Distribuzione degli utili

Marco Bergamaschi
02 Ottobre 2015

Nel tentativo di offrire una valida definizione di utile, occorre anzitutto attribuire un significato alla sua duplice allocazione, nell'ambito della ragioneria, sia fra le voci che compongono il passivo dello stato patrimoniale, sia fra i prezzi-costo del rendiconto reddituale. Con riguardo alla prima allocazione (passività dello stato patrimoniale), essa si spiega in quanto l'utile rappresenta una fonte di finanziamento – ma sarebbe meglio dire, di non depauperamento – dell'impresa, purché i soci decidano di non distribuirlo sotto forma di dividendi. Con riguardo alla seconda allocazione (costo del rendiconto reddituale), occorre premettere che l'utile è la remunerazione attesa dai soci per effetto del capitale loro conferito, remunerazione che, previa approvazione da parte dei soci stessi, si concretizza in un'uscita monetaria sotto forma di dividendi. In questo senso l'utile è un “costo”, e precisamente è il “costo d'uso” del capitale che i soci hanno conferito all'impresa stessa (non dissimilmente dagli interessi, che rappresentano il “costo d'uso” del capitale prestato dagli istituti di credito).
Introduzione: reddito d'esercizio e utile d'impresa

Nel tentativo di offrire una valida definizione di utile, occorre anzitutto attribuire un significato alla sua duplice allocazione, nell'ambito della ragioneria, sia fra le voci che compongono il passivo dello stato patrimoniale, sia fra i prezzi-costo del rendiconto reddituale.

Con riguardo alla prima allocazione (passività dello stato patrimoniale), essa si spiega in quanto l'utile rappresenta una fonte di finanziamento – ma sarebbe meglio dire, di non depauperamento – dell'impresa, purché i soci decidano di non distribuirlo sotto forma di dividendi. Con riguardo alla seconda allocazione (costo del rendiconto reddituale), occorre premettere che l'utile è la remunerazione attesa dai soci per effetto del capitale loro conferito, remunerazione che, previa approvazione da parte dei soci stessi, si concretizza in un'uscita monetaria sotto forma di dividendi. In questo senso l'utile è un “costo”, e precisamente è il “costo d'uso” del capitale che i soci hanno conferito all'impresa stessa (non dissimilmente dagli interessi, che rappresentano il “costo d'uso” del capitale prestato dagli istituti di credito): così, A. Canziani, Lezioni di economia aziendale, Padova, 2014, 111 e ss.

Ciò premesso, allo scopo di comprendere appieno il significato di utile nei suoi profili aziendalistico prima e giuridico poi, occorre prendere le mosse dal concetto di reddito d'esercizio, qui in prima approssimazione definibile come variazione – di segno positivo (utile) o negativo (perdita) – che subisce il capitale per effetto della gestione riferita in un dato periodo di tempo. Detta variazione deve essere determinata e, a tal fine, occorre rilevare che nella determinazione del reddito di esercizio concorrono componenti positivi e negativi di reddito che, per loro natura, sono frutto di stime e di astrazioni. In particolare, ed esemplificando a fini di chiarezza, in un'impresa il reddito è dato non solo dai prezzi-ricavo (vendite) e dai prezzi-costo (acquisti) che, per loro natura, sono valori “certi” in quanto accertati e dunque espressivi del vero in senso assoluto, ma anche da grandezze che sono l'esito, talvolta, di “stime” (ad esempio, il valore di realizzo dei crediti), cioè fondate su apprezzamenti che tendono comunque al limite costituito da quantità-misure; talaltra, di ipotesi (o astrazioni), che non esprimono alcuna realtà ma hanno senso solo in relazione a quelle date ipotesi (o astrazioni) (ad esempio, le rimanenze d'esercizio, gli accantonamenti per rischi, le quote di ammortamento); sul punto, P. Onida, Economia d'azienda, Torino, 1971, 594, secondo cui: “nella formazione dei bilanci d'esercizio, lungi dall'inseguire la vana pretesa di rilevare risultati in senso proprio realmente conseguiti, occorre rendersi conto delle insopprimibili incertezze che gravano su molte valutazioni e, ponderando queste incertezze, attuare una consapevole e conveniente politica di bilancio, per quanto riguarda specialmente gli ammortamenti, gli accantonamenti per rischi, le riserve e i dividendi". Posizione, peraltro, derivata da G. Zappa, secondo cui: "è errore frequente, così nella dottrina come nella pratica, quello per il quale si crede che la determinazione sistematica del reddito d'esercizio possa avere esclusivo o quasi esclusivo fondamento nelle accennate rilevazioni numerarie certe ed assimilate […]. E invece, nelle imprese, quando il reddito d'esercizio si voglia rilevare consapevolmente, le più volte affermate coordinazioni di gestione, costringono spesso, pur per il raggiungimento dello scopo generale delle rilevazioni sistematiche, a rivelazioni prospettiche e congetturali […]”. Sul punto, cfr. G. Zappa, Il reddito d'impresa, Milano, 1950, 479 e ss.

Tale è il motivo per cui lo stesso reddito di esercizio – quale risultante del processo di rilevazione-valutazione di cui si è ora soltanto accennato – e, in ultima istanza, il risultato economico (utile o perdita) che dal primo deriva, partecipano anch'essi della natura di quantità economiche astratte, non trovando mai riscontro in una realtà oggettivamente esistente e accertabile (P. Onida, op. cit., 558-559). Ciò induce a considerare congiuntamente le scelte di determinazione del reddito d'esercizio e di proposta di destinazione dell'eventuale utile, nel senso che la seconda si deve porre in diretta e coerente correlazione con gli intenti che hanno guidato la formazione tecnico-formale del bilancio d'esercizio. Questa congiunta considerazione (determinazione del reddito e proposta di destinazione dell'eventuale utile) si deve ravvisare, concretamente, in una previa valutazione dell'economicità dell'impresa anche in dipendenza di un'uscita monetaria causata dalla possibile distribuzione di dividendi ai soci,dunquedella compatibilità della proposta di destinazione dell'utile rispetto all'equilibrio finanziario-monetario dell'impresa stessa. In altri termini, l'organo amministrativo di una società di capitali, nel determinare il reddito d'esercizio e il (conseguente) risultato economico, deve altresì prevedere gli effetti monetari (dividendi e imposte) che tale determinazione potrebbe suscitare, antivedendo quindi – con senso di responsabilità – la compatibilità del risultato medesimo con la struttura finanziaria presente e futura (di breve e medio periodo) dell'impresa, allo scopo di assicurare così le condizioni di esistenza e sviluppo dell'impresa stessa (R. Camodeca, L'iter formativo del bilancio di esercizio, Padova, 2011, 283 e ss.).

Il precipitato ultimo di questa impostazione, di natura economico-aziendale, si rinviene nella prudenza che informa le regole dettate dal Legislatore in tema di formazione del bilancio di esercizio, nell'ambito delle quali l'utile, come si vedrà infra, è distribuibile solo se rappresenta un surplus rispetto alla garanzia che il patrimonio dell'impresa offre ai terzi creditori; esso è, in altre parole, il “margine” che risulta a conclusione di ogni esercizio, una volta dedotta la garanzia essenziale dei creditori (capitale sociale, riserve legali e statutarie, utili non distribuiti).

L'utile e il dividendo

La questione relativa alla sussistenza o meno di un diritto del socio alla periodica distribuzione dell'utile, sin dal momento dell'acquisizione della quota societaria, è stata oggetto nel tempo di divergenti interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali (G.E. Colombo, Il bilancio d'esercizio, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 7*, Bilancio d'esercizio e consolidato, Torino, 1994, 501 ss.).

In particolare, il dibattito ha preso le mosse dall'art. 2350 c.c. secondo cui, come noto, “ogni azione attribuisce il diritto ad una parte proporzionale degli utili netti”.

La dottrina e la giurisprudenza meno recenti riconoscevano la sussistenza in capo al socio di un diritto soggettivo alla ripartizione periodica degli utili durante societate (si vedano G. Frè, Società per azioni, sub art. 2350 c.c., a cura di F. Galgano, in Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, 5^ ed., Bologna-Roma, 1997, 248 ss.; E. Simonetto, I bilanci, Padova, 1967, 289 ss.; A. Asquini, I battelli del Reno, in Riv. Soc., 1959, 617; G. Rossi, Utile di bilancio, riserve e dividendo, Milano, 1957, 146 ss. secondo il quale: “il diritto agli utili (…) non ha natura di diritto reale; né di credito, ma piuttosto (…) di “diritto corporativo verso l'associazione” nella misura in cui di tale natura godono tutti i diritti indviduali del socio”; D. Pettiti, Contributo allo studio del diritto dell'azionista al dividendo, Milano, 1957, 152 ss.; T. Ascarelli, Sui poteri della maggioranza nelle società per azioni ed alcuni loro limiti, in Riv. dir. comm., 1950, I, 186 ss.; Gamna, A proposito del dividendo come frutto dell'azione di società, in Riv. dir. comm. 1949, I, 313, secondo il quale: “il diritto agli utili esprimerebbe una posizione del socio derivante, ab origine, direttamente dal contratto di società in relazione alla destinazione, a proprio favore, degli utili che la società avrà deliberato di distribuire. E ciò in quanto il diritto agli utili dev'essere inquadrato nella categoria dei diritti soggettivi, con la conseguenza per cui all'azionista o al titolare della quota di s.r.l. è concesso di pretendere dalla società un comportamento aderente agli scopi voluti con il contratto sociale ed una determinazione libera, giustificata ed in buona fede circa la destinazione degli stessi utili”. A. Brunetti, Trattato del diritto delle società, II, 1948, 489 ss. In giurisprudenza, App. Cagliari, 21 marzo 1959, in Banca borsa, tit. cred., 1960, II, 264 ss.; App. Brescia, 16 aprile 1958, in Foro it., 1958, I, c., 951 ss. (poi totalmente riformata in sede di legittimità da Cass. 22 gennaio 1960, n. 98, in Foro it., 1960, I, c. 604 ss.) secondo cui sussiste: “un vero e proprio diritto dei soci alla ripartizione anche periodica degli utili, diritto che può essere affievolito o derogato da una specifica deliberazione non arbitraria, ma ispirata da ragioni di ordine collettivo, diritto che comunque trova il suo fondamento non in un diritto reale, ma in un rapporto obbligatorio tra socio e società”.

Tale orientamento muoveva dalla definizione di contratto di società contenuta nell'art. 2247 c.c., secondo cui i conferimenti dei soci sono finalizzati all'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili, per rilevare come il diritto agli utili rappresentasse il riflesso soggettivo del fine di lucro della società.

Dunque, il diritto del socio alla periodica ripartizione degli utili, inteso come diritto individuale del socio, sarebbe sorto direttamente dalla sottoscrizione del contratto sociale e si sarebbe perfezionato nel diritto di credito al dividendo per effetto della delibera con cui l'assemblea avesse approvato la distribuzione degli utili di bilancio. Detta delibera avrebbe avuto, quindi, la funzione non di costituire il diritto agli utili – diritto preesistente in quanto insito nello status di socio – bensì semplicemente di rendere efficace ed esigibile quello stesso diritto a favore del socio.

Con l'entrata in vigore del codice civile del 1942 si è andato contrapponendo al predetto orientamento un differente – e tutt'ora prevalente – indirizzo dottrinale e giurisprudenziale secondo cui il socio non vanti sic et simpliciter nei confronti della società un diritto alla periodica distribuzione degli utili, poiché ogni decisione al riguardo spetta esclusivamente all'assemblea (P. Sfameni, sub art. 2350 c.c., in Azioni, a cura di M. Notari, in Commentario alla riforma delle società, a cura di P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2008, 207 ss.; M. Bussolotti e P. De Biasi, Le società di capitali, in Commentario, a cura di G. Niccolini e A. Stagno D'Alcontres, Napoli, 2004, 1079; G.E. Colombo, op. cit., 1994, 504 ss.; C. Angelici, Le azioni, sub art. 2350 c.c., in Il Codice Civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, 102 ss.; F. Galgano, Diritto commerciale, Le Società, 4^ ed., Bologna, 1992, 321 ss.; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1976, 394 ss.; G. Ferri, Diritto agli utili e diritto al dividendo, in Riv. dir. comm., 1963, I, 412 ss. In giurisprudenza cfr. Cass. 28 maggio 2004, n. 10271, in Foro it., 2005, 815; Cass. 11 marzo 1993, n. 2959, in Le Società, 1993, con nota di F. Liconti, 1202 ss., secondo il quale: “il diritto individuale del singolo azionista a conseguire l'utile di bilancio sorge soltanto se e nella misura in cui la maggioranza assembleare ne disponga l'erogazione ai soci, mentre, prima di tale momento, vi è una semplice aspettativa, potendo l'assemblea sociale impiegare diversamente gli utili o anche rinviarne la distribuzione nell'interesse della società”; App. Milano, 25 marzo 1986, in Banca borsa, tit. cred., 1987, II, 421 ss., che, chiamata a pronunciarsi sull'impugnativa di una delibera assembleare con la quale i soci di maggioranza avevano deciso di non distribuire gli utili realizzati per destinarli in una riserva destinata ad un successivo aumento di capitale, ha rigettato la domanda di annullamento proposta dai soci di minoranza evidenziando che “non può essere sostenuto, traendo argomento dal principio generale contenuto nell'art. 2350, che il socio ha un vero e proprio diritto soggettivo alla ripartizione periodica degli utili”. La Corte d'Appello ha affermato che “il diritto soggettivo del socio alla distribuzione del dividendo (art. 2433, 2° comma) sorge non in conseguenza di una qualsiasi eccedenza dell'attivo patrimoniale sul passivo della gestione, ma per effetto della deliberazione assembleare mediante la quale si dispone la distribuzione ai soci di tutto o parte delle somme risultanti dal rendiconto attivo”; Cass. 18 marzo 1986, n. 1839, in Foro it., 1987, I, 1232 ss.; Trib. Milano, 13 gennaio 1983, in Foro it., 1984, 1068 ss.; Cass. 29 ottobre 1975, n. 3644, in Foro it., 1976, 335 ss., che ha affermato, sebbene obiter dictum, come “in base alla vigente disciplina […] gli utili non diventano oggetto di un diritto soggettivo dei soci se non attraverso una deliberazione che ne disponga l'erogazione e che, conseguentemente, solo ove intervenga una deliberazione in tal senso gli utili possono ritenersi acquisiti al patrimonio dell'azionista”; Trib. Bologna, 29 novembre 1969, in Giur. it., 1971, 154 ss.; Cass. 22 gennaio 1960, n. 98, cit.).

Tale orientamento si fonda sull'interpretazione che maggiormente valorizza gli artt. 2433, comma 1 e 2 e 2478-bis, comma 3, c.c. secondo i quali compete all'assemblea l'approvazione (o meno) della distribuzione degli utili (M. Nucci, Il diritto al dividendo a seguito della partecipazione sociale, in Le società, 2008, 348 ss.; Lanza, sub. art. 2433, in G. Bonfante, D. Corapi, G. Marziale, R. Rordorf, a cura di V. Salafia, Codice commentato delle società, 2008, 207).

In particolare, prima di tale delibera, il socio vanta nei confronti della società solo un astratto diritto agli utili, recte un'aspettativa di mero fatto (N.A. Bruno, La giurisprudenza sul diritto agli utili del socio nelle società per azioni, Roma, 2001, 6 il quale sostiene che: “prima della delibera di distribuzione (art. 2433, comma 1, c.c.) […] il socio risulterà solo titolare di una situazione soggettiva prodromica all'acquisto, nella propria sfera patrimoniale, del diritto alla distribuzione degli utili: titolare di un' aspettativa di mero fatto nei confronti della società dato che nessuno degli elementi della fattispecie si è ancora realizzato (chiusura dell'esercizio sociale, approvazione del bilancio, assenza di perdite, ecc)”. Sulla titolarità di una mera aspettativa, B. Biondi, Osservazioni circa la natura giuridica della quota di società a responsabilità limitata, in Banca borsa, tit. cred., 1957, I, 545 ss., che paragona la posizione del socio a quella dell'erede prima dell'apertura della successione: “come l'aspettativa dell'erede si concreta in diritto solo alla morte del de cuius, così l'aspettativa del socio si concreta in un diritto di credito verso la società solo mediante e per effetto dell'atto giuridico di ripartizione”. In giurisprudenza cfr. Trib. Trieste 25 giugno 1996, in Le società, 1996, 1445 ss. con nota di L. Picione il quale evidenzia che “prima di tale momento il socio non vanta alcun diritto concreto nei confronti della società, ma una semplice aspettativa. Pertanto, così come durante la vita della società, l'assemblea può ben decidere di non distribuire alcun dividendo, con ciò limitando l'aspettativa del socio alla propria quota di utili, durante la fase di liquidazione, ma prima dell'approvazione (tacita) del bilancio finale di liquidazione, l'assemblea ben potrà, secondo il normale principio maggioritario, limitare l'aspettativa del socio alla quota finale di liquidazione, eliminando la causa di scioglimento della società e, quindi, revocando lo stato di liquidazione”).

Tale aspettativa si concretizza nel diritto al dividendo solo dopo la decisione dell'assemblea di ripartire gli utili (in tal senso: F. Liconti, op. cit., 1993, 1202 ss. secondo il quale: “il diritto al dividendo che costituisce certo un vero e proprio diritto di credito compiuto e perfetto […] sorge solo in conseguenza dell'atto devolutivo disposto dall'assemblea sociale e, quindi, non già perché un utile sia stato realizzato, ma perché la società ne ha disposto la devoluzione”; G. Ferri, Le società, Torino, 1971, 571 ss.).

Dunque, per riassumere, secondo dottrina e giurisprudenza oggi prevalenti, i soci non vantano nei confronti della società un diritto al dividendo ab origine per il solo fatto di essere titolari di azioni o di quote; esso si costituisce per gradi ed integra una fattispecie a formazione progressiva, perché sorge solo dopo la chiusura dell'esercizio sociale, la registrazione di eventuali utili, l'approvazione del bilancio e infine la decisione dell'assemblea di distribuire o meno i medesimi a favore dei soci.

Autonomia statutaria e potere deliberativo dell'assemblea dei soci

L'art. 2433, comma 1 c.c. prevede che “la deliberazione sulla distribuzione degli utili è adottata dall'assemblea che approva il bilancio ovvero, [nell'ambito del sistema di amministrazione e controllo c.d. dualistico] qualora il bilancio sia approvato dal consiglio di sorveglianza, dall'assemblea convocata a norma dell'art. 2364-bis, secondo comma”. Al contempo, il legislatore riconosce un'autonomia statutaria in ordine alla distribuzione degli utili prevedendo all'art. 2328, comma 1, n. 7, c.c. che “l'atto costitutivo […] deve indicare […] le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti”. Ci si è posti, pertanto, il problema di stabilire il rapporto intercorrente tra tali disposizioni e, in particolare, di individuare i limiti entro i quali l'autonomia statutaria possa derogare all'art. 2433, comma 1, c.c.

Anzitutto occorre premettere che la norma di cui all'art. 2433, comma 1 c.c. non ha natura imperativa e, come tale, entro determinati limiti, può essere integrata dalle regole statutarie (D. Fico, Distribuzione degli utili in assenza di delibera assembleare, in Le società, 2001, 484; contra R. Guglielmetti, I limiti del potere dell'assemblea di non distribuire periodicamente gli utili, in Le Società, 2011, 786).

Ciò detto, la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere che l'autonomia statutaria possa sì derogare all'art. 2433, 1 comma, c.c., ma non fino al punto di sopprimere il potere assembleare di distribuzione degli utili; diversamente, infatti, verrebbe violata la riserva ex art. 2433, comma 1 c.c. che attribuisce alla competenza esclusiva dell'assemblea la decisione di ripartire o meno gli utili (F. Galgano, Trattato di diritto civile, 2^ ed., vol. 4, Padova, 2010, 486 ss..; F. Galgano e R. Genghini, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell'economia, diretto da F. Galgano, 2006, 562 ss. secondo i quali è nulla la clausola dello statuto che imponga l'integrale ripartizione dell'utile di bilancio, sopprimendo ogni diritto dell'assemblea in tal senso; C. Angelici, In tema di distribuzione di utili senza espressa deliberazione assembleare; convocazione dell'assemblea in luogo diverso dalla sede sociale; termine per la convocazione dell'assemblea che approva il bilancio, in Riv. Not., 1992, 1019 e ss. Dubita della validità di tale clausola anche G.E. Colombo, op. cit., 1994, 507 ss.).

A titolo esemplificativo, si ritiene invalida la disposizione statutaria che preveda l'integrale ripartizione dell'utile di bilancio. Tale clausola, infatti, eliminerebbe il potere dell'assemblea di statuire annualmente sull'an e sul quantum della distribuzione dell'utile (F. Galgano, Le clausole statutarie sulla ripartizione degli utili, in Riv. soc., 1982, 1160).

Si ritiene inoltre invalida la clausola statutaria secondo cui gli utili di bilancio, dedotto il cinque per cento da destinarsi a riserva legale ai sensi di legge, siano accantonati in un apposito fondo di riserva (M. Bussoletti e P. De Biasi, op. cit., 2004, 1077 ss., secondo i quali sarebbe invalida una disposizione statutaria che neghi sistematicamente il diritto al dividendo nel corso della vita della società. Verrebbe, peraltro, violato lo schema causale del contratto di società. In giurisprudenza cfr. Trib. Ascoli Piceno 24 luglio 1992, in Le Società, 1993, 212 secondo cui: “il diritto agli utili trova la sua fonte nello schema legale di società e nel concreto contratto sociale. L'assemblea può ben deliberare di non distribuire utili, ma ciò avuto riguardo a concrete esigenze della società con riferimento al singolo esercizio o al più per un numero ragionevolmente determinato di esercizi”). Invero, una simile disposizione consentirebbe al socio di partecipare alla sola ripartizione del patrimonio netto, impedendogli di fatto di conseguire i dividendi nel corso della vita della società.

Si è invece ritenuta valida una norma statutaria che disponga di destinare il cinque per cento degli utili netti risultanti dal bilancio al fondo di riserva e la rimanenza agli azionisti, sempre che la volontà assembleare non deliberi di destinarli, in tutto o in parte, a riserve e accantonamenti speciali (F. Galgano, ult. op. cit., 1982, 1164 secondo il quale: “a) la clausola di cui si discute è legittima espressione dell'autonomia statutaria riconosciuta dall'art. 2328, n. 7, c.c.: essa non viola alcuna norma imperativa, perché lascia integro il potere di disporre dell'utile di bilancio, attribuito dall'art. 2433, primo comma c.c. all'assemblea dei soci; b) la clausola in questione deroga all'art. 2433, primo comma, c.c. in quanto rende necessaria una esplicita deliberazione assembleare solo per escludere, in tutto o in parte, la distribuzione dell'utile risultante dal bilancio approvato; G.E. Colombo, op. cit., 1994, 507; C. Angelici, op. cit., 1992, 110 e ss. il quale, peraltro, ritiene necessaria una delibera positiva di distribuzione anche nel caso di clausole statutarie di distribuzione automatica, salvo diversa delibera. Tale clausola, infatti, lascia integro il potere dell'assemblea di disporre dell'utile di bilancio, essendo finalizzata esclusivamente a richiedere alla maggioranza assembleare l'obbligo di motivare l'eventuale decisione di non distribuire gli utili).

Per lo stesso motivo, la giurisprudenza si è espressa favorevolmente in merito ad una disposizione statutaria che imponga l'immediata esigibilità degli utili a favore dei soci (una volta eseguito l'accantonamento a riserva legale ed eventualmente quello a riserva statutaria), salvo deliberazioni assembleari differenti (Trib. Trani 19 settembre 2000, in Le società, 2001, 484). Si è ritenuta altresì valida una clausola dello statuto che preveda la distribuzione degli utili, salvo che l'assemblea, all'unanimità, non decida diversamente (Trib. L'Aquila 15 dicembre 1987, Vita not., 1988, con nota di A. Badalà, 120).

Senza considerare, infine, che lo statuto può disporre la destinazione di una parte degli utili a favore dei promotori o dei soci fondatori ex art. 2328, comma 2, n. 8, c.c., ovvero a favore degli amministratori ex art. 2389, comma 2, c.c.

Limiti al potere dell'assemblea di decidere in ordine alla destinazione dell'utile

Prima di affrontare la questione relativa al potere dell'assemblea di statuire in merito alla distribuzione degli utili, occorre premettere che la delibera di approvazione del bilancio d'esercizio e la delibera di distribuzione degli utili costituiscono due atti collegati tra di loro ma al contempo autonomi.

In evidenza

Secondo l'orientamento prevalente in giurisprudenza, il rapporto intercorrente tra le due delibere in esame è dimostrato, peraltro, dal fatto che l'invalidità della delibera di approvazione del bilancio si riflette anche la delibera di destinazione dell'utile. Cfr. Trib. Milano, 30 aprile 1992, in Le Società, 1992, 1681 ss. e Trib. Milano, 13 gennaio 1983, cit., 1068 ss.: “se infatti è vero che la delibera concernente la destinazione dell'utile ha una sua autonomia logica rispetto a quella con la quale viene approvato il bilancio, è certo altrettanto vero che, proprio sul piano logico, l'atto di disposizione che l'assemblea compie riguardo all'utile non può prescindere dalla verifica e dalla dimostrazione contabile dell'esistenza e della misura di quel medesimo utile, alla cui finalità è anche preordinato il bilancio. Da ciò consegue che l'eventuale invalidità della delibera di approvazione del bilancio di esercizio, nel comportare la necessità di rinnovazione della redazione del bilancio medesimo per renderlo conforme al dettato legislativo, non può non riflettersi anche sulla validità della delibera assunta in ordine all'utile risultante dal bilancio invalido”. Secondo Cass. 28 maggio 2004, n. 10271, in Foro it., 2005, 816 ss. e Cass. 11 marzo 1993, n. 2959, cit., 1202 ss.: “L'accertamento, che deriva dall'approvazione del bilancio, e la distribuzione degli utili sono, quindi, considerati dalla legge come oggetto di due separate deliberazioni”.

Invero, per quanto concerne l'aspetto relativo al legame strutturale, si consideri che la delibera di approvazione del bilancio d'esercizio costituisce il presupposto, anche in termini temporali, della delibera di distribuzione degli utili: in tal senso, Cass. 29 gennaio 2008 n. 2020, in Le Società, 2008, 974 con nota di M. Di Sarli, secondo il quale l'approvazione del bilancio non fa sorgere automaticamente il diritto dell'azionista all'assegnazione del dividendo, poiché è sempre necessaria l'ulteriore e oggettivamente distinta deliberazione assembleare.

Per quanto riguarda l'aspetto relativo all'autonomia tra tali delibere, una conferma in tal senso risulta dalla divisione di competenze prevista nel sistema dualistico delle società per azioni. In particolare, secondo l'art. 2364-bis c.c., comma 1, n. 4 qualora nelle società per azioni sia previsto un consiglio di sorveglianza, la delibera in ordine all'approvazione del bilancio è rimessa a tale organo, mentre la delibera di distribuzione degli utili continua a essere di competenza dell'assemblea dei soci. Pertanto, le decisioni sulla distribuzione degli utili vengono assunte, nelle società per azioni, sempre dall'assemblea dei soci, indipendentemente dal sistema di corporate governance adottato (A. Postiglione, Riflessioni critiche sulla diffusa prassi di rinviare la distribuzione degli utili di esercizio, in Le Società, 2014, 157).

Ciò premesso, la competenza a decidere se distribuire i dividendi spetta in via esclusiva all'assemblea dei soci. In particolare, il potere dell'assemblea è soggetto ad alcuni vincoli che derivano sia dalle disposizioni normative, sia (eventualmente) dallo statuto della società. Per quanto concerne i limiti posti dalla legge, la principale disposizione di riferimento è data dall'art. 2433, comma 2, c.c. secondo cui la società può pagare i dividendi (i) realmente conseguiti e (ii) risultanti da un bilancio d'esercizio regolarmente approvato. La norma in esame precisa poi, al comma 3, che qualora si registri una perdita del capitale sociale, non sarà possibile ripartire gli utili sino a quando il capitale non sarà reintegrato ovvero ridotto in misura corrispondente. Ancora, l'art. 2430 c.c. prevede che la ventesima parte degli utili dovrà essere destinata a riserva legale fino a che questa non abbia raggiunto il quinto del capitale sociale e che tale riserva dovrà essere reintegrata se viene diminuita per qualsiasi ragione. Altri limiti legislativi relativi alla ripartizione dei dividendi sono posti dall'art. 2423, comma 4, c.c. secondo cui gli utili eventualmente derivanti da una deroga dalle disposizioni di redazione del bilancio dovranno essere iscritti in una riserva che può essere distribuita solo in misura corrispondente all'importo del valore recuperato. Inoltre, l'art. 2426, comma 1, n. 5, c.c. prevede che se sono stati capitalizzati costi di impianto e di ampliamento, costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità aventi utilità pluriennale per i quali non si è concluso il periodo di ammortamento, i dividendi potranno essere distribuiti solo se residuano riserve disponibili sufficienti a coprire l'ammontare dei costi non ammortizzati. Il successivo punto 8 bis della medesima norma dispone, inoltre, che gli utili su cambi dovranno essere accantonati in un'apposita riserva non distribuibile fino al realizzo.

Infine, occorre considerare che una predeterminata percentuale degli utili può dover essere accantonata come “riserva” se previsto dallo statuto (c.d. “riserva statutaria”).

Limiti derivanti dal rispetto del principio di correttezza e buona fede

Nel nostro ordinamento sussiste un favor legislativo per la distribuzione degli utili ai soci, come risulta dal dettato normativo dell'art. 2433, comma 1 c.c. secondo cui “la deliberazione sulla distribuzione degli utili è adottata dall'assemblea che approva il bilancio” e come risulta confermato altresì dagli artt. 2328, comma 1, 2247, 2265 e 2350 c.c.

Invero, come regola generale, l'assemblea provvede alla ripartizione degli utili tra soci se questi risultano dal bilancio d'esercizio regolarmente approvato.

La mancata ripartizione dei profitti si pone, dunque, come un'eccezione a tale regola, che per essere valida e giustificata deve fondarsi su ragioni rispondenti all'interesse effettivo della società (A. Postiglione, op. cit., 2014, 161, la quale evidenzia come “sarebbe auspicabile che la decisione assembleare di approvazione del bilancio di esercizio con rinvio della distribuzione dei dividendi recasse esplicitamente la motivazione della decisione [...] come pure lo facesse la delibera […] per decidere sulla distribuzione degli utili, che ne escludesse la distribuzione, tuttavia l'omissione di una formale comunicazione non può di per sé inficiare la validità della delibera”; R. Guglielmetti, op. cit., 2011, 786 ss.).

Per tale motivo, occorre prestare particolare attenzione al caso in cui l'assemblea decida di non approvare la distribuzione degli utili, essendo tale delibera potenzialmente censurabile ove assunta in violazione del principio di buona fede e correttezza nell'esecuzione dei diritti e degli obblighi relativi al contratto di società (Campobasso, Diritto commerciale, 2. Diritto delle società, Milano, 2009,163 secondo il quale la discrezionalità dell'assemblea di destinare gli utili all'autofinanziamento trova un temperamento nel principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto. Ciò consente di “affermare solo una generica regola di ripartizione periodica degli utili durante la vita della società e di sanzionare con l'annullabilità della delibera solo i comportamenti platealmente abusivi del gruppo di comando: mancata distribuzione di utili per più esercizi ispirata dal solo fine di indurre i soci di minoranza a disfarsi delle azioni”).

In particolare, si ritiene che la decisione dell'assemblea di non distribuire gli utili ai soci possa essere impugnata solo se il socio dimostri che la delibera era preordinata esclusivamente a fare acquisire alla maggioranza posizioni di indebito vantaggio in danno dei soci di minoranza (Cass. 29 gennaio 2008, n. 2020, in Vita Not., 2009, 141 relativa ad un'impugnazione di delibera assembleare di mancata distribuzione degli utili per “riportare a nuovo” l'utile netto di esercizio in conseguenza, tra l'altro, di svariate pretese tributarie che il Fisco aveva contestato alla società. La Cassazione ha affermato che gli elementi prospettati dall'impugnante non erano idonei “a varcare la soglia del semplice sospetto”).

A titolo esemplificativo, si ritiene che la decisione dell'assemblea di accantonare per più esercizi parte degli utili per il solo fatto che la società da tempo persegua una politica gestionale di espansione nel mercato (avendo in tal modo ben remunerato i soci mediante l'accrescimento del patrimonio sociale ottenuto con l'utilizzo delle somme non distribuite) integri la fattispecie dell'abuso della maggioranza (sul punto, Trib. Milano, 28 maggio 2007, in Giur. it., 2008, 130 che ha annullato la delibera in esame e ha al contempo evidenziato che “il principio di buona fede, tanto in sede di interpretazione che di esecuzione del contratto, […] comporta in capo a ciascun contraente obblighi di salvaguardia dell'utilità che lo strumento negoziale prescelto ha per gli altri, nei limiti in cui ciò non comporti per lo stesso un apprezzabile sacrificio. La verifica dell'esercizio abusivo, contrario a buona fede, del diritto di voto in assemblea non può prescindere [...] dal considerare come l'esercizio del diritto in concreto si sia atteggiato in relazione a tutti gli interessi in gioco. [...] Ciò precisato, si rileva che la società convenuta ha sostenuto che le decisioni impugnate non sarebbero dettate da abuso perché adottate con motivazioni diverse da quelle presunte dagli attori che non creano alcun danno né alla società, che è solo più ricca, né in capo ai soci, che vedano aumentare il loro valore della partecipazione. Ritiene, invece, il Collegio che la stessa lettura del verbale dell'assemblea in questione smentisca detto assunto e metta in evidenza che in sede di discussione e di decisione non è stata fornita alcuna motivazione della decisione di non far luogo alla distribuzione per il terzo esercizio consecutivo, a fronte della redditività della società, del livello della sua liquidità e di quello dei suoi costi di gestione”. In dottrina, cfr. G.E. Colombo op.cit., 2000, 506 secondo il quale non sarebbe sufficiente dimostrare l'inesistenza di attuali necessità di investimento, ma occorrerebbe dimostrare che non vi sono motivazioni finanziarie o economiche che giustificano la decisione dell'assemblea di rinviare la distribuzione degli utili e che “non sono prevedibili concrete e prossime possibilità di sviluppo dell'impresa in misura corrispondente all'accantonamento operato”).

Da ultimo, si rileva che i soci possono impugnare la deliberazione assunta dall'assemblea per violazione dei principi di buona fede e correttezza, ovvero per abuso della maggioranza; tuttavia, grava su di essi l'onere di dimostrare il potere di voto determinante del socio di maggioranza sia stato esercitato fraudolentemente allo scopo di ledere interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto.

Gli acconti sugli utili

L'art. 2433-bis c.c. consente alle società per azioni, il cui bilancio sia assoggettato ex lege al controllo di una società di revisione iscritta all'albo speciale, dunque essenzialmente alle società quotate in mercati regolamentati, la facoltà di distribuire acconti sui dividendi.

Ancorché legittima, tale fattispecie viene disciplinata dal Legislatore con particolare prudenza. Infatti, si rende necessaria una specifica previsione statutaria, il giudizio positivo sul bilancio dell'esercizio precedente rilasciato dalla società di revisione (bilancio dal quale, peraltro, risulti un utile e non risultino né perdite pregresse, né perdite di esercizio) e, infine, una delibera di approvazione da parte dell'organo amministrativo.

Inoltre, gli amministratori sono tenuti a redigere un prospetto contabile e una relazione, approvate dal soggetto incaricato della revisione legale dei conti, da cui risulti che la situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società permette la ripartizione di acconti sugli utili.

In evidenza

M. Bussoletti e P. De Biasi, op. cit., 2004, 1082: la necessaria previsione nello statuto della società della facoltà di distribuire acconti sugli utili trova il suo fondamento nell'esigenza che gli azionisti manifestino la loro volontà in ordine alla distribuzione degli utili. M. Bussoletti e P. De Biasi, op. cit

., 2004, 1082: dal tenore della norma sembra che il parere del soggetto incaricato della revisione legale dei conti rivesta carattere tecnico, non dovendo riguardare il merito della questione e che esso non sia vincolante, potendo gli amministratori decidere di procedere alla distribuzione degli acconti anche il presenza di un parere negativo.

In ogni caso, gli acconti sui dividendi non possono eccedere il minore importo fra quello degli utili conseguiti nell'esercizio precedente al netto di accantonamenti e riserve obbligatorie, e quello delle riserve disponibili, ciò affinché vi sia la certezza che la società distribuisca ai soci risorse già in suo possesso.

Infine, anche l'art. 2433-bis c.c., come il precedente art. 2433 c.c., prevede la non ripetibilità degli acconti distribuiti sui dividendi in conformità delle disposizioni della norma verso i soci che li hanno riscossi in buona fede, qualora successivamente venga accertata l'inesistenza degli utili di periodo risultante dal prospetto.

Riferimenti

Normativi

  • art. 2433 c.c.
  • art. 2433-bis c.c.
  • art. 2478-bis c.c.

Giurisprudenziali

  • Cass. 28 maggio 2004, n. 10271
  • Cass. 11 marzo 1993, n. 2959
  • Trib. Milano, 30 aprile 1992
Sommario