Partecipazione agli utili e alle perdite del socio di società di personeFonte: Cod. Civ. Articolo 2262
02 Gennaio 2017
Inquadramento
La partecipazione agli utili e alle perdite è un aspetto intrinsecamente connaturato al contratto di società e ne caratterizza la fattispecie e la disciplina. Nelle società di persone, la prevalenza della dimensione contrattuale rispetto a quella istituzionale, tipica invece delle società di capitali, implica (i) un modello legale meno rigido e maggiormente attento alle prerogative individuali del socio nel rapporto con la collettività dei soci e (ii) un'ampia autonomia privata anche nella modulazione della ripartizione dei guadagni e delle perdite. Restano al proposito fermi, in ogni caso, i limiti all'autonomia privata previsti dalla disciplina di ciascun tipo sociale e dal generale divieto del patto leonino. Con riferimento alla partecipazione ai guadagni, anche nelle società di persone l'utile distribuibile è costituito dalla differenza tra le attività e le passività, ivi compreso il passivo ideale rappresentato dal capitale sociale e dalle eventuali riserve indistribuibili. La ripartizione periodica degli utili è, salvo patto contrario, un diritto del socio di società di persone. Di partecipazione alle perdite può parlarsi tanto durante la vita della società, quanto in sede di liquidazione della stessa. La perdita, che consiste nella eccedenza delle passività rispetto all'insieme delle attività, può intaccare il capitale, dando così luogo ad una perdita di capitale o, in sede di liquidazione, ad un credito di liquidazione a favore di ciascun socio di valore inferiore rispetto a quello del conferimento iniziale. Inoltre, nei casi più gravi, la perdita può erodere integralmente il capitale al punto da dover essere sopportata dai soci con i loro patrimoni personali (con l'eccezione dei soci accomandanti). Profili causali e natura delle regole sulla partecipazione agli utili e alle perdite nelle società di persone
Le società di persone sono enti collettivi per l'esercizio dell'attività di impresa che possono svolgere attività commerciale (s.n.c. o s.a.s.) o non commerciale (s.s.) per raggiungere un risultato economico che può essere positivo (guadagno, quando il risultato, al netto dei costi di produzione e delle tasse, è superiore all'investimento complessivo inizialmente immesso dai soci), neutro (quando l'investimento iniziale è solamente recuperato all'esito del ciclo produttivo) o negativo (perdita, quando l'investimento collettivo non è stato nemmeno recuperato, o solo in parte). Attraverso il contratto di società i soci finanziano l'attività di impresa determinata dall'oggetto sociale e corrispondentemente godono i frutti, o sopportano le perdite, a seconda che il risultato economico sia positivo o negativo, ripartendosi il risultato economico secondo le proporzioni e le regole stabilite dallo statuto. Le società di persone, in questo senso, appartengono alla categoria dei contratti associativi a causa lucrativa. Infatti, ai sensi dell'art. 2247 c.c., l'esercizio in comune di un'attività condotta con metodo economico è finalizzato a produrre nuova ricchezza (c.d. lucro oggettivo), che è destinata ai soci (c.d. lucro soggettivo). D'altra parte, ad ogni attività economica si accompagna il rischio che il mercato risponda negativamente all'offerta di prodotti e servizi, di modo che le risorse utilizzate per la relativa produzione potranno esaurirsi senza essere recuperate, eventualmente nemmeno in parte. Guadagno e perdita sono pertanto due aspetti che caratterizzano causalmente il contratto di società e, in questo senso, le regole legali sulla partecipazione ai guadagni e alle perdite, tanto più nelle società di persone in quanto organizzazioni necessariamente collettive (cfr. artt. 2272, 2308 e 2323 c.c.), disciplinano le modalità con cui il risultato economico della società è distribuito tra i soci. Diversamente dalle regole in materia di generazione e limiti alla distribuzione degli utili e di responsabilità per le obbligazioni sociali, che hanno un evidente rilievo esterno e pertanto tendono ad avere carattere inderogabile (ad esempio le norme sul capitale sociale e sull'accertamento degli utili e salva la possibilità del patto in deroga alla responsabilità illimitata nelle società semplici, comunque da portarsi a conoscenza dei terzi con mezzi idonei ai fini dell'opponibilità dello stesso, art. 2267, comma 2, c.c.), le regole di partecipazione agli utili e alle perdite incidono, entro gli ampi limiti di cui si dirà, unicamente sui rapporti interni. Pertanto, le disposizioni applicabili hanno carattere soltanto suppletivo e lo statuto delle società di persone può stabilire regole diverse per la partecipazione individuale al risultato economico, anche differenziando tra guadagni e perdite e tra i vari momenti in cui vengono in rilievo le regole di partecipazione. Resta come presidio estremo il divieto del patto leonino (art. 2265 c.c.), che proibisce di escludere, in misura totale e in maniera costante (Cass. 21 gennaio 2000, n. 642; recentemente Trib. Verona 26 maggio 2014, in Banca Borsa Tit. Cred., 2015, II, 733) uno o più soci da ogni partecipazione agli utili o alle perdite, o da entrambi. La ratio del divieto è generalmente quella di garantire la buona e corretta amministrazione dell'impresa soprattutto dal punto di vista degli incentivi dei partecipanti (Marasà, Le società, in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2000, 229; Santagata, Il divieto del patto leonino, in Trattato società di persone, Torino, 2015, 375). Come accennato, la realizzazione e l'accertamento dell'utile sono propedeutici alla relativa ripartizione. Il concetto di utile deve intendersi in senso normativo, per come risultante dal sistema della legge, che vede anche nelle società di persone un ruolo centrale del capitale sociale e del principio di realtà degli utili effettivamente distribuibili. In questo senso (i) l'utile distribuibile è unicamente quello ‘di bilancio' (o, per chiarezza, da rendiconto), cioè quella quota di attivi eccedente, nello stato patrimoniale, il passivo reale (i debiti) e quello ideale (il capitale sociale), per cui (ii) non sarà utile ‘realmente conseguito' quello destinato a coprire il capitale sociale e (iii) l'utile di esercizio (cui si riferisce l'art. 2303, comma 2, c.c.) non rileva mai ai fini delle distribuzioni, perché può essere necessario per la copertura di eventuali perdite di capitale (sulla nozione di utile, ex multis, Di Sabato, Società in generale. Società di persone, in Trattato Perlingieri, Napoli, 2004, 154 s.; Benatti, Diritto agli utili, in Trattato società di persone, Torino, 2015, 316 ss.). Il principio di realtà dell'utile è anzi enfatizzato maggiormente nelle società di persone rispetto alle società di capitali atteso che il socio di società di persone – presumibilmente per il suo normale coinvolgimento nella gestione dell'impresa (artt. 2257, 2261, 2295 n. 3), c.c.) – è comunque tenuto a restituire l'utile fittizio eventualmente percepito, senza possibilità di eccepire la buona fede (come previsto invece per il socio di s.p.a., art. 2433, comma 4, c.c., con l'eccezione del socio accomandante, art. 2321 c.c.). Nelle società di persone la percezione dell'utile, correttamente generato e registrato dagli amministratori, costituisce un vero e proprio diritto a immediata esigibilità: la legge infatti lo condiziona unicamente all'approvazione del rendiconto (art. 2262 c.c.; Cass. 20 aprile 1995, n. 4454; Cass. 17 febbraio 1996, n. 1240; in senso apparentemente contrario Trib. Milano 11 settembre 2003, in Giur. comm., 2004, II, 434, ma con approccio non condivisibile in quanto aggiunge un requisito di previsione di effettiva distribuzione all'interno dell'approvazione del rendiconto, requisito assente nella disposizione dell'art. 2262 c.c., diversamente dall'art. 2433 c.c.), al punto che i guadagni non possono essere nemmeno reinvestiti senza l'assenso di ciascun socio (cfr. Trib. Catania 31 ottobre 1985, in Giur. comm., 1986, II, 444), con approccio nettamente contrario a quanto previsto per le società di capitali, nelle quali non può propriamente parlarsi di un diritto individuale all'utile, invece rimesso al volere della maggioranza assembleare (art. 2433, comma 1, c.c.). Lo statuto può comunque disporre altrimenti, indicando una maggioranza e il criterio di calcolo della stessa, e analogamente i soci all'unanimità possono rinunciare alla distribuzione a favore della società, con costituzione di una riserva (l'art. 2262 c.c. fa infatti salvo il patto contrario, stabilmente contenuto nell'atto costitutivo ovvero, in mancanza, espresso di volta in volta con delibera appunto unanime). Da tale impostazione civilistica sorge la conseguenza, sul piano tributario, che l'utile, a prescindere dalla percezione, è imputabile al reddito personale di ciascun socio in forza dell'art. 5 del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 (anche quando gli utili non siano iscritti a bilancio, Cass. 30 ottobre 2006, n. 23359). Anche il concetto di perdita è privo di una specifica definizione legislativa, pur essendo ricorrente e molto importante nella disciplina patrimoniale di tutti i tipi sociali, in particolare in quella delle società di persone, visto il nesso tra la fattispecie delle perdite e il regime di responsabilità per le obbligazioni sociali. Infatti, come si vedrà, in alcuni dei momenti in cui la partecipazione al risultato economico si concretizza il socio di società di persone può essere chiamato a rispondere anche della perdita eccedente rispetto all'iniziale conferimento (con la nota eccezione del socio accomandante e del patto in deroga ex art. 2257 c.c. nella società semplice). Si materializza in questo modo uno dei principali aspetti differenzianti tra la classe delle società di persone e quella delle società di capitali, nelle quali invece il concetto di perdita è normalmente limitato al conferimento (in questo contesto, infatti, l'eccezione è rappresentata dal socio accomandatario di società in accomandita per azioni, art. 2452 c.c.). In questa prospettiva, è tanto più rilevante, nei tipi societari personalistici, la regolazione convenzionale della sopportazione delle perdite, giacché ad essa si deve fare riferimento per la suddivisione delle stesse nei rapporti interni. Resta infatti ferma, nei rapporti esterni, la solidarietà tra i soci (artt. 2267, 2291 e 2313 c.c.). La solidarietà infatti neutralizza qualunque rilevanza esterna delle regole di sopportazione delle perdite, dando luogo ad un diritto di regresso in capo al socio che fosse chiamato a far fronte integralmente alle passività della società (art. 1299 c.c., Trib. Milano 21 marzo 2014). Tale diritto di regresso può essere esercitato, anche cumulativamente, da parte del socio nei confronti della società (contra, Trib. Lucera 3 dicembre 2008 e Trib. Nocera Inferiore 3 gennaio 2013; quest'ultima ha ritenuto non applicabile la disciplina del fideiussore al socio di società di persone; ma si vedano, per la qualificazione dei soci quali garanti ex lege delle obbligazioni sociali e l'affermazione del diritto di rivalsa nei confronti della società, Di Sabato, op. cit., 175; Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, Torino, 2015, 85 [in particolare, sulla non certa applicabilità della disciplina della fideiussione, soggetta ad « indagine norma per norma », ivi, nota 67]) e degli altri soci (che non potranno peraltro avvalersi del beneficio di preventiva escussione, in quanto opponibile esclusivamente nei confronti dei creditori sociali, Trib. Roma 15 aprile 2015). Da questo punto di vista, le regole di partecipazione alle perdite governano anche l'individuazione delle quote di regresso esigibili nei confronti degli altri soci. Il regresso nei confronti della società, ove essa sia solvibile, potrà essere chiaramente integrale, ovvero, ove il patrimonio della società non sia in grado di coprire integralmente l'esborso del socio, per l'ammontare scoperto il socio si rivarrà pro quota, per cui nel caso in cui un socio abbia sopportato integralmente le perdite, o adempiuto un'obbligazione, della società:
Occorre in ogni caso chiarire, da un lato, il rapporto tra perdite e obbligazioni sociali e, dall'altro, il concetto normativo di perdita. Sul primo punto, la perdita è sempre un concetto astratto che consiste nella eccedenza contabile delle passività reali aggregate rispetto all'insieme delle attività (contra, con riferimento all'art. 2265 c.c., Santagata, op. cit., 376 ss., il quale ritiene invece che le perdite siano riferite al « generico impoverimento » derivante dal mancato sfruttamento del bene, del godimento o delle energie lavorative conferiti/e e potenzialmente fonte di arricchimenti personali; in sostanza, se si è ben capito, quello che con linguaggio economico potrebbe definirsi il costo opportunità), laddove l'obbligazione sociale costituisce sempre una fattispecie concreta che trova fonte in uno specifico rapporto di dare (e avere) nei confronti di una controparte determinata. La perdita è dunque la manifestazione astratta-contabile della prevalenza delle obbligazioni sociali, complessivamente intese, sul patrimonio attivo della società. Sia la sopportazione delle perdite che la responsabilità per le obbligazioni sociali si distribuiscono tra i soci secondo la proporzione convenzionale con cui ciascuno partecipa alle perdite (Di Sabato, op. cit., 173; Campobasso, op. cit., 85). Sul secondo aspetto, dall'interpretazione della legge si desume che le perdite sociali nelle società di persone:
Prima di esaminare nel merito le regole legali di default e i numerosi possibili esercizi dell'autonomia privata in tema di partecipazione agli utili e alle perdite, è possibile verificare la periodicità, più o meno regolare, dei “momenti” organizzativi in cui la partecipazione, intesa come imputazione giuridica del risultato economico dell'impresa sociale al patrimonio individuale di ciascun socio, può materializzarsi e dunque le relative regole, siano esse legali o convenzionali, sono chiamate in causa. Quanto all'utile, sebbene il risultato vero e proprio sia effettivamente riscontrabile solo alla fine del ciclo produttivo quantunque lungo, giacché solo allora sarebbe davvero possibile “tirare le somme” e giungere ad una definitiva allocazione delle risorse generate (o rimaste) tra soci e creditori nel concorso liquidatorio, per intuitive ragioni pratiche di soddisfazione delle esigenze concrete e quotidiane dei soci, ma anche e soprattutto per incentivare l'investimento nelle attività imprenditoriali (Bavetta, La ripartizione degli utili, in Trattato società di persone, Torino, 2015, 1397), il legislatore ha concesso la possibilità ai soci di tutti i tipi sociali di riscuotere il ritorno (ove realizzato) sul proprio investimento ad intervalli costanti: gli esercizi sociali. Fissata d'imperio la durata annuale degli esercizi (art. 2261, comma 2, c.c., che fa comunque salva la facoltà di determinare un diverso termine in contratto), ad ogni rendiconto il socio matura il diritto all'utile; la relativa ripartizione avverrà, ad opera degli amministratori quali esecutori del deliberato, al momento dell'approvazione del rendiconto e avrà carattere definitivo (non sarà cioè in alcun modo soggetto alle successive vicende della società, di modo che il socio potrà casomai essere tenuto, in sede di liquidazione, a versamenti ex novo e aggiuntivi ove la situazione patrimoniale della società sia passiva, cfr. App. Bologna 21 maggio 1994, in Soc., 1994, 1366, non invece alla restituzione degli utili percepiti, se effettivamente esistenti al momento dell'approvazione: le somme percepite a titolo di utili, poi riconosciuti contabilmente e giudizialmente fittizi sono invece soggette all'azione di ripetizione, indipendentemente dallo stato soggettivo del socio, ma si veda l'art. 2321 c.c. per la diversa protezione degli accomandanti). La regolare periodicità potrà essere comunque variata e interrotta, soltanto con la previsione in statuto, di distribuzione di acconti (stante sempre la possibilità del patto contrario ex art. 2262 c.c., Cass. 9 luglio 2003, n. 10786; Cass. Pen. 13 maggio 2009, n. 38529; Benatti, op. cit., 325; per l'espressa autorizzazione codicistica nelle società per azioni, e le relative condizioni, cfr. art. 2433-bis c.c.; è d'altronde dispositivo anche il termine di rendiconto, art. 2261, comma 2, c.c.). L'utile deve peraltro essere accertato e attribuito anche in sede di liquidazione della quota collegata allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio (art. 2289 c.c.) e nel caso di scioglimento della società (art. 2282 c.c., ma prima del verificarsi della causa di scioglimento, si veda infatti Triveneto, Massima O.A.6, settembre 2010).
L'effettiva sopportazione delle perdite da parte dei soci si può avere in tre diversi momenti della società: la riduzione del capitale per perdite, la liquidazione della quota e la liquidazione della società. Ne consegue che, diversamente dalla percezione degli utili, l'imputazione giuridica delle perdite al patrimonio personale del socio prescinde dal momento di approvazione del rendiconto (cfr. Campobasso, op. cit., 81). Ciò ancor più nelle società di persone per quanto accennato in precedenza, che le società di persone possono anche proseguire l'attività con un patrimonio netto negativo. Contrariamente a quanto stabilito per le società di capitali (artt. 2446, 2447, 2482-bis, 2482-ter e 2484 n. 2), c.c.), in nessun caso l'insorgenza di perdite costringe i soci a farsene carico, cioè a ridurre il capitale o a coprirle, durante societate. Anche in caso di perdita di capitale, dunque, i soci di società di persone potranno rinviare a nuovo la perdita, con l'unico vincolo di non poter distribuire utili fino al pieno recupero della stessa. I soci potranno sempre assorbire definitivamente la perdita di capitale riducendo il capitale ai sensi dell'art. 2306 c.c. (per le società in nome collettivo e in accomandita: riduzione sempre facoltativa). Solo ove la perdita perdurasse sino alla liquidazione della società, o il socio interrompesse il proprio rapporto sociale in costanza di perdite (che impatteranno sul credito di liquidazione individuale della quota, siano esse derivanti da operazioni concluse ovvero da operazioni in corso, art. 2289, comma 3, c.c., che dunque implica la difficile gestione degli utili e delle perdite non ancora consolidati/e: si deve ritenere al proposito che le parti possano accordarsi stabilendo una liquidazione a forfait, senza che ciò determini un danno per i terzi, dovendosi interpretare come patto di allocazione interna delle perdite, sempre consentito, senza pregiudizio per le responsabilità esterne ex lege di cui agli artt. 2280 e 2290 c.c.), la relativa sopportazione dovrà essere suddivisa secondo le regole specifiche che essi si siano dati o, in mancanza, secondo quelle legalmente dettate dall'art. 2263 c.c. (cfr. Campobasso, op. cit., 81). Il modello legale suppletivo di partecipazione agli utili e alle perdite
Nel contesto delle società di persone gli stessi patti fondamentali non sono vincolati ad una forma (art. 2251 c.c.) e ad un contenuto (cfr. invece nelle s.p.a. gli artt. 2328 e 2332, n. 3), c.c.; nella s.r.l. l'art. 2463 c.c. e nelle s.r.l. semplificate l'art. 2463 bis c.c.). Infatti, anche per la società in nome collettivo non sussiste alcun vincolo di contenuto, atteso che la conformità in concreto dell'atto costitutivo all'art. 2295 c.c., che al n. 8) richiederebbe l'indicazione delle norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite, non costituisce che una condizione di regolarità della società, di modo che l'eventuale assenza di uno o più dei requisiti di contenuto determinerà soltanto l'impossibilità di procedere alla pubblicazione dell'atto costitutivo nel registro delle imprese ai sensi dell'art. 2296 c.c. e, così, l'applicazione della diversa disciplina della società semplice nei rapporti esterni, come impone l'art. 2297 c.c. (Campobasso, op. cit., 57). Al chiaro scopo di conciliare il generale principio di libertà contrattuale degli aderenti al contratto di società di persone con l'esigenza di certezza del diritto e di prevenire difficoltose ricerche della volontà delle parti, specie in un ambito particolarmente centrale quale quello della condivisione degli utili e delle perdite, il legislatore ha apprestato un regime suppletivo per misurarne la partecipazione anche ove il contratto non disponga in materia. Al riguardo, occorre sottolineare come il carattere solo sussidiario della norma si confermi nella sua struttura. Infatti, l'art. 2263 c.c. si fonda su tre presunzioni relative:
Come rilevato in dottrina e in giurisprudenza, tali presunzioni possono essere tutte vinte tramite la prova contraria (Di Chio, 2254, in Commentario Cendon, V**, Torino, 1991, 813, il quale richiama Cass. 1963, n. 569, che ha censurato per violazione di legge dovuta a vizio di motivazione la pronuncia di prime cure che aveva fatto prevalere la presunzione senza effettivamente indagare sulla volontà delle parti: a riguardo si deve però puntualizzare che tale conclusione è condivisibile nei limiti in cui si ricordi che la presunzione relativa esime senz'altro il giudice dall'accertamento dei fatti costitutivi in essa dedotti fintanto che non sia contestata, necessariamente su istanza di parte, per cui l'indagine sulla volontà delle parti non può essere promossa d'ufficio), eventualmente rinvenibile nel comportamento concreto dei soci, se sufficientemente univoco e costante, ad esempio:
Un aspetto particolare e obiettivamente controverso è la definizione della partecipazione del socio d'opera agli utili e alle perdite. Come noto, è dibattuto, tra l'altro, se (i) il conferimento d'opera sia imputabile a capitale, (ii) quali regole si applichino al socio d'opera in assenza di espressa determinazione, (iii) se il socio d'opera partecipi al rimborso dei conferimenti ex art. 2282 c.c. (e, ci si deve chiedere, specularmente, alle perdite della società ex art. 2280, comma 2, c.c.). A riguardo, si è altrove (Granato, Il capitale sociale nelle società di persone, in questo portale) data risposta affermativa al primo punto, dando pure conto, sul terzo punto, della problematica soluzione nel senso dell'esclusione del socio d'opera dal rimborso dei conferimenti. Su quest'ultima questione, peraltro, anche alla luce della precedente analisi in tema di allocazione delle perdite, prevalgono gli argomenti a favore della partecipazione al rimborso anche del socio d'opera. Infatti, mette conto segnalare come la lettera dell'art. 2280 c.c., nel prefigurare la possibilità di una richiesta di versamenti integrativi per far fronte alle perdite sociali, da un lato non distingua tra tipologie di conferimenti e dunque di soci, e dall'altro faccia sostenere tali perdite in proporzione della parte di ciascuno nelle perdite, con rinvio, dunque all'art. 2263 c.c., ivi compreso il comma 2 (applicabile anche in sede di scioglimento e liquidazione, Cass. 4 febbraio 1980, n. 777). Ne consegue, che una volta stabilita dal giudice secondo equità la parte di chi abbia conferito opera o servizi, a tutti gli effetti costui sarà tenuto a sopportare una quota di perdite anche in sede di scioglimento e liquidazione (ferma restando la possibilità del patto contrario, eccezionale deroga al patto leonino, Cass. 21 gennaio 2000, n. 642; non è pertanto condivisibile la posizione di Santagata, op. cit., 377 s., il quale limita al frustra laborare, cioè alla prospettiva di lavorare senza essere retribuito, il rischio del socio d'opera). Se così è, allora, non si vede come al socio d'opera non possa allora spettare il rimborso del conferimento, una volta determinato secondo i criteri sussidiari dell'art. 2263 c.c. Al proposito, occorre peraltro evidenziare che non mai si applicherà la presunzione di uguaglianza tra conferimenti d'opera e di capitale di cui all'art. 2263, comma 2, c.c., giacché la legge prevede uno specifico canone di determinazione al comma 2 dello stesso articolo. Prevale pertanto la statuizione del giudice secondo equità (Cass. 2 agosto 1995, n. 8462). In base a tale impostazione:
Per quanto sopra, particolarmente centrale diviene il ruolo del giudice e della sua valutazione secondo equità: atteso che tale decisione influirà anche sulla quota residua degli altri soci (di rimborso e di surplus), il giudice dovrà tendere a raggiungere un equo contemperamento degli interessi, esaminando in concreto e tenendo conto « degli elementi che di volta in volta caratterizzano la fattispecie » (Cass. 2 agosto 1995, n. 8462; cfr. Di Sabato, op. cit., 157 s.; Benatti, op. cit., 328 ss., Campobasso, op. cit., 79 nota 55; si esclude quasi unanimemente che si applichino al socio d'opera i principi, anche costituzionali, sulle tutele del lavoratore), col delicato compito di decifrare il meccanismo di partecipazione, se determinato solo per i conferimenti diversi dall'opera o dal servizio in misura non proporzionale. Si noti che l'importanza della determinazione è tale anche perché essa estende i suoi effetti in sede tributaria (Comm. trib. centr., 2 dicembre 1985, n. 1236). Vista la complessità e la difficile prevedibilità delle soluzioni giudiziali al problema della partecipazione del socio d'opera, specialmente ove la prestazione lavorativa sia continuativa e il conferimento “variabile”, è buona norma trattare sempre in statuto la tematica dell'entità dei conferimenti e della partecipazione ai risultati della società, ad esempio quantificando in statuto la durata della prestazione e il valore ad essa attribuito (per analoga conclusione nelle s.r.l., art. 2464, comma 6, c.c. Consiglio Notarile di Milano, Massima n. 9, 18 marzo 2004) e sfruttando gli ampi spazi concessi dal codice con precisione e completezza. È d'uopo infine menzionare anche la possibilità di rimettere la determinazione della parte di ciascun socio nei guadagni e nelle perdite ad un terzo, art. 2264 c.c., il quale potrà decidere con mero arbitrio, se espressamente previsto, o con equo apprezzamento, con conseguenze differenti sul piano delle basi per l'impugnazione (Benatti, op. cit., 329 s.). Il giudizio del terzo coinvolgerà ad ogni modo tutti i soci, ivi compresi i soci d'opera. Le possibili espressioni dell'autonomia privata nella determinazione della partecipazione agli utili e alle perdite e i relativi limiti
Stante il rilievo interno delle regole di partecipazione agli utili e alle perdite nelle società di persone, i soci sono liberi di esercitare l'autonomia privata su più livelli e entro limiti molto ampi, atteso che il divieto del patto leonino – che pur si deve interpretare in senso sostanziale e non formale (imponendo infatti « una seria possibilità che tutti i soci partecipino al riparto degli utili e delle perdite », Santagata, op. cit., 375; Campobasso, op. cit., 78; Di Sabato, op. cit., 51; Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927), diversamente l'operatività della disposizione dell'art. 2265 c.c. sarebbe limitata al caso (di scuola) in cui espressamente i partecipanti abbiano direttamente e integralmente esentato dalle perdite, o escluso dagli utili, uno o più soci (per alcuni esempi concreti nelle società azionarie Marasà, op. cit., 229; per le società di persone, esempi di clausole nulle o problematiche in Santagata, op. cit., 393 ss.; Di Sabato, op. cit., 51 s., porta l'esempio di una clausola di attribuzione degli utili o delle perdite condizionata al raggiungimento di soglie impossibili in considerazione dell'attività e dei conferimenti; analogamente Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927). Proprio nell'ottica di divincolare dagli angusti confini della disposizione la ratio della norma, si ritiene ormai pacifica l'applicabilità del divieto anche ai patti parasociali che abbiano effetti sostanzialmente analoghi a quelli contrastati dalla norma (la nullità del patto parasociale non sarà automatica, come invece per le clausole statutarie, ma dovrà verificarsi caso per caso sulla base di un giudizio di meritevolezza degli interessi veicolati dal patto, sul quale si veda Santagata, op. cit., 375; Campobasso, op. cit., 397 ss.). Perché sia considerato nullo, il patto deve escludere la partecipazione in misura totale e in maniera costante (Cass. 21 gennaio 2000, n. 642; Trib. Verona 26 maggio 2014, cit.). Entro tali limiti, è piena l'autonomia statutaria e contrattuale dei soci in materia di partecipazione agli utili e alle perdite, come si diceva, su più livelli. In generale, data la collocazione e l'ampiezza dei riferimenti al patto contrario e al contratto negli artt. 2262 e 2263 c.c., la deroga convenzionale può interessare ogni aspetto della partecipazione e quindi:
Ci si può domandare quale sia la sede legittima di tali possibili espressioni dell'autonomia privata. Si tratta di chiarire se sia necessaria la clausola statutaria o sia sufficiente una delibera, e in tal caso in quali limiti e a quali condizioni. Al riguardo, si può sinteticamente e schematicamente argomentare come segue:
Sono dibattute le conseguenze della nullità della clausola statutaria per effetto dell'art. 2265 c.c. Parte della dottrina opta per la nullità della partecipazione ex art. 1419 c.c. (nullità parziale), ove si accerti che non sarebbe stata assunta senza la clausola dichiarata nulla (Di Sabato, op. cit., 52; Campobasso, op. cit., 78, nota 54;). La nullità della stessa si ripercuoterebbe sull'intero contratto sociale ove la clausola fosse riconosciuta essenziale ai sensi dell'art. 1420 c.c. A questa impostazione altra parte della dottrina replica che l'effetto espansivo della nullità per essenzialità della clausola si avrebbe in definitiva sempre, stante l'incidenza di una disposizione leonina nell'economia del contratto di società (Marasà, op. cit., 231), di modo che sarebbe inconferente la distinzione tra partecipazione essenziale / non essenziale, dovendosi in ultima analisi concludere per la nullità automatica tout court della partecipazione. Una terza ricostruzione, sul corretto rilievo che l'effetto della nullità condurrebbe all'applicazione del precetto in positivo dell'art. 2265 c.c. in luogo della disposizione nulla, deducibile nella necessità che ogni socio partecipi agli utili e alle perdite, conclude più condivisibilmente per l'applicazione, a mero scopo quantificativo, dei criteri dell'art. 2263 c.c., che mantiene quindi il carattere suppletivo (imperativo rimanendo solo il precetto dell'art. 2265 c.c., Santagata, op. cit., 406 ss., così superando le obiezioni di Marasà, op. cit., 230 s.). Il patto leonino non è comunque applicabile all'associato in partecipazione (Cass. 1 ottobre 2008, n. 24376, che conferma come l'unica regola inderogabile consista nel divieto di porre a carico del medesimo perdite in misura superiore al suo apporto). Riferimenti
Normativi
Prassi
Giurisprudenza
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