Associazione in partecipazione e lavoro subordinato
17 Marzo 2016
Massima
In tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato, l'elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili di impresa risiede nel contesto regolarmente pattizio in cui si inserisce l'apporto della prestazione, dovendosi verificare l'autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale la partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione inserita stabilmente nel contesto dell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio di impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell'associato nella gestione dell'impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall'art. 35 Cost., che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Il caso
La società RC18 Imp-Exp. G. C. s.p.a. aveva stipulato dei contratti di associazione in partecipazione per la gestione di alcuni negozi. Con sentenza n. 113/2007, il Tribunale di Lecco aveva però accertato - nei confronti dell'Inps - la natura subordinata dei rapporti intrattenuti con alcuni dei lavoratori assunti.
Successivamente, la Corte d'appello di Milano con sentenza del 2 luglio 2009 rigettava l'appello della società ritenendo che il Tribunale avesse correttamente valutato, sulla base delle prove documentali e testimoniali, la prevalenza degli elementi che caratterizzano il rapporto di lavoro di tipo subordinato nelle modalità di attuazione dei rapporti con i commessi. Tra questi elementi, evidenziava in particolare la mancanza di rischio d'impresa e di potere gestionale in capo ai presunti associati, nonché l'esistenza di un potere disciplinare e organizzativo dell'assodante più ampio di quello generico d'impartire direttive di carattere generale. Inoltre, i lavoratori erano stati assunti a seguito di un periodo nel quale avevano svolto attività di lavoro occasionale con patto di prova (istituto tipico del lavoro subordinato), e dovevano chiedere l'autorizzazione per ottenere ferie e permessi.
La società proponeva dunque ricorso in Cassazione. L'Inps resisteva. La questione e le soluzioni giuridiche
La questione fondamentale posta dalla sentenza in commento è se, ai fini dell'applicazione di una certa disciplina contrattuale, si debba considerare prevalente la qualificazione formale attribuita dalle parti al rapporto di lavoro sottostante, ovvero l'atteggiarsi del suo concreto svolgimento. L'orientamento maggioritario della Corte di Cassazione sembra propendere per la seconda ipotesi, considerato anche il gran numero di sentenze emesse in tal senso (tra le tante, cfr. Cass. n. 9264/2007; Cass. n. 1917/2013; Cass. n. 2015/2015, richiamate dalla sentenza in commento), in cui si procede ad un esame del concreto svolgimento del rapporto di lavoro.
Quanto alla distinzione tra lavoro subordinato e associazione in partecipazione, sono stati individuati alcuni elementi differenziali tra i due schemi negoziali. In particolare, secondo la Corte, nell'associazione in partecipazione l'associato si assume il rischio di impresa e quindi non partecipa ai soli utili dell'azienda ma anche alle perdite. Ciò è dimostrato anche dall'analisi congiunta del secondo comma dell'art. 77 della Legge fallimentare, come modificato dal D.Lgs. n. 9 gennaio 2006, n. 5, secondo il quale anche in caso di fallimento dell'associante, l'associato è tenuto al versamento della parte ancora dovuta “nei limiti delle perdite che sono a suo carico”. Si tratta di una diretta conseguenza del c.d. principio di non retroattività dello scioglimento nei contratti ad esecuzione continuata. Nei confronti dell'associato è applicata la procedura prevista dall'art. 150 l. fall., per cui il giudice delegato può, su proposta del curatore, ingiungergli con decreto di eseguire i versamenti ancora dovuti, quantunque non sia scaduto il termine stabilito per il pagamento. Inoltre, l'associato è anche tenuto alla restituzione degli utili fittizi ovvero delle anticipazioni sugli utili mai conseguiti (Trib. Milano 23 marzo 1951, Dir. Fall., 51, II, 179).
Quanto agli altri elementi differenziali ravvisati dalla Corte, si evidenzia il fatto che l'associato non sia gerarchicamente subordinato rispetto all'associante, dal quale non può quindi ricevere direttive, a meno che queste non abbiano carattere di genericità; infine, l'associato si differenzia dal lavoratore subordinato anche sotto il profilo del potere di organizzazione e gestione dell'attività dell'impresa, carente in capo a quest'ultimo, ma sussistente in capo all'associato.
Come detto, questi elementi devono sempre essere ricercati e identificati nel caso di specie, indipendentemente dalla qualificazione formale del rapporto di lavoro. La loro valutazione, al fine di stabilire quale sia la disciplina applicabile, se cioè quella dell'associazione in partecipazione o quella del lavoro subordinato, spetta al giudice di merito; se la valutazione viene motivata adeguatamente, è di conseguenza incensurabile in sede di legittimità.
Con riferimento al caso di specie, infatti, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, quanto al rischio d'impresa, nel caso in cui la retribuzione del lavoratore sia commisurata ai ricavi delle vendite con un importo minimo comunque garantito, e non agli utili di esercizio, si verifichi la mancanza di rischio economico e si ricada perciò nella fattispecie del lavoro subordinato. Quanto al potere direttivo, la Corte ha ritenuto che istruzioni stringenti sull'allestimento dei punti vendita, sui rapporti con i clienti, sulla predisposizione di turni di lavoro, ecc., costituiscano indizi sicuri della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, poiché dimostrano “un'ingerenza assai incisiva dell'associante nell'attività degli associati”. Quanto al terzo ed ultimo indice – il potere gestionale –, la Corte ha ritenuto che la mancata visione di bilanci o documenti contabili della società, abbia privato i lavoratori della possibilità di partecipare all'organizzazione e gestione dell'attività aziendale. In definitiva, la Suprema Corte ha ritenuto di dare prevalenza al concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro.
Ciò nonostante, vi è comunque un caso particolare in cui l'orientamento della Corte sembra discostarsi da quello or ora illustrato, introducendo un'eccezione: e cioè, quando il prestatore riveste una posizione di parità contrattuale con la controparte, tale per cui si possa escludere un suo stato di soggezione o debolezza. Vi sono numerose massime della Corte che introducono e danno risalto all'elemento della volontà contrattuale delle parti, sul presupposto che il lavoratore, non trovandosi in posizione di inferiorità sotto il profilo socio - economico, “non sia una persona sprovveduta, ma conosca il significato e le conseguenze della qualificazione del rapporto, e non si trovi quindi in una situazione di dover accettare imposizioni e vessazioni ad opera del datore di lavoro” (Cass. Civ. 14 luglio 1993, n. 7796). In particolare, nella sentenza del 26 agosto 2013, n. 19568, inerente un caso in cui un medico responsabile del servizio di analisi di una casa di cura faceva valere la natura subordinata del rapporto, la Corte ha affermato che l'iniziale pattuizione sulla natura del rapporto assume maggiore rilevanza in quelle ipotesi in cui, per la condizione di non debolezza economica (anche a seguito del trattamento economico e normativo pattuito) in cui il lavoratore di fatto venga a trovarsi a fronte della controparte, il lavoratore stesso finisca per risultare più libero e meno condizionabile nella scelta delle regole cui voglia assoggettarsi nella prestazione della propria attività. Anche tale orientamento della Corte di Cassazione sembra però mitigarsi e trovare un punto di incontro col precedente, a partire dal presupposto che la volontà espressa dalle parti in sede contrattuale non sia cristallizzata ed immutabile, ma possa modificarsi nel corso del rapporto di lavoro, e pertanto debba essere valutata non solo con riferimento al nomen juris ma anche in relazione alle circostanze del caso concreto. Osservazioni
Il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, sancito dalla sentenza in analisi, ai fini dell'applicazione di una data disciplina contrattuale, è stato posto a fondamento anche della recentissima riforma introdotta dal D.Lgs. n. 81/2015 (Jobs Act), sulla disciplina organica dei contratti di lavoro e sulla revisione della normativa in tema di mansioni.
Tale decreto, con l'art. 52, ha disposto il superamento del contratto di lavoro a progetto, facendo tuttavia salvo l'art. 409 c.p.c., e pertanto “i rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale”. A questo genere di rapporto di lavoro si applicavano come disciplina generale gli art. 2222 ss. c.c., la Legge di riforma previdenziale 335/1995, l'art. 409 c.p.c. e, in materia fiscale, il Testo unico delle imposte dirette e Legge n. 342/00 che interviene in materia di assimilazione fiscale ai redditi da lavoro dipendente. L'art. 2, D.Lgs. n. 81/2015 ha stabilito però che, a partire dal 1° gennaio 2016, nei casi in cui la prestazione di lavoro sia esclusivamente personale, continuativa, e le modalità di esecuzione del lavoro siano organizzate dal committente in riferimento ai tempi e luoghi di lavoro, allora anche per tali collaborazioni troverà applicazione la disciplina del lavoro subordinato. Come specificato dalla Circolare ministeriale n. 3 del 1° febbraio 2016, questi requisiti devono ricorrere congiuntamente. Pertanto – sempre secondo la Circolare – ”ogniqualvolta il collaboratore operi all'interno di una organizzazione datoriale rispetto alla quale sia tenuto ad osservare determinati orari di lavoro e sia tenuto a prestare la propria attività presso luoghi di lavoro individuati dal committente, si considerano avverate le condizioni di cui all'art. 2 comma 1 d.lgs. 81/2015, sempre che le prestazioni siano continuative ed esclusivamente personali”.
Inoltre, con il successivo art. 53, il suddetto decreto ha eliminato alla radice il problema di verificare in concreto l'uso elusivo del contratto di associazione in partecipazione. Infatti, per i casi in cui l'associato sia una persona fisica e svolga per l'associante un'attività lavorativa, tale norma dispone che tale tipologia contrattuale (regolata dall'art. 2549 c.c.) non possa più essere applicata: si configureranno direttamente dei rapporti di lavoro subordinato. L'apporto dell'associato potrà se mai consistere in un apporto di capitale. Dunque l'associazione in partecipazione rimane in vita con riferimento ai soli rapporti in cui l'associato sia una persona giuridica.
Una questione rischia tuttavia di rimanere irrisolta: il comma 2 dell'art. 53, fa infatti salvi fino alla loro cessazione tutti i contratti di associazione in partecipazione già in atto alla data di entrata in vigore del decreto. Tale previsione potrebbe così rendere vano l'impegno del legislatore, almeno con riguardo ai contratti di associazione in partecipazione a tempo indeterminato stipulati prima del 25 giugno 2015, per il corretto inquadramento dei quali l'unico rimedio esperibile sembra essere il recesso di una delle parti e la stipulazione di un nuovo contratto conforme al nuovo dettato legislativo. Conclusioni
In conclusione si può affermare che la nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 81/2015, al fine di evitare comportamenti elusivi da parte dei datori di lavoro, abbia fatto propri i principi sanciti dalla giurisprudenza maggioritaria della Corte di Cassazione (Cass. 28 gennaio 2013, n. 1817; Cass. 28 maggio 2010, n. 13179; Cass. 22 novembre 2006, n. 24781; Cass. 19 dicembre 2003, n. 19475; da ultimo la sentenza in esame, Cass. 14 Febbraio 2015, n. 25158), in un'ottica di tutela dei lavoratori. La tendenza è infatti quella di accordare quel generale favor di cui all'art. 35 Cost. anche a quelle forme di collaborazione che, per lo meno di fatto, presentano elementi tipici del lavoro subordinato e possono considerarsi perciò etero-dirette. |