta di “movente”, circoscrivendone il campo denotativo ai soli elementi accidentali e circostanziali del reato: precisamente, tale dato psicologico rileverebbe in via diretta soltanto nei casi in cui il legislatore ricorra esclusivamente ad un giudizio di valore, con cui rinvii ad una qualificazione della genesi psichica del comportamento, o di sue componenti, senza descrivere specificamente alcun elemento esterno o finalistico, apprezzabile come situazione oggettiva, concomitante o anche successiva alla condotta, nella quale la prima debba tipicamente proiettarsi o manifestarsi (Picotti, Il dolo specifico. Un'indagine sugli elementi finalistici delle fattispecie penali, Milano, 1993, 525). Secondo una differente, preferibile, ricostruzione, invece, occorrerebbe distinguere tra rilevanza indiretta e diretta dei motivi: nel primo caso, il dato motivazionale concorrerebbe a comporre il tipo criminoso, restandone completamente assorbito, di modo che possa essere decifrato soltanto tramite il filtro della tipicità, anche subiettiva, del fatto; nel secondo caso, invece, il coefficiente psichico afferirebbe più direttamente all'autore, assumendo rilievo nella prospettiva commisurativa (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 24 ss.). In linea con questa opinione, pare utile approfondire ulteriormente l'analisi, distinguendo a seconda che i motivi assumano rilievo: a) nella perimetrazione del tipo criminoso; b) nella configurazione dell'elemento subiettivo doloso; c) nella edificazione di cause di esclusione della punibilità (lato sensu intesa); d) nella costruzione di fattispecie circostanziali; e) in sede di commisurazione in senso stretto della sanzione; f) in vista dell'elaborazione di determinate categorie di reato, cui seguono peculiari effetti giuridici. In alcune ipotesi, il legislatore eleva taluni segmenti del processo motivazionale dell'agente a co-elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice: precisamente, dall'accertamento di tale coefficiente psichico dipende, talvolta, l'an stesso della penale rilevanza; talaltra, l'inquadramento giuridico della vicenda, già penalmente rilevante ad altro titolo criminoso. A conferma dell'assunto, oltre all'abrogata fattispecie di “omicidio e lesione personale per causa d'onore”, di cui all'art. 587 c.p., speciale rispetto alle generali disposizioni a tutela dell'incolumità individuale, si pensi, fra gli altri, agli illeciti penali previsti dagli artt. 660 c.p. e 604-bis c.p. In particolare, nell'ambito della contravvenzione di molestia o disturbo alle persone, di cui all'art. 660 c.p., il dato psicologico “biasimevole motivo” pare assumere un ruolo centrale in vista dell'emersione dell'illiceità penale del fatto: adesivamente, ad avviso di consolidata giurisprudenza, “ai fini della sussistenza del reato è necessario che il comportamento sia connotato dalla petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone o per altro biasimevole motivo, ovvero qualsiasi altra motivazione che sia da considerare riprovevole per se stessa o in relazione alla persona molestata, considerata dalla norma come avente gli stessi effetti della petulanza” (Cass. pen., Sez. I, 28 giugno 2016, n. 26776). Diverso pare il rilievo del movente nel delitto di “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”, già previsto dall'art. 3 L. 654/1975, ma trasfuso nell'art. 604-bis c.p., in attuazione della c.d. riserva di codice, di recente introduzione. Intesa la "discriminazione per motivi razziali" come quella fondata su qualità personali del soggetto, non - invece - sui suoi comportamenti (Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2015, n. 36906). Tale dato psichico, lungi dall'assumere ruolo propriamente fondante l'illiceità penale, pare utilizzato dal legislatore al fine di fare emergere particolari note di disvalore sottese a comportamenti già penalmente rilevanti. Innegabili paiono le reciproche interferenze tra motivi e dolo, che hanno spinto dottrina e giurisprudenza alla ricerca di una linea di confine; operazione ancora più complessa qualora si valorizzi, in accordo con l'opinione prevalente, contraria ad eccessi normativizzanti, la componente volontaristica del coefficiente subiettivo, il cui rilievo indefettibile emergerebbe dal riferimento alla “intenzione”, contenuto nella definizione stessa di delitto doloso, di cui all'art. 43 c.p. Non stupisce, pertanto, la diffusione (in tempi meno recenti) di ricostruzioni unificanti: l'intenzione – si dice – sarebbe sinonimo di scopo, nonché di motivo, non essendo possibile concepire un “volere simpliciter (…); si deve volere un quid, ciò che è lo scopo, il fine, il motivo della volontà. (..) Motivo e intenzione sono la stessa cosa, non si possono staccare l'uno dall'altro” (Finzi, Scopo, fine, intento, intenzione, motivo nel codice penale italiano, Napoli, 1932, 4). Più correttamente, opinioni recenti valorizzano la separatezza tra moventi e dolo, senza però obliterare la rilevanza dei primi nell'incedere motivazionale, utile chiave di lettura della scelta a delinquere da parte dell'agente. In particolare, i moventi costituirebbero delle “ragioni per agire”, da tenere distinti – ex se – dall'intenzione: quest'ultima infatti, si ricollega al momento e alla fase della decisione fra diverse, giustapposte ovvero contrapposte, ragioni per agire diversamente (Eusebi, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, 138 ss.). Proprio la conformazione di tale sviluppo psichico illumina i confini tra motivi e intenzione: ove guardata, in ottica grandangolare, l'intera seriazione motivazionale, il motivo-“ragione per agire”, entra a far parte della componente psicologico-volontaristica del dolo, rappresentando la molla psichica più prossima alla (scelta verso la) condotta; diversamente, il movente (o motivo) in senso stretto, costituisce una spinta meno prossima verso l'agire, idonea a fornire una spiegazione ulteriore e più ampia dell'accadimento (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 119). Tale dicotomia si riflette sull'attività di accertamento giudiziale, come confermato da consolidata giurisprudenza, ad avviso della quale "l'assenza di movente dell'azione (..) è irrilevante ai fini dell'affermazione della responsabilità, allorché vi sia comunque la prova dell'attribuibilità di detta azione all'imputato; né il mancato accertamento del movente può risolversi nell'affermazione probatoria di assenza di dolo del delitto (…), o, tanto meno, di assenza di coscienza e volontà dell'azione (Cass. pen., Sez. I, 30 maggio 2019, n. 24136). Inoltre, l'analisi del processo motivazionale dell'agente può assumere rilievo in vista dell'accertamento del profilo volontaristico del dolo eventuale, centrale fattore discretivo rispetto alla colpa cosciente. Infatti, la giurisprudenza più recente, nel delineare alcuni “indicatori”, quali aspetti da valutare e soppesare in funzione di qualificazione ed accertamento della fattispecie concreta, si riferisce “(al) fine della condotta, (al)la sua motivazione di fondo; e (al)la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali, cioè la congruenza del "prezzo" connesso all'evento non direttamente voluto rispetto al progetto d'azione” (Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343). La (a)normalità del processo motivazionale dell'autore dell'illecito può costituire proficua chiave di lettura di alcune previsioni legali, di dibattuta qualificazione, ma accomunate dalla produzione dell'effetto di esclusione della punibilità (in senso lato intesa). Anzitutto, soccorre l'art. 97 c.p., punto d'emersione di una precisa scelta politico-criminale: tradizionalmente è stata ricostruita come presunzione assoluta di non imputabilità, derivante da vera e propria incapacità di diritto penale; di recente, invero, se ne è indagata la giustificazione, rinvenuta nell'irregolarità dell'incedere psichico, viziato dalla immaturità del soggetto. Interessanti paiono, altresì, le fattispecie di cui agli artt. 307, III comma e 418, III comma c.p., che sanciscono la non punibilità dell'autore, in ragione della particolare considerazione di determinati rapporti intersoggettivi. Si tratta di ipotesi di dubbio inquadramento: ad avviso di taluni, si sarebbe innanzi ad una causa di non punibilità in senso stretto, originaria, la cui integrazione richiederebbe esclusivamente l'esistenza del rapporto qualificato menzionato dalla previsione legale; secondo una differente opinione, invece, il fatto che l'attenzione del legislatore si rivolga alla particolarità della situazione soggettiva vissuta dall'agente, che gli impedisce un normale procedimento di motivazione, renderebbe preferibile una qualificazione in termini di causa di esclusione della colpevolezza (Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, 355 ss.). Ancora, vi sono ipotesi in cui l'esclusione della punibilità impone una verifica sia di elementi oggettivi, che dell'atteggiarsi delle motivazioni dell'autore: tra queste spiccano quelle previste dagli artt. 599, II comma e 384, I comma c.p. In entrambi i casi, ai fini dell'operatività della previsione, costruita tutta intorno a rapporti di causa-effetto tra accadimenti, è necessaria un'indagine avente ad oggetto il processo motivazionale dell'agente: nella prima ipotesi, occorre che effettivamente sussista uno stato d'ira, determinato dal fatto ingiusto subito; nella seconda, invece, la commissione di uno dei reati indicati dalla fattispecie deve essere stata determinata dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave nocumento nella libertà o nell'onore (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 299). Da ultimo, il rilievo di fattori psichici emerge con nettezza, sia pure in negativo, nell'art. 90 c.p., che sancisce perentoriamente: “gli stati emotivi o passionali non escludono, né diminuiscono l'imputabilità”. Ad avviso dell'impostazione tradizionale, tale disposto andrebbe inteso come vero e proprio filtro invalicabile rispetto al riconoscimento della rilevanza giuridica dei dati psichici effettivi: “la disposizione dell'art. 90 c.p., vietando di valutare gli stati emotivi o passionali ai fini della imputabilità, non consente di riprenderli in esame nell'art. 42 c.p., come causa di esclusione della colpevolezza” (Cass. pen., Sez. I, 739/1972). Più di recente, invero, da più parti se ne invoca (quantomeno) un'esegesi restrittiva: per alcuni, tali stati psicologici potrebbero determinare l'applicazione di attenuanti generiche (Cass. pen., Sez. I, n. 7272/2013; da ultimo Corte Assise, Bologna, Sez. I, 8 febbraio 2019, n. 29); per altri occorrerebbe valorizzare la situazione motivazionale anomala (cagionata da peculiari emozioni o passioni provate dall'autore di un illecito), capace di incidere sul quantum di colpevolezza dell'agente, attraverso il parametro della inesigibilità o ridotta esigibilità del comportamento osservante nel contesto dato (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 311). La sequenza motivazionale che ha spinto il soggetto ad agire assume ruolo centrale nella tipizzazione di taluni elementi accidentali del reato, capaci di far emergere l'interferenza tra grado della colpevolezza per il fatto (come concretamente manifestatosi) e modulazione della risposta sanzionatoria. In alcuni casi, il motivo trova espressa menzione ad opera del legislatore: talvolta, pregno di disvalore, conduce ad un inasprimento della pena; talaltra, portatore di valore, ne produce un'attenuazione. Soccorre, anzitutto, l'art. 61, n. 1 c.p., che delinea una circostanza comune, definita (o tipica), ad efficacia comune, che dà luogo ad un aggravamento (quantitativo) di pena fino ad un terzo nel caso in cui l'autore abbia “agito per motivi abietti o futili”.
Peraltro, l'espressione “motivi abietti o futili” delinea fattispecie tra loro autonome, capaci di coesistere allorché il delitto sia contemporaneamente espressione di un impulso sproporzionato rispetto alla causa scatenante e tale da costituire un mero pretesto di uno sfogo violento e di una ragione spregevole, idonea a cagionare sentimenti di ripugnanza (Cass. pen., Sez. V, 6 luglio 2018, n. 40090) Si tratta di una aggravante c.d. soggettiva (Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2018, 605), in quanto tale non estensibile tout court ai concorrenti ai sensi dell'art. 118 c.p. Eppure, ad avviso della giurisprudenza prevalente, tale circostanza sarebbe estensibile a colui “che, con il proprio volontario contributo, abbia dato adesione alla realizzazione dell'evento, rappresentandosi e condividendo gli sviluppi dell'azione esecutiva posta in essere dall'autore materiale del delitto (Cass. pen., Sez. I, 10 luglio 2018, n. 50405). Dal punto di vista processuale, ai fini della configurabilità dell'aggravante, non è sufficiente la mera sequenza logica tra l'accadimento di un fatto astrattamente idoneo a integrare un movente sproporzionato e l'azione criminosa; piuttosto, è necessaria l'identificazione certa del movente, nonché la positiva dimostrazione che il soggetto attivo si sia effettivamente determinato all'azione in ragione di causale non congrua (Cass. pen., Sez. I, 19925/2014).
Quanto alla compatibilità con istituti contigui, tale aggravante viene ritenuta: compatibile con il dolo d'impeto (Cass. pen., Sez. V, n. 17686/2010); incompatibile con l'attenuante della provocazione, non potendo coesistere stati d'animo contrastanti, dei quali l'uno escluda l'ingiustizia dell'azione dell'antagonista (Cass. pen., Sez. I, 24683/2008). Maggiormente dibattuta, invece, è la relazione con il vizio parziale di mente: ad avviso di taluno si darebbe incompatibilità, posto che non potrebbe farsi carico all'agente di una malvagità che trovi spiegazione nell'ambito di un quadro morboso (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Torino, 2014, 450); secondo una differente prospettazione, invece, si darebbe perfetta compatibilità, in quanto i due particolari motivi non costituiscono, in sé, una costante e diretta estrinsecazione dell'infermità per la quale la capacità di intendere e di volere può risultare grandemente scemata (Cass. pen., Sez. II, 15571/2012). Altra fattispecie in cui emerge la rilevanza del fattore motivazionale è quella di cui all'art. 62, n. 1 c.p.: contrapposta idealmente all'art. 61, n. 1 c.p., viene tipizzata un'attenuante comune, definita, ad efficacia comune, capace di dare luogo ad una riduzione sanzionatoria fino ad un terzo nel caso in cui l'agente agisca “per motivi di particolare valore morale o sociale”.
Si tratta di una fattispecie descritta tramite l'utilizzo di elementi normativi, specificamente extragiuridici, circa il cui significato, ancorato a concetti come “moralità” ovvero “socialità”, non pare esservi unanimità di vedute, che – tuttavia – condividono due aspetti: la necessità di tenere distinto il disvalore dell'azione commessa, penalmente rilevante, dal valore del motivo; nonché la necessità di andare alla ricerca di criteri di qualificazione non già meramente soggettivi, individuali, bensì oggettivi (Cass. pen., Sez. I, 15 febbraio 2018, n. 7390)
Quanto alla natura dell'attenuante, si dibatte: ad avviso di taluni, concernendo i motivi a delinquere, si sarebbe innanzi ad una circostanza soggettiva, applicabile soltanto alla persona animata da tale dato psichico; una differente opinione, invece, ne valorizza la natura composita, in parte oggettiva (inerente alla qualificazione del motivo, che deve essere obiettivamente di valore morale o sociale), in parte soggettiva (il soggetto deve essere realmente mosso da quel motivo) (Romano, Commentario sistematico del codice penale. I. Artt. 1.-84, Milano, 2004, 672). Componente, ulteriore, inespressa, sarebbe il rapporto di congruenza, esteriormente accertabile, tra azione delittuosa e motivo sottostante: precisamente, ai fini dell'integrazione della fattispecie in parola, occorrerebbe una ragionevole proporzione tra il motivo allegato ed il fatto alla cui realizzazione quel dato psichico ha spinto (Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 238; in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. I, 27 novembre 2008, n. 11236).
Si dibatte circa la compatibilità dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1 con quella della provocazione: ad avviso di una ricostruzione risalente, tra le fattispecie si darebbe un rapporto di specialità, da risolvere in favore della provocazione (Cass. pen., Sez. IV, 10 ottobre 1996, n. 11024); secondo una diversa, più recente, opinione, occorrerebbe distinguere: l'attenuante potrebbe concorrere con quella della provocazione solo ove siano fondate su distinte situazioni concrete; viceversa, qualora il fatto alla base sia unitario, in ragione del principio del ne bis in idem sostanziale, dovrebbe applicarsi soltanto una delle anzidette circostanze (Cass. pen., Sez. I fattori motivazionali che hanno spinto l'agente ad agire possono essere apprezzati anche nell'attività di commisurazione in senso stretto della pena, di cui agli artt. 132-133 c.p. Nell'esercizio del potere a discrezionalità vincolata attribuitogli, il giudice è chiamato a cogliere, nella multiforme varietà del caso concreto, la significazione di valore più idonea a produrre un determinato trattamento penale (Bricola, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, 98 ss.), conformemente alle esigenze di personalizzazione del rimprovero penale imposte dall'art. 27 cost. Nel dettare alcuni criteri in base ai quali orientare la dosimetria della pena, il legislatore fa cenno alla capacità a delinquere: espressione dal significato dibattuto (ma preferibilmente da intendere in ottica bidimensionale, verso il passato, non meno che verso il futuro), ai sensi dell'art. 133, II comma c.p., deve essere inferita tramite alcuni indici espressamente indicati. Tra questi, centrale il rilievo dei “motivi a delinquere”, di cui al n. 1 dell'articolo citato, elemento che, da un lato, permette di decifrare il grado di partecipazione, ossia l'entità di adesione del reo al fatto, da considerare in relazione alla natura, all'intensità e all'idoneità a perdurare nel tempo (Dolcini, La commisurazione della pena. La pena detentiva, Padova, 1979, 332); dall'altro, illumina la personalità dell'autore e la sua attitudine o propensione a compiere in futuro ulteriori fatti criminosi (Romano, Commentario sistematico del codice penale. II. Artt. 85-149, Milano, 2012).
(Segue). In vista dell'elaborazione di determinate categorie di reato, cui seguono peculiari effetti giuridici
Taluni segmenti del processo psichico che ha condotto il reo ad agire sono presi in considerazione dal legislatore, nonché dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nell'elaborazione di precise categorie di reato, presupposto – di volta in volta – di differenti effetti giuridici. Il riferimento, anzitutto, è ai c.d. delitti politici, di cui l'art. 8 c.p. fornisce una definizione agli effetti penali, capace di illuminare struttura e morfologia degli stessi: accanto a quelli oggettivamente tali, infatti, si staglia la species di delitto soggettivamente politico, da intendere quale delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici, ossia “allo scopo di incidere sull'esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato ovvero favorire o contrastare idee o tendenze politiche proprio dello Stato, o anche offendere un diritto politico del cittadino” (Cass. pen., Sez. I, n. 16808/2004). Ulteriore categoria, cui fa cenno direttamente il legislatore, è quella di delitti commessi per motivi di lucro, che assumono rilievo, in prima battuta, ai sensi dell'art. 24 c.p. Tale disposizione attribuisce al giudice il potere di aggiungere, alla pena della reclusione, una sanzione pecuniaria al ricorrere dei seguenti presupposti: che la figura delittuosa non sia già strutturata su una lesione patrimoniale, né caratterizzata, tipicamente, da finalità di lucro; che di fatto l'agente si sia ispirato o sia stato mosso da motivo di lucro, ossia alla ricerca di un vantaggio economico-patrimoniale proprio o altrui (Romano, Commentario sistematico del codice penale. I. Artt. 1-84, Milano, 2004, 236). Proprio in ragione della sua rilevanza nella modulazione della risposta sanzionatoria, dibattuto ne è l'inquadramento: ad avviso di taluni, si sarebbe innanzi ad una circostanza aggravante, sia pure peculiare (Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2018, 674); invero, l'impostazione prevalente è contraria alla qualificazione in termini di circostanza aggravante (Cass. pen., Sez. III, n. 29878/2006). Ancora, la categoria dei delitti commessi per motivi di lucro acquista rilievo: nell'aggravante di cui all'art. 61, n. 7 c.p., circoscrivendone l'alveo d'operatività; nella fattispecie di cui all'art. 62, n. 4 c.p., che fa da pendant, in chiave attenuante della disposizione sopra citata; nonché nell'art. 707 c.p., ove la previa condanna per delitti determinati da motivi di lucro, costituisce co-elemento perfezionativo della fattispecie, su cui, inter alia, viene a radicarsi il profilo offensivo dell'illecito. Il dato motivazionale assume rilievo, altresì, nella costruzione, in ossequio anche alla normativa sovranazionale, di un sistema di contrasto alla violenza contro le donne per motivi di genere, che passi attraverso la predisposizione di diversi strumenti, non soltanto di diritto penale. Mancando una definizione ad opera del legislatore nazionale, soccorre quella contenuta nell'art. 3 della Convenzione di Instabul (Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), ratificata con L. 77/2013: l'espressione “violenza contro le donne basata sul genere” è da intendersi come “una violazione di diritti umani o una forma di discriminazione nei confronti delle donne comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provochino o rischino di provocare danni o sofferenze di carattere fisico, sessuale, psicologico o economico, inclusi i casi di minacce di simili condotte, coercizione o privazione arbitraria della libertà, occorsi nella sfera pubblica o nella sfera privata”. In altri termini, si tratta di fatti di diverso tipo non occasionalmente diretti nei confronti della vittima, bensì accomunati dal contesto e dal soggetto passivo cui sono diretti, la cui causa o movente sistemico sia radicato nella condizione specifica della donna (Merli, Violenza di genere e femminicidio, in Dir. Pen. cont.- riv. Trim., 1/2015, 430 ss., spec. 435 ss.). Da ultimo, il dato psichico costituisce elemento indefettibile nella costruzione della categoria dei c.d. reati culturali (anche detti reati culturalmente motivati o orientati): emersa in ragione della progressiva trasformazione in senso multiculturale delle società attuali, da più parti se ne valorizza la “mobilità dei confini”, che porta con sé plurimi dibattiti; primo fra tutti quello relativo alla definizione stessa di reato culturale. Infatti, ad avviso di taluni, occorrerebbe distinguere tra: “reati culturali in senso stretto”, realizzati da soggetti appartenenti ad un gruppo minoritario, caratterizzato da una cultura complessivamente assai diversa da quella riflessa dal sistema giuridico vigente nel luogo di commissione del fatto; “reati culturali in senso lato”, commessi da soggetti appartenenti ad un Paese caratterizzato da una cultura e da un sistema giuridico non troppo differente da quello italiano; “reati culturali in senso latissimo”, posti in essere (non già da appartenenti a minoranza o altro Paese, ma) da soggetti italiani, che aderiscano a concezioni del mondo fondate su norme culturali in conflitto con quelle dell'ordinamento; infine, “reati culturali in senso improprio”, formula che indicherebbe fatti indotti non da vere e proprie norme culturali, ma da modi di vivere potenzialmente confliggenti con norme giuridiche nazionali (Bernardi, Il fattore culturale nel sistema penale, Torino, 2010, 5).
Accomunate dal dato centrale della genesi della condotta, riconducibile a convenzioni culturali, sociali, religiose diffuse entro il gruppo d'appartenenza dell'agente, tramite l'espressione “reato culturalmente orientato” si suole fare riferimento a fattispecie eterogenee, tra cui spiccano:
Aspetti processuali
L'accertamento del processo motivazionale presenta spiccate peculiarità, in ragione della natura psichica (di parte) del thema probandum. Infatti, a differenza delle componenti materiali, dotate di una consistenza empirico-fattuale, il fatto psichico non si estrinseca nella realtà, se non in via puramente indiretta. Ciò si riverbera sulle premesse probatorie, nonché sul tipo di procedimento inferenziale che deve condurre al risultato di prova, oggetto di valutazione ad opera del giudicante. Conscia di tali particolarità è la giurisprudenza, secondo cui “per ricostruire il fatto psichico interno del soggetto agente deve farsi ricorso a massime di esperienza che consentano di inferirlo da elementi esterni, accessibili e riscontrabili (Cass. pen., Sez. III, 649/2012). Peraltro, «il movente, per il carattere di ambiguità ad esso intrinseco, non è comunque mai assimilabile ad un grave elemento indiziario» (Cass. pen., Sez. I, 19759/2011); tuttavia, la causale «può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza degli indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità, in quanto essi, all'esito dell'apprezzamento analitico e nel quadro di una valutazione globale di insieme, si presentino, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, chiari precisi e convergenti per la loro univoca significazione» (Cass. pen., Sez. I, 813/2016). Bussole di inquadramento |