Le relazioni sindacali nel settore Pubblico

Gianluca Natalucci
19 Marzo 2014

Scheda in fase di aggiornamento

Con il termine relazioni sindacali si intendono i rapporti tra l'impresa e la collettività dei lavoratori. Queste relazioni si realizzano tramite un soggetto intermedio, cioè il sindacato, che rappresenta le istanze e gli interessi dei lavoratori stessi, e che dialoga con l'azienda ricevendo le indicazioni dei propri iscritti. Solitamente si predispongono dei tavoli negoziali dove le parti condividono e risolvono conflitti generati da una delle due parti. Nei primi anni ‘90, la contrattazione collettiva ha sostituito le rappresentanze sindacali aziendali (RSA) con le rappresentanze sindacali unitarie (RSU). Con riferimento al pubblico impiego le RSU, regolamentate dall'art. 42 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, vengono indicate come organo collettivo rappresentativo di tutti i lavoratori, non facendo alcun riferimento alla loro iscrizione ad un sindacato, occupati in una stessa realtà lavorativa, pubblica o privata. Le RSU, a differenza delle RSA, hanno la rappresentanza di tutti i lavoratori operanti in azienda, a prescindere dal movimento sindacale da loro scelto ed inoltre partecipano alla contrattazione aziendale. In sintesi l'RSA e l'RSU si possono definire come dei sistemi alternativi di rappresentazione sindacale presenti attualmente in azienda, volti a tutelare i diritti dei lavoratori nel rispetto delle regole dettate dal C.C.N.L.

Introduzione

Il diritto di costituire associazioni sindacali è sancito dall'articolo 14 dello Statuto dei lavoratori, che dichiara: “ai lavoratori è garantito il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e svolgere attività sindacale all'interno dei propri luoghi di lavoro”.

L'articolo 19 dello stesso Statuto, stabilisce che determinate funzioni inerenti alla rappresentanza sindacale, siano affidate, dagli stessi lavoratori, ai sindacati. Esso recita che "rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori di ogni unità produttiva”.

Conseguenza di tali principi sono le disposizioni che:

  • vietano tutti gli atti volti a discriminare un lavoratore;
  • vietano trattamenti economici collettivi discriminatori volti a riservare condizioni diverse ai lavoratori in base alla partecipazione o meno ad attività sindacali.

Quest'articolo può essere interpretato nel senso che si possono costituire le rappresentanze sindacali aziendali (RSA) nell'ambito di qualunque organizzazione sindacale, purché firmataria di un contratto collettivo (come conseguenza del referendum abrogativo del 1995). In base all'accordo interconfederale del 1993 vengono introdotte le Rappresentanza sindacali unitarie (RSU), che hanno preso il posto delle RSA. Esse sono composte per 2/3 da elezione da parte di tutti i lavoratori e per 1/3 da designazione o elezione da parte delle organizzazioni stipulanti il CCNL che hanno presentato le liste, in proporzione ai voti ottenuti. Il loro compito è quello di stipulare il contratto collettivo nazionale. Le R.S.U. possono essere costituite anche nelle pubbliche amministrazioni (comma 3, art. 6, D.Lgs. 396/1997), e comunque in tutte le organizzazioni produttive private con più di 15 dipendenti. Relativamente al settore pubblico, l'iniziativa per la costituzione di una R.S.U. può provenire anche da un'unica sigla sindacale, senza alcun riferimento alla sua rappresentatività.

La rappresentanza conferisce ad un'associazione sindacale diversi diritti, quali

  • usufruire dei locali aziendali;
  • ore di permesso per sindacalisti e lavoratori in assemblea;
  • indire scioperi;
  • obblighi di informazione, consultazione o partecipazione sindacale dove previsti dalla legge.

Cenni storici

Le prime forme di rappresentanza sindacale, intesa come associazione dei lavoratori, sorsero in Gran Bretagna nel XIX secolo, con l'obiettivo di rendere migliori le precarie condizioni di vita dei lavoratori delle fabbriche dopo la rivoluzione industriale. In breve tempo questo tipo di associazione si diffuse anche in Belgio, Austria e Spagna, ma fu in Francia e Germania che si svilupparono di più e meglio, tanto da venire aspramente avversati (in tutti questi Paesi i sindacati furono poi accettati per legge). Nel 1901 nacque la Federazione Internazionale Sindacale, con sede ad Amsterdam, alla quale aderirono i sindacati inglesi, francesi e degli Stati Uniti d'America. Questa Federazione si ricostituì nel 1919, dopo essere stata sospesa durante la prima guerra mondiale. Nel corso del XIX secolo in Italia si formarono delle associazioni operaie chiamate Camere del Lavoro, che per costituzione erano simili alle strutture del sindacato moderno; queste però sotto il periodo del fascismo furono sciolte per far posto alle Corporazioni. Durante la Resistenza e la successiva Liberazione dal fascismo, iniziò il processo di rinascita del Sindacalismo, culminata con l'articolo 39 della Costituzione della Repubblica Italiana, recitante: "L'organizzazione sindacale è libera”. Nonostante i parecchi cambiamenti nei luoghi di lavoro durante gli anni cinquanta e sessanta, il principio costituzionale continuò a restare inattuato. Arrivò quindi un intervento legislativo con lo Statuto dei Lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300). La libertà configurata dall'art. 39 comma 1 Cost. può essere, dunque, identificata come libertà individuale di adesione e partecipazione ad un'organizzazione sindacale, come libertà collettiva per i lavoratori di costituire organizzazioni sindacali, come libertà da far valere nei confronti delle pubbliche istituzioni, le quali non possono dunque intromettersi in alcun aspetto organizzativo del sindacato, oppure ancora come libertà da far valere nei confronti del datore di lavoro, il quale a norma dell'art. 15 dello Statuto dei Lavoratori non può subordinare l'assunzione di un lavoratore, il suo licenziamento o il suo trasferimento alla sua adesione o meno ad un determinato sindacato né al fatto che egli cominci o cessi di farne parte. La dottrina concorda inoltre nell'individuare nell'art. 39 comma 1 Cost. non soltanto una mera libertà di organizzazione sindacale, ma anche libertà di azione sindacale (in connessione con l'art. 40 Cost. che tutela il diritto di sciopero) e contrattuale; ma tali libertà, contrariamente a quella di organizzazione sindacale, non si configurano (per i lavoratori) come una pretesa/diritto verso il datore di lavoro.

Principali sindacati italiani

  • Confederali: CGIL, CISL, UIL
  • Autonomi: UGL, Cisal, FLP,
  • Di Base: COBAS, A.S La COBAS, CUB, USI, USB
  • Altri: A.Co.S.M. - Associazione Collaboratori Studi Medici, A.I.C. - Associazione Italiana Coltivatori, Anp - Associazione Nazionale Dirigenti e Alte Professionalità della scuola, Cida Unadis, COSNIL, confsal, CO.M.U. , C.S.A. , DIRFOR, Federazione nazionale stampa italiana, Federazione Italiana Tabaccai, Sindacato dei Consumatori, SNDMAE, Unione degli Studenti, UP - UNIONE PILOTI, UNCI, Rete degli Studenti Medi, (CO.DI.R.E.S.- Confederazione Dipartimenti Regione Enti Sud Servizi)

Settore Pubblico Nella pubblica amministrazione, la nozione di “sindacato maggiormente rappresentativo” non individua solo i soggetti titolari dei diritti sindacali, ma anche i sindacati abilitati all'attività di contrattazione collettiva nazionale. Questa è una differenza fondamentale con il settore privato, dove la selezione dei soggetti ammessi al tavolo della trattativa contrattuale non è giuridicamente regolata, ma affidata al rapporto di forza. La scelta di regolare la legittimazione del sindacato a negoziare collettivamente, già presente nella legge n. 93/1983, è confermata dall'art. 2, comma 1, lett. b) della legge 23 ottobre 1992, n. 421, che delegava il Governo a “prevedere criteri di rappresentatività ai fini … della contrattazione collettiva”. L'art. 47 del D.Lgs. n. 29/1993, dispone che i requisiti per la qualificazione di un sindacato come maggiormente rappresentativo devono essere stabiliti in un apposito accordo tra il Presidente del Consiglio dei Ministri e le confederazioni maggiormente rappresentative. La norma fu fortemente criticata, e fu l'abrogata tramite referendum nel 1995, ma la lacuna creatasi pose delicati problemi applicativi. Fu così introdotta una nuova disciplina con il D.Lgs. n. 396/1997, regolante il tema della rappresentatività, definendo un sistema “misto” basato contemporaneamente su due criteri, quello associativo e quello elettorale. In particolare, l'art. 43 del D.Lgs. n. 165/2001 (già art. 47 bis del D.Lgs. n. 29/1993) dispone che siano ammessi alla contrattazione collettiva nazionale quelle organizzazioni sindacali aventi nel comparto o nell'area una rappresentatività non inferiore al 5%, calcolato sulla media tra il dato associativo e il dato elettorale. Il primo è calcolato dalla percentuale delle deleghe per il pagamento dei contributi associativi in favore di ogni singolo sindacato sul totale delle deleghe rilasciate dai lavoratori nell'ambito del contratto da stipulare. Il secondo è calcolato dalla percentuale dei voti ottenuti dalla lista espressa da ciascun sindacato sul totale dei voti espressi per l'elezione delle RSU nello stesso ambito. Alla trattativa per gli accordi che definiscono i comparti ovvero che dettano regole comuni a più comparti, sono ammesse le confederazioni sindacali alle quali siano affiliati sindacati rappresentativi in almeno due comparti o aree contrattuali. In conclusione, la rappresentatività non è più determinata dai giudici in base a indici discrezionali, ma viene misurata sulla base di dati accertabili e accertati secondo la procedura indicata dallo stesso art. 43 (commi 7 e ss.). La nuova disciplina, inoltre, dispone che la rappresentatività di ciascuna organizzazione venga misurata dal consenso effettivo tra i lavoratori goduto, nella duplice forma dell'iscrizione e del voto, da ciascuna organizzazione nei luoghi di lavoro, per poi riflettersi nella legittimazione negoziale a livello nazionale. Ciò vale anche per la legittimazione delle confederazioni che deriva da quella ottenuta a livello di comparto dai sindacati ad esse affiliati. Pertanto, la misurazione della rappresentatività in base ad una media tra i due indici del numero degli associati e dei voti ottenuti nelle elezioni per le RSU costituisce un equilibrato compromesso nella valorizzazione di due dimensioni compresenti nell'esperienza sindacale, il sindacato come organizzazione e il sindacato come movimento, entrambe radicate nelle ideologie delle nostre maggiori confederazioni.

La parte datoriale: dirigenza amministrativa e rappresentanza negoziale

Le caratteristiche del datore di lavoro sono uno degli aspetti che differenziano le relazioni sindacali nel settore pubblico rispetto a quelle del settore privato. Se in passato la natura sovrana del datore di lavoro era il fondamento logico per una disciplina del rapporto di impiego basata sulla regolazione unilaterale (per legge o atti autoritativi), anche dopo il successivo riconoscimento del metodo contrattuale, dalla fine degli anni '60, tali caratteristiche hanno continuato a differenziare significativamente i due settori, con una parziale correzione dopo la riforma del 1993. Aspetti come la natura politica della parte datoriale, talvolta la difficoltà stessa di identificare con precisione il portatore di interesse imprenditoriale e di promuovere una motivazione autonoma della dirigenza al buon funzionamento delle amministrazioni, insieme alla debole o inesistente esposizione alla regolazione di mercato ed alla fragilità dei vincoli di bilancio, sono caratteristiche che spesso hanno alimentato una logica di comportamento da parte del datore pubblico sensibile più ad esigenze di consenso elettorale che alle dinamiche proprie del sistema di relazioni industriali, di norma prevalenti nel settore privato. Tale situazione è stata soltanto parzialmente modificata dalla legge quadro sul pubblico impiego del 1983, a cui si deve, oltre che una cornice di riferimento per la contrattazione comune a tutti i settori del pubblico impiego, anche l'avvio di un'opera di razionalizzazione della parte imprenditoriale e le direttive per la costituzione di un Ministero per la funzione pubblica sotto il controllo del Consiglio dei Ministri, con responsabilità complessiva di coordinamento della politica del personale nei servizi pubblici. In sede di composizione della rappresentanza datoriale al tavolo negoziale, tale intento razionalizzatore si traduceva nel ruolo preminente assegnato all'autorità politica centrale al suo massimo livello nella delegazione per tutti i contratti nazionali di comparto: la legge, cioè, prevedeva delegazioni pubbliche differenziate a seconda del comparto interessato, ma tutte presiedute dal Presidente del Consiglio dei Ministri o, per sua delega, dal Ministro per la funzione pubblica. Il ruolo del Consiglio dei Ministri era tanto più rafforzato dalla sua responsabilità di controllo della compatibilità di tutti gli accordi con i vincoli di bilancio. L'esperienza sotto il regime della legge quadro ha tuttavia confermato la persistenza di molti dei problemi già riscontrati:

  • sovrapposizione e interferenze tra responsabilità politiche e amministrative;
  • subordinazione delle logiche contrattuali alle esigenze e ai tempi della politica;
  • deresponsabilizzazione della dirigenza amministrativa.

Successivamente, la riforma del 1993 ha riconfigurato in maniera significativa le caratteristiche della parte datoriale nei seguenti aspetti:

  • prerogative della dirigenza in materia di organizzazione del lavoro e gestione del personale;
  • rappresentanza in sede di contrattazione collettiva.

In relazione al primo aspetto, la riforma ha inteso rafforzare sostanzialmente i poteri della dirigenza e promuovere un suo interesse autonomo al buon funzionamento degli uffici, al riparo sia da indebite interferenze del potere politico sia dal paralizzante regime cogestionale che caratterizzava le relazioni sindacali sotto la legge quadro. L'autonomia rispetto agli organi di direzione politica è perseguita attraverso una distinzione dei rispettivi ruoli, per cui al versante politico è assegnata una triplice competenza (di indirizzo, di fissazione delle risorse e dei vincoli di bilancio, di verifica della rispondenza dei risultati alle direttive impartite), mentre alla dirigenza sono riconosciuti i poteri di gestione finanziaria, tecnica e amministrativa (ora art.4 del D.Lgs. n. 16/2001) con riferimento sia all'organizzazione interna degli uffici sia ai rapporti individuali di lavoro. L'autonomia dal regime cogestionale, invece, è affidata al superamento del modello della riserva di contrattazione della legge quadro. Questo rafforzamento dei poteri gestionali, liberati da interferenze politiche e veti sindacali, trova un bilanciamento nella maggiore responsabilità attribuita alla dirigenza stessa e si colloca nel quadro di un articolato sistema di controlli e di verifica dei risultati a cui è sottoposta e su cui è valutata la dirigenza, con sanzioni che possono arrivare fino al collocamento a disposizione o al collocamento a riposo per ragioni di servizio in caso di inosservanza delle direttive o risultati negativi della gestione.

Con riguardo poi alla rappresentanza datoriale in sede di contrattazione collettiva, l'innovazione più rilevante apportata dalla riforma del 1993 è la costituzione dell'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), in sostituzione della pluralità di agenti pubblici legittimati alle trattative nel regime della legge quadro del 1983.

L'ARAN, dotata di personalità giuridica, è guidata da un comitato direttivo composto da 5 membri nominati con decreto del Presidente del Consiglio che ne designa 3, su proposta del Ministro per la funzione pubblica di concerto con il Ministro del tesoro. Gli altri 2 membri sono designati 1 dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e l'altro, congiuntamente, dall'Associazione nazionale Comuni d'Italia (ANCI) e dall'Unione delle Province Italiane (UPI).

I membri vengono scelti tra esperti in materia di relazioni sindacali e di gestione del personale, anche estranei alla P.A. (art. 46, comma 6-7, D.Lgs. n.165/2001, già art. 50, comma 6-7, D.Lgs. n.23/1993, come novellato dal D.Lgs. n. 396/1997).

L'ARAN rappresenta tutte le PP.AA. per la stipulazione dei contratti nazionali (contratto che determina i comparti e le aree contrattuali, contratti di comparto, contratti quadro) e può assistere, se richiesta, le singole amministrazioni nella contrattazione integrativa. Dal punto di vista soggettivo sfuggono alla rappresentanza legale dell'ARAN le regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano, le quali possono dar vita a proprie agenzie ovvero contrattare direttamente avvalendosi della sola assistenza dell'ARAN (art. 46, comma 13).

La rappresentanza dell'ARAN assolve ad una duplice funzione:

  • fa sì che il contratto produca i suoi effetti nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni interessate, senza necessità di un atto di recezione da parte degli organi di governo di ciascuna di esse;
  • la sua attribuzione ad un unico organismo nazionale per tutte le PP.AA. favorisce la creazione di un quadro unitario delle politiche contrattuali seguite nei diversi comparti.

L'azione di rappresentanza dell'ARAN si svolge all'interno di atti di indirizzo espressi dai comitati di settore. Questi ultimi sono organismi appositi costituiti per ciascun comparto ed espressi dalle forme associative delle amministrazioni e degli enti rispettivamente interessati. Per le amministrazioni statali, opera come comitato di settore il Presidente del Consiglio dei ministri tramite il Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro del tesoro, nonché, per il sistema scolastico, di concerto con il Ministero della pubblica istruzione.

La rappresentanza dei lavoratori

Le peculiarità rispetto al settore privato sono:

  • una densità sindacale sensibilmente più elevata;
  • una marcata frammentazione organizzativa;
  • un tradizionale minore radicamento nei posti di lavoro.

La differenza più significativa riguarda la maggiore frammentazione della rappresentanza, particolarmente accentuata in alcuni comparti, che si manifesta in una consistente presenza del c.d. sindacalismo autonomo che riguarda le organizzazioni non affiliate alle tre confederazioni storiche. La frammentazione è dovuta alle divisioni di natura politico-ideologica e alla diffusa presenza di una pluralità di criteri di organizzazione (accanto ai criteri industriale e territoriale, assume rilievo anche la rappresentanza basata su criteri di mestiere e occupazionali). Il quadro che ne deriva è un insieme di sigle in alcuni comparti come la scuola, i ministeri, gli enti locali, in cui si arriva ad una presenza anche di 50 e più organizzazioni destinatarie di deleghe da parte dei lavoratori. La frammentazione è ovviamente legata al problema della rappresentatività sindacale; questo problema è stato affrontato dalla legge quadro del 1983 e poi ripreso nel D.Lgs. n. 29/1993. Infine, per quanto riguarda la rappresentanza sui luoghi di lavoro, anche nel settore pubblico sono state firmate, nel 1994, intese tra l'ARAN e le maggiori organizzazioni sindacali per l'istituzione delle RSU sul medesimo modello definito nel Protocollo del luglio 1993 e nell'accordo interconfederale del dicembre dello stesso anno.

Dipendenti pubblici - La contrattazione collettiva e la struttura contrattuale

Come già detto, uno degli elementi cardine della riforma è che i rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici hanno perso il loro carattere formalmente autoritativo per essere ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e regolati mediante contratti individuali e collettivi (art. 2, comma 1, lett. a, legge n. 421/1992). In questo nuovo quadro istituzionale, gli accordi sindacali non sono più un elemento di un più complesso procedimento che sfocia in un atto amministrativo di natura regolamentare, bensì atti di autonomia privata la cui legittimazione deriva dall'art. 39, comma1 della Costituzione. Questo principio comporta, di conseguenza, che il contratto collettivo regoli direttamente ed immediatamente il rapporto di lavoro pubblico, negli stessi termini di quello privato, senza bisogno di alcun atto di recezione da parte della P.A. Un'altra conseguenza di decisiva importanza è che la stipulazione dell'accordo è affidata al rapporto di forza negoziale che si viene a stabilire tra le parti. Se l'accordo non viene raggiunto, in linea di principio le PP.AA. possono procedere unilateralmente nei limiti in cui può farlo il privato datore di lavoro. Con un'unica eccezione: per ragioni di trasparenza della spesa pubblica, a differenza dei datori di lavoro privati, le amministrazioni non possono corrispondere ai dipendenti trattamenti economici superiori a quanto previsto dai contratti collettivi (art. 45 del D.Lgs. n. 165/2001). È chiara la centralità del ruolo che la riforma attribuisce alla contrattazione collettiva come fonte di regolazione dei rapporti di lavoro con la P.A. Ad essa viene infatti attribuita una competenza generale, prevedendo che possa svolgersi “su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali” (art. 40 D.Lgs. n. 165/2001). Il contratto collettivo ha anche l'effetto di far cessare l'efficacia delle norme di legge o di regolamento che attribuiscano trattamenti economici non previsti dal precedente contratto collettivo. Al riguardo, l'art.2, comma 3 del D.Lgs. n. 165/2001 prevede che “l'attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali. Le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall'entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale. I trattamenti economici più favorevoli in godimento sono riassorbiti con le modalità e nelle misure previste dai contratti collettivi e i risparmi di spesa che ne conseguono incrementano le risorse disponibili per la contrattazione collettiva”. Inoltre, norme di legge o di regolamento che introducano discipline particolari per i dipendenti pubblici possono essere derogate dai successivi contratti (art. 2, comma 2). L'intendimento di queste norme è evidentemente quello di difendere, per quanto possibile, il ruolo della contrattazione collettiva dalle tradizionali incursioni di leggine, a carattere particolaristico e clientelare, in favore di gruppi ridotti di dipendenti pubblici. In un quadro di aumentato grado di volontarietà della contrattazione collettiva e di minore interferenza di altri criteri di regolazione del rapporto, la struttura contrattuale prospettata dal D.Lgs. n. 29/1993 presenta varie analogie con quella delineata dall'accordo del luglio 1993. Si tratta di una struttura bipolare che vede come asse portante il contratto collettivo nazionale di comparto. I comparti sono settori omogenei o affini delle amministrazioni pubbliche, individuati da appositi accordi tra l'ARAN e le confederazioni sindacali rappresentative (art. 40, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001). Anche la definizione dell'ambito di applicazione del contratto collettivo è dunque affidata all'ordinario sistema negoziale. Lo stesso avviene per i dirigenti, per i quali sono previste aree contrattuali autonome, distinte, cioè, da quelli del personale delle altre qualifiche.

I comparti attualmente esistenti sono:

  • agenzie fiscali;
  • istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica e musicale;
  • aziende e amministrazioni autonome dello Stato;
  • enti pubblici non economici;
  • istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione;
  • ministeri;
  • regioni ed autonomie locali;
  • presidenza del Consiglio dei ministri;
  • sanità.

I principali elementi che accomunano i contratti nazionali di comparto del settore pubblico a quelli del settore privato riguardano:

  • la durata, attualmente fissata, con apposite direttive del Presidente del Consiglio dei ministri all'ARAN, in quattro anni per la parte normativa e due anni per quella retributiva;
  • i tempi di presentazione delle piattaforme;
  • una clausola di tregua sindacale per un periodo di 4 mesi a cavallo della scadenza del contratto in vigore;
  • la corresponsione dell'indennità di vacanza contrattuale in caso di mancato rinnovo del contratto entro 3 mesi dalla scadenza.

Riferimenti

Normativi:

D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80

D.Lgs. 4 novembre 1997, n. 396

Legge 15 maggio 1997, n. 127

Legge 15 marzo 1997, n. 59

D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29

Art. 19 Legge 20 maggio 1979, n. 300

Art. 39 Cost.

Giurisprudenza:

Cass., sez. lav., 17 marzo 2005, n. 5892

Cass., sez. lav., 3 marzo 2005, n. 4714