Partecipazione agli utili e alle perdite del socio di società di persone

Michelangelo Granato
02 Gennaio 2017

La partecipazione agli utili e alle perdite è un aspetto intrinsecamente connaturato al contratto di società e ne caratterizza la fattispecie e la disciplina. Nelle società di persone, la prevalenza della dimensione contrattuale rispetto a quella istituzionale, tipica invece delle società di capitali, implica un modello legale meno rigido e maggiormente attento alle prerogative individuali del socio nel rapporto con la collettività dei soci e un'ampia autonomia privata anche nella modulazione della ripartizione dei guadagni e delle perdite. Restano al proposito fermi, in ogni caso, i limiti all'autonomia privata previsti dalla disciplina di ciascun tipo sociale e dal generale divieto del patto leonino.
Inquadramento

La partecipazione agli utili e alle perdite è un aspetto intrinsecamente connaturato al contratto di società e ne caratterizza la fattispecie e la disciplina. Nelle società di persone, la prevalenza della dimensione contrattuale rispetto a quella istituzionale, tipica invece delle società di capitali, implica (i) un modello legale meno rigido e maggiormente attento alle prerogative individuali del socio nel rapporto con la collettività dei soci e (ii) un'ampia autonomia privata anche nella modulazione della ripartizione dei guadagni e delle perdite. Restano al proposito fermi, in ogni caso, i limiti all'autonomia privata previsti dalla disciplina di ciascun tipo sociale e dal generale divieto del patto leonino.

Con riferimento alla partecipazione ai guadagni, anche nelle società di persone l'utile distribuibile è costituito dalla differenza tra le attività e le passività, ivi compreso il passivo ideale rappresentato dal capitale sociale e dalle eventuali riserve indistribuibili. La ripartizione periodica degli utili è, salvo patto contrario, un diritto del socio di società di persone.

Di partecipazione alle perdite può parlarsi tanto durante la vita della società, quanto in sede di liquidazione della stessa. La perdita, che consiste nella eccedenza delle passività rispetto all'insieme delle attività, può intaccare il capitale, dando così luogo ad una perdita di capitale o, in sede di liquidazione, ad un credito di liquidazione a favore di ciascun socio di valore inferiore rispetto a quello del conferimento iniziale. Inoltre, nei casi più gravi, la perdita può erodere integralmente il capitale al punto da dover essere sopportata dai soci con i loro patrimoni personali (con l'eccezione dei soci accomandanti).

Profili causali e natura delle regole sulla partecipazione agli utili e alle perdite nelle società di persone

Le società di persone sono enti collettivi per l'esercizio dell'attività di impresa che possono svolgere attività commerciale (s.n.c. o s.a.s.) o non commerciale (s.s.) per raggiungere un risultato economico che può essere positivo (guadagno, quando il risultato, al netto dei costi di produzione e delle tasse, è superiore all'investimento complessivo inizialmente immesso dai soci), neutro (quando l'investimento iniziale è solamente recuperato all'esito del ciclo produttivo) o negativo (perdita, quando l'investimento collettivo non è stato nemmeno recuperato, o solo in parte). Attraverso il contratto di società i soci finanziano l'attività di impresa determinata dall'oggetto sociale e corrispondentemente godono i frutti, o sopportano le perdite, a seconda che il risultato economico sia positivo o negativo, ripartendosi il risultato economico secondo le proporzioni e le regole stabilite dallo statuto. Le società di persone, in questo senso, appartengono alla categoria dei contratti associativi a causa lucrativa. Infatti, ai sensi dell'art. 2247 c.c., l'esercizio in comune di un'attività condotta con metodo economico è finalizzato a produrre nuova ricchezza (c.d. lucro oggettivo), che è destinata ai soci (c.d. lucro soggettivo). D'altra parte, ad ogni attività economica si accompagna il rischio che il mercato risponda negativamente all'offerta di prodotti e servizi, di modo che le risorse utilizzate per la relativa produzione potranno esaurirsi senza essere recuperate, eventualmente nemmeno in parte. Guadagno e perdita sono pertanto due aspetti che caratterizzano causalmente il contratto di società e, in questo senso, le regole legali sulla partecipazione ai guadagni e alle perdite, tanto più nelle società di persone in quanto organizzazioni necessariamente collettive (cfr. artt. 2272, 2308 e 2323 c.c.), disciplinano le modalità con cui il risultato economico della società è distribuito tra i soci.

Diversamente dalle regole in materia di generazione e limiti alla distribuzione degli utili e di responsabilità per le obbligazioni sociali, che hanno un evidente rilievo esterno e pertanto tendono ad avere carattere inderogabile (ad esempio le norme sul capitale sociale e sull'accertamento degli utili e salva la possibilità del patto in deroga alla responsabilità illimitata nelle società semplici, comunque da portarsi a conoscenza dei terzi con mezzi idonei ai fini dell'opponibilità dello stesso, art. 2267, comma 2, c.c.), le regole di partecipazione agli utili e alle perdite incidono, entro gli ampi limiti di cui si dirà, unicamente sui rapporti interni. Pertanto, le disposizioni applicabili hanno carattere soltanto suppletivo e lo statuto delle società di persone può stabilire regole diverse per la partecipazione individuale al risultato economico, anche differenziando tra guadagni e perdite e tra i vari momenti in cui vengono in rilievo le regole di partecipazione. Resta come presidio estremo il divieto del patto leonino (art. 2265 c.c.), che proibisce di escludere, in misura totale e in maniera costante (Cass. 21 gennaio 2000, n. 642; recentemente Trib. Verona 26 maggio 2014, in Banca Borsa Tit. Cred., 2015, II, 733) uno o più soci da ogni partecipazione agli utili o alle perdite, o da entrambi. La ratio del divieto è generalmente quella di garantire la buona e corretta amministrazione dell'impresa soprattutto dal punto di vista degli incentivi dei partecipanti (Marasà, Le società, in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2000, 229; Santagata, Il divieto del patto leonino, in Trattato società di persone, Torino, 2015, 375).

Utili e perdite tra diritto alla percezione e responsabilità esterna

Come accennato, la realizzazione e l'accertamento dell'utile sono propedeutici alla relativa ripartizione. Il concetto di utile deve intendersi in senso normativo, per come risultante dal sistema della legge, che vede anche nelle società di persone un ruolo centrale del capitale sociale e del principio di realtà degli utili effettivamente distribuibili. In questo senso (i) l'utile distribuibile è unicamente quello ‘di bilancio' (o, per chiarezza, da rendiconto), cioè quella quota di attivi eccedente, nello stato patrimoniale, il passivo reale (i debiti) e quello ideale (il capitale sociale), per cui (ii) non sarà utile ‘realmente conseguito' quello destinato a coprire il capitale sociale e (iii) l'utile di esercizio (cui si riferisce l'art. 2303, comma 2, c.c.) non rileva mai ai fini delle distribuzioni, perché può essere necessario per la copertura di eventuali perdite di capitale (sulla nozione di utile, ex multis, Di Sabato, Società in generale. Società di persone, in Trattato Perlingieri, Napoli, 2004, 154 s.; Benatti, Diritto agli utili, in Trattato società di persone, Torino, 2015, 316 ss.). Il principio di realtà dell'utile è anzi enfatizzato maggiormente nelle società di persone rispetto alle società di capitali atteso che il socio di società di persone – presumibilmente per il suo normale coinvolgimento nella gestione dell'impresa (artt. 2257, 2261, 2295 n. 3), c.c.) – è comunque tenuto a restituire l'utile fittizio eventualmente percepito, senza possibilità di eccepire la buona fede (come previsto invece per il socio di s.p.a., art. 2433, comma 4, c.c., con l'eccezione del socio accomandante, art. 2321 c.c.).

Nelle società di persone la percezione dell'utile, correttamente generato e registrato dagli amministratori, costituisce un vero e proprio diritto a immediata esigibilità: la legge infatti lo condiziona unicamente all'approvazione del rendiconto (art. 2262 c.c.; Cass. 20 aprile 1995, n. 4454; Cass. 17 febbraio 1996, n. 1240; in senso apparentemente contrario Trib. Milano 11 settembre 2003, in Giur. comm., 2004, II, 434, ma con approccio non condivisibile in quanto aggiunge un requisito di previsione di effettiva distribuzione all'interno dell'approvazione del rendiconto, requisito assente nella disposizione dell'art. 2262 c.c., diversamente dall'art. 2433 c.c.), al punto che i guadagni non possono essere nemmeno reinvestiti senza l'assenso di ciascun socio (cfr. Trib. Catania 31 ottobre 1985, in Giur. comm., 1986, II, 444), con approccio nettamente contrario a quanto previsto per le società di capitali, nelle quali non può propriamente parlarsi di un diritto individuale all'utile, invece rimesso al volere della maggioranza assembleare (art. 2433, comma 1, c.c.). Lo statuto può comunque disporre altrimenti, indicando una maggioranza e il criterio di calcolo della stessa, e analogamente i soci all'unanimità possono rinunciare alla distribuzione a favore della società, con costituzione di una riserva (l'art. 2262 c.c. fa infatti salvo il patto contrario, stabilmente contenuto nell'atto costitutivo ovvero, in mancanza, espresso di volta in volta con delibera appunto unanime). Da tale impostazione civilistica sorge la conseguenza, sul piano tributario, che l'utile, a prescindere dalla percezione, è imputabile al reddito personale di ciascun socio in forza dell'art. 5 del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 (anche quando gli utili non siano iscritti a bilancio, Cass. 30 ottobre 2006, n. 23359).

Anche il concetto di perdita è privo di una specifica definizione legislativa, pur essendo ricorrente e molto importante nella disciplina patrimoniale di tutti i tipi sociali, in particolare in quella delle società di persone, visto il nesso tra la fattispecie delle perdite e il regime di responsabilità per le obbligazioni sociali. Infatti, come si vedrà, in alcuni dei momenti in cui la partecipazione al risultato economico si concretizza il socio di società di persone può essere chiamato a rispondere anche della perdita eccedente rispetto all'iniziale conferimento (con la nota eccezione del socio accomandante e del patto in deroga ex art. 2257 c.c. nella società semplice). Si materializza in questo modo uno dei principali aspetti differenzianti tra la classe delle società di persone e quella delle società di capitali, nelle quali invece il concetto di perdita è normalmente limitato al conferimento (in questo contesto, infatti, l'eccezione è rappresentata dal socio accomandatario di società in accomandita per azioni, art. 2452 c.c.).

In questa prospettiva, è tanto più rilevante, nei tipi societari personalistici, la regolazione convenzionale della sopportazione delle perdite, giacché ad essa si deve fare riferimento per la suddivisione delle stesse nei rapporti interni. Resta infatti ferma, nei rapporti esterni, la solidarietà tra i soci (artt. 2267, 2291 e 2313 c.c.). La solidarietà infatti neutralizza qualunque rilevanza esterna delle regole di sopportazione delle perdite, dando luogo ad un diritto di regresso in capo al socio che fosse chiamato a far fronte integralmente alle passività della società (art. 1299 c.c., Trib. Milano 21 marzo 2014). Tale diritto di regresso può essere esercitato, anche cumulativamente, da parte del socio nei confronti della società (contra, Trib. Lucera 3 dicembre 2008 e Trib. Nocera Inferiore 3 gennaio 2013; quest'ultima ha ritenuto non applicabile la disciplina del fideiussore al socio di società di persone; ma si vedano, per la qualificazione dei soci quali garanti ex lege delle obbligazioni sociali e l'affermazione del diritto di rivalsa nei confronti della società, Di Sabato, op. cit., 175; Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, Torino, 2015, 85 [in particolare, sulla non certa applicabilità della disciplina della fideiussione, soggetta ad « indagine norma per norma », ivi, nota 67]) e degli altri soci (che non potranno peraltro avvalersi del beneficio di preventiva escussione, in quanto opponibile esclusivamente nei confronti dei creditori sociali, Trib. Roma 15 aprile 2015). Da questo punto di vista, le regole di partecipazione alle perdite governano anche l'individuazione delle quote di regresso esigibili nei confronti degli altri soci. Il regresso nei confronti della società, ove essa sia solvibile, potrà essere chiaramente integrale, ovvero, ove il patrimonio della società non sia in grado di coprire integralmente l'esborso del socio, per l'ammontare scoperto il socio si rivarrà pro quota, per cui nel caso in cui un socio abbia sopportato integralmente le perdite, o adempiuto un'obbligazione, della società:

  • il socio solutore avrà titolo a rivalersi di quanto pagato paritariamente nei confronti degli altri soci e della società (non agendo il beneficio di preventiva escussione);
  • nei confronti degli altri soci, il socio solutore potrà domandare unicamente la quota di regresso per come determinata in base alle regole di partecipazione nelle perdite statutariamente previste, così sostenendo col proprio patrimonio personale una quota del debito/perdita (oltre all'eventuale quota addizionale della frazione di debito/perdita non pagata dal socio condebitore insolvente, art. 2280, comma 2, c.c.; la regola vale anche a beneficio degli eredi del socio solutore deceduto nei confronti dei soci superstiti, Cass. 16 gennaio 2009, n. 1036);
  • nei confronti della società, se il patrimonio della società è sufficientemente capiente, il socio avrà diritto a riottenere l'intero importo sborsato; ove invece il patrimonio della società non sia tale da coprire integralmente l'esborso, la parte non coperta dovrà essere allocata tra i soci secondo del regole di cui al punto precedente;

Occorre in ogni caso chiarire, da un lato, il rapporto tra perdite e obbligazioni sociali e, dall'altro, il concetto normativo di perdita. Sul primo punto, la perdita è sempre un concetto astratto che consiste nella eccedenza contabile delle passività reali aggregate rispetto all'insieme delle attività (contra, con riferimento all'art. 2265 c.c., Santagata, op. cit., 376 ss., il quale ritiene invece che le perdite siano riferite al « generico impoverimento » derivante dal mancato sfruttamento del bene, del godimento o delle energie lavorative conferiti/e e potenzialmente fonte di arricchimenti personali; in sostanza, se si è ben capito, quello che con linguaggio economico potrebbe definirsi il costo opportunità), laddove l'obbligazione sociale costituisce sempre una fattispecie concreta che trova fonte in uno specifico rapporto di dare (e avere) nei confronti di una controparte determinata. La perdita è dunque la manifestazione astratta-contabile della prevalenza delle obbligazioni sociali, complessivamente intese, sul patrimonio attivo della società. Sia la sopportazione delle perdite che la responsabilità per le obbligazioni sociali si distribuiscono tra i soci secondo la proporzione convenzionale con cui ciascuno partecipa alle perdite (Di Sabato, op. cit., 173; Campobasso, op. cit., 85). Sul secondo aspetto, dall'interpretazione della legge si desume che le perdite sociali nelle società di persone:

  • consistono, in generale, nella differenza negativa tra attività e passività patrimoniali in un dato esercizio (occorre fare riferimento al saldo tra attivo e passivo dello stato patrimoniale e non a quello del conto economico: il valore dell'utile di esercizio ricavato dal conto economico, espresso al n. 21) dell'art. 2425 c.c., è soltanto un componente dello stato patrimoniale, trasposto nel passivo, al n. IX della lettera A); per l'applicabilità delle disposizioni in tema di bilancio delle s.p.a. al rendiconto, non solo quelle relative ai criteri di valutazione [cfr. art. 2217, comma 2, c.c., Cass. 15 aprile 1992, n. 4569] e non solo per le società in accomandita semplice [espressamente art. 2320, comma 3, c.c.; Cass. 9 dicembre 2014, n. 25864], Campobasso, op. cit., 79, nota 56, il quale esclude però condivisibilmente le società semplici);
  • possono imputarsi al patrimonio personale dei soci per il supero del valore dei conferimenti (art. 2280 c.c., ad eccezione dei soci accomandanti, art. 2324 c.c.);
  • quando non superano interamente il valore dei conferimenti, ma sono, in un dato esercizio, comunque superiori alla somma del valore del patrimonio netto e del capitale sociale (per come registrati nel bilancio dell'esercizio precedente), danno luogo ad una perdita del capitale sociale che, come tale, impedisce la (formazione di utili di bilancio e, pertanto, la) distribuzione di utili (art. 2303 c.c., applicabile anche alle società semplici, Di Sabato, op. cit., 155; Benatti, op. cit., 318 ss., sebbene la collocazione della norma, nel capo relativo alla società in nome collettivo, sia fonte di dubbi);
  • non danno in nessun caso luogo allo scioglimento della società (cfr., nelle società di capitali, l'art. 2484, n.4), c.c.: le società di persone possono infatti anche proseguire l'attività con un patrimonio netto negativo (in mancanza di capitale minimo), salva ogni possibile valutazione in ordine allo stato di insolvenza o di crisi della società (artt. 5 e 160 l. fall.);
  • possono essere allocate internamente tra i soci in maniera libera (ferma restando la responsabilità esterna illimitata dei soci, art. 2280 c.c., comma 2, c.c., e salvo il divieto del patto leonino);
  • vengono effettivamente sopportate dai soci solo in determinati momenti specificamente previsti e regolati dalla legge, come subito si vedrà.
I “momenti” della partecipazione al risultato economico

Prima di esaminare nel merito le regole legali di default e i numerosi possibili esercizi dell'autonomia privata in tema di partecipazione agli utili e alle perdite, è possibile verificare la periodicità, più o meno regolare, dei “momenti” organizzativi in cui la partecipazione, intesa come imputazione giuridica del risultato economico dell'impresa sociale al patrimonio individuale di ciascun socio, può materializzarsi e dunque le relative regole, siano esse legali o convenzionali, sono chiamate in causa.

Quanto all'utile, sebbene il risultato vero e proprio sia effettivamente riscontrabile solo alla fine del ciclo produttivo quantunque lungo, giacché solo allora sarebbe davvero possibile “tirare le somme” e giungere ad una definitiva allocazione delle risorse generate (o rimaste) tra soci e creditori nel concorso liquidatorio, per intuitive ragioni pratiche di soddisfazione delle esigenze concrete e quotidiane dei soci, ma anche e soprattutto per incentivare l'investimento nelle attività imprenditoriali (Bavetta, La ripartizione degli utili, in Trattato società di persone, Torino, 2015, 1397), il legislatore ha concesso la possibilità ai soci di tutti i tipi sociali di riscuotere il ritorno (ove realizzato) sul proprio investimento ad intervalli costanti: gli esercizi sociali. Fissata d'imperio la durata annuale degli esercizi (art. 2261, comma 2, c.c., che fa comunque salva la facoltà di determinare un diverso termine in contratto), ad ogni rendiconto il socio matura il diritto all'utile; la relativa ripartizione avverrà, ad opera degli amministratori quali esecutori del deliberato, al momento dell'approvazione del rendiconto e avrà carattere definitivo (non sarà cioè in alcun modo soggetto alle successive vicende della società, di modo che il socio potrà casomai essere tenuto, in sede di liquidazione, a versamenti ex novo e aggiuntivi ove la situazione patrimoniale della società sia passiva, cfr. App. Bologna 21 maggio 1994, in Soc., 1994, 1366, non invece alla restituzione degli utili percepiti, se effettivamente esistenti al momento dell'approvazione: le somme percepite a titolo di utili, poi riconosciuti contabilmente e giudizialmente fittizi sono invece soggette all'azione di ripetizione, indipendentemente dallo stato soggettivo del socio, ma si veda l'art. 2321 c.c. per la diversa protezione degli accomandanti).

La regolare periodicità potrà essere comunque variata e interrotta, soltanto con la previsione in statuto, di distribuzione di acconti (stante sempre la possibilità del patto contrario ex art. 2262 c.c., Cass. 9 luglio 2003, n. 10786; Cass. Pen. 13 maggio 2009, n. 38529; Benatti, op. cit., 325; per l'espressa autorizzazione codicistica nelle società per azioni, e le relative condizioni, cfr. art. 2433-bis c.c.; è d'altronde dispositivo anche il termine di rendiconto, art. 2261, comma 2, c.c.). L'utile deve peraltro essere accertato e attribuito anche in sede di liquidazione della quota collegata allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio (art. 2289 c.c.) e nel caso di scioglimento della società (art. 2282 c.c., ma prima del verificarsi della causa di scioglimento, si veda infatti Triveneto, Massima O.A.6, settembre 2010).

In evidenza: Consiglio Notarile del Triveneto, Massima O.A.6, settembre 2010

Il Comitato interregionale dei consigli notarili delle tre Venezie ha circoscritto l'ampiezza dell'autonomia privata e la disciplina applicabile dei soci in materia di criteri di ripartizione dell'attivo di liquidazione a seconda che la causa di scioglimento sia intervenuta o meno: “ai soci è consentito, con l'introduzione nel contratto sociale di una clausola programmatica, di determinare liberamente i criteri di ripartizione dell'attivo di liquidazione, purché ciò avvenga all'unanimità e sia rispettato il divieto del patto leonino. Si ritiene tuttavia che dal verificarsi di una causa di scioglimento in poi tale facoltà non sia più consentita, poiché da tale momento è entrato nel patrimonio individuale di ogni singolo socio il diritto di credito alla ripartizione dell'attivo secondo i criteri precedentemente fissati. Per poter ottenere dunque la ripartizione dell'attivo di liquidazione in maniera difforme rispetto ai criteri di contratto vigenti al momento del verificarsi di una causa di scioglimento sarà necessario attuare gli opportuni negozi traslativi dei diritti di credito vantati dai singoli soci utilizzando uno degli schemi consentiti dall'ordinamento (donazione, vendita, rinuncia, ecc.)”.

L'effettiva sopportazione delle perdite da parte dei soci si può avere in tre diversi momenti della società: la riduzione del capitale per perdite, la liquidazione della quota e la liquidazione della società. Ne consegue che, diversamente dalla percezione degli utili, l'imputazione giuridica delle perdite al patrimonio personale del socio prescinde dal momento di approvazione del rendiconto (cfr. Campobasso, op. cit., 81). Ciò ancor più nelle società di persone per quanto accennato in precedenza, che le società di persone possono anche proseguire l'attività con un patrimonio netto negativo. Contrariamente a quanto stabilito per le società di capitali (artt. 2446, 2447, 2482-bis, 2482-ter e 2484 n. 2), c.c.), in nessun caso l'insorgenza di perdite costringe i soci a farsene carico, cioè a ridurre il capitale o a coprirle, durante societate. Anche in caso di perdita di capitale, dunque, i soci di società di persone potranno rinviare a nuovo la perdita, con l'unico vincolo di non poter distribuire utili fino al pieno recupero della stessa. I soci potranno sempre assorbire definitivamente la perdita di capitale riducendo il capitale ai sensi dell'art. 2306 c.c. (per le società in nome collettivo e in accomandita: riduzione sempre facoltativa). Solo ove la perdita perdurasse sino alla liquidazione della società, o il socio interrompesse il proprio rapporto sociale in costanza di perdite (che impatteranno sul credito di liquidazione individuale della quota, siano esse derivanti da operazioni concluse ovvero da operazioni in corso, art. 2289, comma 3, c.c., che dunque implica la difficile gestione degli utili e delle perdite non ancora consolidati/e: si deve ritenere al proposito che le parti possano accordarsi stabilendo una liquidazione a forfait, senza che ciò determini un danno per i terzi, dovendosi interpretare come patto di allocazione interna delle perdite, sempre consentito, senza pregiudizio per le responsabilità esterne ex lege di cui agli artt. 2280 e 2290 c.c.), la relativa sopportazione dovrà essere suddivisa secondo le regole specifiche che essi si siano dati o, in mancanza, secondo quelle legalmente dettate dall'art. 2263 c.c. (cfr. Campobasso, op. cit., 81).

Il modello legale suppletivo di partecipazione agli utili e alle perdite

Nel contesto delle società di persone gli stessi patti fondamentali non sono vincolati ad una forma (art. 2251 c.c.) e ad un contenuto (cfr. invece nelle s.p.a. gli artt. 2328 e 2332, n. 3), c.c.; nella s.r.l. l'art. 2463 c.c. e nelle s.r.l. semplificate l'art. 2463 bis c.c.). Infatti, anche per la società in nome collettivo non sussiste alcun vincolo di contenuto, atteso che la conformità in concreto dell'atto costitutivo all'art. 2295 c.c., che al n. 8) richiederebbe l'indicazione delle norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite, non costituisce che una condizione di regolarità della società, di modo che l'eventuale assenza di uno o più dei requisiti di contenuto determinerà soltanto l'impossibilità di procedere alla pubblicazione dell'atto costitutivo nel registro delle imprese ai sensi dell'art. 2296 c.c. e, così, l'applicazione della diversa disciplina della società semplice nei rapporti esterni, come impone l'art. 2297 c.c. (Campobasso, op. cit., 57). Al chiaro scopo di conciliare il generale principio di libertà contrattuale degli aderenti al contratto di società di persone con l'esigenza di certezza del diritto e di prevenire difficoltose ricerche della volontà delle parti, specie in un ambito particolarmente centrale quale quello della condivisione degli utili e delle perdite, il legislatore ha apprestato un regime suppletivo per misurarne la partecipazione anche ove il contratto non disponga in materia. Al riguardo, occorre sottolineare come il carattere solo sussidiario della norma si confermi nella sua struttura. Infatti, l'art. 2263 c.c. si fonda su tre presunzioni relative:

  • presunzione di proporzionalità ai conferimenti delle parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite (art. 2263, comma 1, primo periodo);
  • presunzione di uguaglianza delle parti in mancanza di valorizzazione espressa dei conferimenti (art. 2263, comma 1, secondo periodo); e
  • presunzione di simmetria della partecipazione ai guadagni e alle perdite (art. 2263, comma 3, c.c.).

Come rilevato in dottrina e in giurisprudenza, tali presunzioni possono essere tutte vinte tramite la prova contraria (Di Chio, 2254, in Commentario Cendon, V**, Torino, 1991, 813, il quale richiama Cass. 1963, n. 569, che ha censurato per violazione di legge dovuta a vizio di motivazione la pronuncia di prime cure che aveva fatto prevalere la presunzione senza effettivamente indagare sulla volontà delle parti: a riguardo si deve però puntualizzare che tale conclusione è condivisibile nei limiti in cui si ricordi che la presunzione relativa esime senz'altro il giudice dall'accertamento dei fatti costitutivi in essa dedotti fintanto che non sia contestata, necessariamente su istanza di parte, per cui l'indagine sulla volontà delle parti non può essere promossa d'ufficio), eventualmente rinvenibile nel comportamento concreto dei soci, se sufficientemente univoco e costante, ad esempio:

  • ove negli esercizi precedenti gli utili siano stati pagati in misura costante e sistematicamente difforme rispetto a quella dei conferimenti, tale comportamento costituirà prova delle regole di condivisione dei guadagni, per cui sarà vinta la prima presunzione (proporzionalità ai conferimenti) e si potrà eventualmente applicare l'ultima (simmetria di partecipazione ai guadagni e alle perdite);
  • ove in precedenti decisioni di riduzione del capitale (facoltativa) per perdite i soci abbiano ridotto le rispettive quote in misura non proporzionale ai conferimenti, anche in questo caso la prima tra le citate presunzioni non troverà applicazione e potrà invece inferirsi una presunzione inversa in base alla quale dedurre altresì la partecipazione ai guadagni (sulla correttezza della costruzione di presunzioni implicite inverse in base a quelle espresse dell'art. 2263 c.c., Di Chio, op. cit., 814);
  • le circostanza possono peraltro combinarsi, di modo che in presenza di decisioni su utili e perdite secondo proporzioni discordanti sia tra di loro che rispetto all'entità dei conferimenti, tanto la prima presunzione di proporzionalità a questi ultimi, quanto l'ultima presunzione di simmetria tra utili e perdite, si infrangono;
  • infine, la stessa presunzione di uguaglianza delle parti può essere compromessa quando il valore di stima di un bene in natura non sia uguale a quello dei conferimenti in danaro, per cui dovranno essere rispettate le proporzioni dei conferimenti in coerenza con la presunzione di proporzionalità ex art. 2263, comma 1, primo periodo, c.c., e ove vi siano dei conferimenti non stimati sarà necessario procedere alla relativa stima per individuare la partecipazione dei rispettivi conferenti in relazione al valore degli altri (Di Sabato, op. cit., 157; sull'eventualità di una compresenza di beni e conferimento d'opera si veda nel seguito).
Il socio d'opera

Un aspetto particolare e obiettivamente controverso è la definizione della partecipazione del socio d'opera agli utili e alle perdite. Come noto, è dibattuto, tra l'altro, se (i) il conferimento d'opera sia imputabile a capitale, (ii) quali regole si applichino al socio d'opera in assenza di espressa determinazione, (iii) se il socio d'opera partecipi al rimborso dei conferimenti ex art. 2282 c.c. (e, ci si deve chiedere, specularmente, alle perdite della società ex art. 2280, comma 2, c.c.). A riguardo, si è altrove (Granato, Il capitale sociale nelle società di persone, in questo portale) data risposta affermativa al primo punto, dando pure conto, sul terzo punto, della problematica soluzione nel senso dell'esclusione del socio d'opera dal rimborso dei conferimenti.

Su quest'ultima questione, peraltro, anche alla luce della precedente analisi in tema di allocazione delle perdite, prevalgono gli argomenti a favore della partecipazione al rimborso anche del socio d'opera. Infatti, mette conto segnalare come la lettera dell'art. 2280 c.c., nel prefigurare la possibilità di una richiesta di versamenti integrativi per far fronte alle perdite sociali, da un lato non distingua tra tipologie di conferimenti e dunque di soci, e dall'altro faccia sostenere tali perdite in proporzione della parte di ciascuno nelle perdite, con rinvio, dunque all'art. 2263 c.c., ivi compreso il comma 2 (applicabile anche in sede di scioglimento e liquidazione, Cass. 4 febbraio 1980, n. 777). Ne consegue, che una volta stabilita dal giudice secondo equità la parte di chi abbia conferito opera o servizi, a tutti gli effetti costui sarà tenuto a sopportare una quota di perdite anche in sede di scioglimento e liquidazione (ferma restando la possibilità del patto contrario, eccezionale deroga al patto leonino, Cass. 21 gennaio 2000, n. 642; non è pertanto condivisibile la posizione di Santagata, op. cit., 377 s., il quale limita al frustra laborare, cioè alla prospettiva di lavorare senza essere retribuito, il rischio del socio d'opera). Se così è, allora, non si vede come al socio d'opera non possa allora spettare il rimborso del conferimento, una volta determinato secondo i criteri sussidiari dell'art. 2263 c.c. Al proposito, occorre peraltro evidenziare che non mai si applicherà la presunzione di uguaglianza tra conferimenti d'opera e di capitale di cui all'art. 2263, comma 2, c.c., giacché la legge prevede uno specifico canone di determinazione al comma 2 dello stesso articolo. Prevale pertanto la statuizione del giudice secondo equità (Cass. 2 agosto 1995, n. 8462). In base a tale impostazione:

  • il conferimento d'opera o di servizi concorre al capitale delle società di persone – che quindi è costituito dalla somma dei valori di tutte le utilità in danaro, natura, opera o servizi specificamente imputati – anche ove non ne sia indicato un valore nell'atto costitutivo e senza che la separata indicazione al n. 7) dell'art. 2295 c.c., per le società in nome collettivo, rilevi ai fini della ricostruzione della posizione giuridica del conferimento e del socio d'opera;
  • ove il relativo valore non sia indicato nell'atto costitutivo, anche qualora tutti gli altri conferimenti siano quantificati in misura uguale convenzionalmente o per effetto dell'art. 2263 c.c., esso deve essere ricavato secondo equità dal giudice ai fini del rimborso o, in sede di trasformazione progressiva, ai fini dell'assegnazione di azioni o quote (la diretta ricostruibilità del valore della partecipazione (leggasi conferimento, Beltrami, 2500 quater, in Le società per azioni, Milano, 2016, 3210) secondo il criterio di equità in mancanza di specifico accordo è infatti ormai accolta – nemmeno troppo implicitamente – dalla legge all'art. 2500-quater, comma 2, c.c.);
  • in tale ultimo caso il giudice dovrà di volta in volta “fotografare” il grado di arricchimento della società al momento del giudizio, arricchimento soggetto a successivi incrementi ove la prestazione sia continuativa e sine die (senza un termine, il che rende il conferimento d'opera una sorta di “conferimento variabile”);
  • si applicheranno i principi di cui all'art. 2286, comma 2, c.c. per l'ipotesi di sopravvenuta inidoneità (impossibilità), o di cui all'art. 2286, comma 1, c.c., per quella di (grave) inadempimento colposo, (Cass. 1 giugno 1991, n. 6200);
  • ove tale valore sia stabilito nell'atto costitutivo, ma non la parte di guadagni e perdite, non sarebbe comunque utilizzabile la presunzione di proporzionalità tra partecipazione e conferimenti perché il legislatore ha previsto per tali tipi di utilità un sistema di accertamento suppletivo integralmente alternativo a quello dell'art. 2263, comma 1, c.c. (sicché, anche in costanza di un valore ben definito del conferimento d'opera, e pur essendo la proporzionalità tra conferimenti e parti rispettata per gli altri tipi di conferimento, l'esito del giudizio secondo equità potrà discostarsene motivatamente);
  • ove sia indicata la misura della parte nei guadagni e nelle perdite solo dei portatori di conferimenti in danaro, e tale misura sia diversa da quella dei relativi conferimenti, quella del socio d'opera sarà determinata in relazione e in proporzione alla misura delle altre parti e non dei conferimenti (col risultato che, quindi, il giudice potrà essere chiamato a determinare distintamente, secondo equità, da un lato, il valore del conferimento d'opera o servizi, e dall'altro la parte del conferente);
  • tali principi si applicheranno ad ogni momento organizzativo in cui si abbia ripartizione dei guadagni e delle perdite, tanto quindi in sede di rendiconto, quanto in sede di scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio (Cass. 20 marzo 2001, n. 3980), quanto in sede di scioglimento della società (Cass. 4 febbraio 1980, n. 777).

Per quanto sopra, particolarmente centrale diviene il ruolo del giudice e della sua valutazione secondo equità: atteso che tale decisione influirà anche sulla quota residua degli altri soci (di rimborso e di surplus), il giudice dovrà tendere a raggiungere un equo contemperamento degli interessi, esaminando in concreto e tenendo conto « degli elementi che di volta in volta caratterizzano la fattispecie » (Cass. 2 agosto 1995, n. 8462; cfr. Di Sabato, op. cit., 157 s.; Benatti, op. cit., 328 ss., Campobasso, op. cit., 79 nota 55; si esclude quasi unanimemente che si applichino al socio d'opera i principi, anche costituzionali, sulle tutele del lavoratore), col delicato compito di decifrare il meccanismo di partecipazione, se determinato solo per i conferimenti diversi dall'opera o dal servizio in misura non proporzionale. Si noti che l'importanza della determinazione è tale anche perché essa estende i suoi effetti in sede tributaria (Comm. trib. centr., 2 dicembre 1985, n. 1236). Vista la complessità e la difficile prevedibilità delle soluzioni giudiziali al problema della partecipazione del socio d'opera, specialmente ove la prestazione lavorativa sia continuativa e il conferimento “variabile”, è buona norma trattare sempre in statuto la tematica dell'entità dei conferimenti e della partecipazione ai risultati della società, ad esempio quantificando in statuto la durata della prestazione e il valore ad essa attribuito (per analoga conclusione nelle s.r.l., art. 2464, comma 6, c.c. Consiglio Notarile di Milano, Massima n. 9, 18 marzo 2004) e sfruttando gli ampi spazi concessi dal codice con precisione e completezza.

È d'uopo infine menzionare anche la possibilità di rimettere la determinazione della parte di ciascun socio nei guadagni e nelle perdite ad un terzo, art. 2264 c.c., il quale potrà decidere con mero arbitrio, se espressamente previsto, o con equo apprezzamento, con conseguenze differenti sul piano delle basi per l'impugnazione (Benatti, op. cit., 329 s.). Il giudizio del terzo coinvolgerà ad ogni modo tutti i soci, ivi compresi i soci d'opera.

Le possibili espressioni dell'autonomia privata nella determinazione della partecipazione agli utili e alle perdite e i relativi limiti

Stante il rilievo interno delle regole di partecipazione agli utili e alle perdite nelle società di persone, i soci sono liberi di esercitare l'autonomia privata su più livelli e entro limiti molto ampi, atteso che il divieto del patto leonino – che pur si deve interpretare in senso sostanziale e non formale (imponendo infatti « una seria possibilità che tutti i soci partecipino al riparto degli utili e delle perdite », Santagata, op. cit., 375; Campobasso, op. cit., 78; Di Sabato, op. cit., 51; Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927), diversamente l'operatività della disposizione dell'art. 2265 c.c. sarebbe limitata al caso (di scuola) in cui espressamente i partecipanti abbiano direttamente e integralmente esentato dalle perdite, o escluso dagli utili, uno o più soci (per alcuni esempi concreti nelle società azionarie Marasà, op. cit., 229; per le società di persone, esempi di clausole nulle o problematiche in Santagata, op. cit., 393 ss.; Di Sabato, op. cit., 51 s., porta l'esempio di una clausola di attribuzione degli utili o delle perdite condizionata al raggiungimento di soglie impossibili in considerazione dell'attività e dei conferimenti; analogamente Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927). Proprio nell'ottica di divincolare dagli angusti confini della disposizione la ratio della norma, si ritiene ormai pacifica l'applicabilità del divieto anche ai patti parasociali che abbiano effetti sostanzialmente analoghi a quelli contrastati dalla norma (la nullità del patto parasociale non sarà automatica, come invece per le clausole statutarie, ma dovrà verificarsi caso per caso sulla base di un giudizio di meritevolezza degli interessi veicolati dal patto, sul quale si veda Santagata, op. cit., 375; Campobasso, op. cit., 397 ss.). Perché sia considerato nullo, il patto deve escludere la partecipazione in misura totale e in maniera costante (Cass. 21 gennaio 2000, n. 642; Trib. Verona 26 maggio 2014, cit.).

Entro tali limiti, è piena l'autonomia statutaria e contrattuale dei soci in materia di partecipazione agli utili e alle perdite, come si diceva, su più livelli. In generale, data la collocazione e l'ampiezza dei riferimenti al patto contrario e al contratto negli artt. 2262 e 2263 c.c., la deroga convenzionale può interessare ogni aspetto della partecipazione e quindi:

  • l'esigibilità individuale, che può essere compressa in statuto fino ad assoggettarla alla volontà di una maggioranza, ovvero fino ad originare una riserva a favore della società (si badi che, per Cass. 27 febbraio 2002, n. 2899, anche in questi ultimi casi il reddito da utili è imputato a quello proprio del contribuente per effetto di una presunzione di effettiva percezione: cfr. a riguardo Cass. 2 febbraio 2009, n. 2569, che conferma la qualificazione degli utili non distribuibili quali crediti dei soci ma prefigura la possibilità di una delibera che specificamente imputi la riserva ad incremento del patrimonio della società);
  • la periodicità, che può essere anticipata rispetto al rendiconto, o scaglionata pure infrannualmente o pluriannualmente (art. 2261, comma 2, c.c.);
  • la misura della partecipazione, sicché anche una partecipazione eventualmente disproporzionale rispetto ai conferimenti e/o rispetto ai corrispondenti diritti amministrativi e/o asimmetrica tra utili e perdite è senz'altro ammissibile e non confligge con il divieto di patto leonino, che non tutela l'equilibrio tra prerogative corporative e aspettative economiche (Santagata, op. cit., 379);
  • l'autonomia può inoltre espandersi fino ad ogni momento organizzativo della società, ivi compreso lo scioglimento del rapporto sociale e del contratto sociale, in forza dei rinvii impliciti all'art. 2263 c.c. contenuti negli artt. 2280, comma 2, 2282 e 2289, c.c., eventualmente differenziando i criteri di partecipazione per ciascun momento organizzativo (cfr., per la liquidazione della società, Triveneto, Massima O.A.6, settembre 2010, citata supra), ferme restando le responsabilità ex lege esterne;
  • giova ricordare la peculiare impostazione giurisprudenziale per la quale il socio d'opera può essere pattiziamente escluso dagli utili o dalle perdite, con eccezionale deroga al divieto di patto leonino, ove corrispondentemente esonerato dall'obbligo di sopperire al fabbisogno finanziario (Cass. 21 gennaio 2000, n. 642; per analoga impostazione in relazione ai patti parasociali, Trib. Cagliari, 3 aprile 2008, in Riv. dir. comm., 2011, II, 95; in tema si veda Santagata, op. cit., 397 ss.);
  • anche la rimessione a un terzo ex art. 2264 c.c. contribuisce ad ampliare il perimetro della libertà contrattuale dei soci di società di persone.

Ci si può domandare quale sia la sede legittima di tali possibili espressioni dell'autonomia privata. Si tratta di chiarire se sia necessaria la clausola statutaria o sia sufficiente una delibera, e in tal caso in quali limiti e a quali condizioni. Al riguardo, si può sinteticamente e schematicamente argomentare come segue:

  • con riferimento alla materia della esigibilità individuale, è evidente come, nonostante l'apparente apertura del concetto di “patto contrario” dell'art. 2262 c.c., ove si voglia comprimere in maniera generalizzata il diritto all'utile assoggettandolo al principio maggioritario, sarà necessario che tale compressione sia sancita nello statuto (atto costitutivo), per evidenti esigenze di certezza e prevedibilità a beneficio anche dei subentranti, oltre che in ossequio all'art. 2252 c.c. Non sembra pertanto sufficiente una deliberazione, per quanto unanime, che così disponga pro futuro;
  • è per converso ammissibile che i soci, con decisione unanime (Benatti, op. cit., 324; Di Sabato, op. cit., 175), decidano di costituire una riserva, sia che tale opzione sia espressamente autorizzata in statuto, sia che l'atto costitutivo nulla preveda, e addirittura anche ove la vieti, senza che in questo caso vi siano interessi diversi da quelli dei soci stessi ad esser lesi (i quali sarebbero pure gli unici interessati ad far valere il divieto, essendo ictu oculi più vantaggioso per la società, i relativi creditori e i futuri soci il mantenimento in società di risorse);
  • anche la periodicità potrà essere oggetto di deroga necessariamente statutaria (Benatti, op. cit., 325), sebbene la distribuzione di acconti rappresenti in molte società una vera e propria prassi, non sempre consacrata negli atti costitutivi;
  • pure per la diversa determinazione della misura delle parti nei guadagni e nelle perdite pare obiettivamente necessaria una regolamentazione preventiva in statuto, per il riferimento letterale al contratto dell'art. 2263 c.c.; in dottrina si è al proposito ipotizzato che lo statuto deleghi le determinazioni sul punto alle deliberazioni assembleari (solo incidentalmente, Marasà, op. cit., 268); la soluzione potrebbe essere percorribile proprio nelle società di persone con partecipazioni di opera o servizi, così che la quantificazione potrebbe di volta in volta essere condotta in base alle risultanze dell'esercizio in corso relativamente all'effettivo impatto dell'apporto del lavoratore, ferme restando le regole suppletive legali in caso di disaccordo (rimane peraltro anche qui valida la precedente raccomandazione di un'ordinata e completa sistemazione statutaria del meccanismo di determinazione “negoziata” e periodica);
  • solo in statuto potrà essere infine applicata la particolare deroga al patto leonino citata per il socio d'opera e la rimessione al terzo ex art. 2264 c.c.

Sono dibattute le conseguenze della nullità della clausola statutaria per effetto dell'art. 2265 c.c. Parte della dottrina opta per la nullità della partecipazione ex art. 1419 c.c. (nullità parziale), ove si accerti che non sarebbe stata assunta senza la clausola dichiarata nulla (Di Sabato, op. cit., 52; Campobasso, op. cit., 78, nota 54;). La nullità della stessa si ripercuoterebbe sull'intero contratto sociale ove la clausola fosse riconosciuta essenziale ai sensi dell'art. 1420 c.c. A questa impostazione altra parte della dottrina replica che l'effetto espansivo della nullità per essenzialità della clausola si avrebbe in definitiva sempre, stante l'incidenza di una disposizione leonina nell'economia del contratto di società (Marasà, op. cit., 231), di modo che sarebbe inconferente la distinzione tra partecipazione essenziale / non essenziale, dovendosi in ultima analisi concludere per la nullità automatica tout court della partecipazione. Una terza ricostruzione, sul corretto rilievo che l'effetto della nullità condurrebbe all'applicazione del precetto in positivo dell'art. 2265 c.c. in luogo della disposizione nulla, deducibile nella necessità che ogni socio partecipi agli utili e alle perdite, conclude più condivisibilmente per l'applicazione, a mero scopo quantificativo, dei criteri dell'art. 2263 c.c., che mantiene quindi il carattere suppletivo (imperativo rimanendo solo il precetto dell'art. 2265 c.c., Santagata, op. cit., 406 ss., così superando le obiezioni di Marasà, op. cit., 230 s.).

Il patto leonino non è comunque applicabile all'associato in partecipazione (Cass. 1 ottobre 2008, n. 24376, che conferma come l'unica regola inderogabile consista nel divieto di porre a carico del medesimo perdite in misura superiore al suo apporto).

Riferimenti

Normativi

  • Artt. 2262 ss. c.c.
  • Art. 2500-quater c.c.

Prassi

  • Consiglio Notarile del Triveneto, Massima O.A.6, settembre 2010
  • Consiglio Notarile di Milano, Massima n. 9, 18 marzo 2004

Giurisprudenza

  • Cass. 9 dicembre 2014, n. 25864
  • Cass. 16 gennaio 2009, n. 1036
  • Cass. 2 febbraio 2009, n. 2569
  • Cass. pen. 13 maggio 2009, n. 38529
  • Trib. Roma 15 aprile 2015
  • Trib. Milano 21 marzo 2014
  • Trib. Verona 26 maggio 2014, in Banca Borsa Tit. Cred., 2015, II, 733
  • Trib. Nocera Inferiore 3 gennaio 2013
  • Trib. Cagliari, 3 aprile 2008, in Riv. dir. comm., 2011, II, 95
  • Trib. Lucera 3 dicembre 2008
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