Clausole generali di bilancioFonte: Cod. Civ. Articolo 2426
10 Giugno 2015
Inquadramento
La disciplina codicistica del bilancio di esercizio, in seguito al recepimento della IV direttiva comunitaria, si articola su un triplice livello, in quanto, oltre alle clausole generali e alle norme specifiche sulle strutture e sulle valutazioni di bilancio già in precedenza previste, sono stati introdotti, al livello intermedio, i principi generali di valutazione, i quali pur non essendo caratterizzati dal grado di generalità della clausola generale non hanno neppure la specificità propria dei criteri di valutazione.
La sovraordinazione delle clausole generali trova esplicito riconoscimento nei commi 3 e 4 dell'art. 2423 c.c., che impongono rispettivamente di fornire informazioni supplementari qualora quelle richieste non siano sufficienti a dare una rappresentazione veritiera e corretta e di disapplicare le disposizioni contenute negli artt. 2423 c.c. e ss. qualora, in casi eccezionali, esse risultino incompatibili con la rappresentazione veritiera e corretta.
La strutturazione della disciplina codicistica del bilancio d'esercizio su tale triplice livello e la posizione al vertice della stessa delle clausole generali sono da considerare diretta conseguenza della particolarità della materia contabile che, dato l'elevato tecnicismo da cui è caratterizzata, non può essere regolata in ogni dettaglio dal legislatore, con la conseguente necessità di preservare la necessaria flessibilità alla disciplina consentendo l'individuazione della modalità di rappresentazione più adeguata per le fattispecie non previste, l'integrazione dell'informativa qualora quella richiesta non sia adeguata, la disapplicazione di norme che si rivelino (in casi eccezionali) non compatibili con la rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria nonché del risultato d'esercizio. Benché in dottrina si registrino discordanti orientamenti a riguardo, prevale la soluzione interpretativa che ravvisa nel dettato dell'art. 2423, comma 2, c.c. l'affermazione da parte del legislatore di tre clausole generali distinte seppur tra loro strettamente connesse (Pontani, La clausola generale ed i principi di redazione del bilancio, Padova, 2005, 193 ss.):
Per quanto concerne la portata della clausola generale della veridicità in relazione al profilo strettamente valutativo, va anzitutto sottolineata la scelta lessicale compiuta in occasione del recepimento della IV direttiva comunitaria di introdurre la nozione di veridicità anziché quella di verità: tale scelta è imputabile all'impossibilità di individuare una verità oggettiva di bilancio in ragione della presenza di poste stimate o soltanto congetturate. Proprio in forza di tale rilievo, è ormai pacifico che la veridicità consiste nella «corrispondenza tra enunciati – da un lato – e giudizi accurati e sorretti da adeguate conoscenze tecniche, dall'altro» (Colombo, Dalla chiarezza e precisione alla rappresentazione veritiera e corretta, in Il bilancio di esercizio, a cura di Palma, Giuffrè, 2008, 81; De Angelis, Elementi di diritto contabile, Giuffrè, 2013, 15). La veridicità del bilancio non presuppone dunque l'individuazione di un valore oggettivamente vero (salvo che per le poste “certe” quali, in definitiva, soltanto la “cassa” e le disponibilità liquide disponibili presso la banca), ma esige che il redattore del bilancio adotti un atteggiamento il più possibile oggettivo e neutrale ai fini della redazione del bilancio e che il processo valutativo sia fondato su un'adeguata base informativa e su un procedimento estimativo basato su adeguate metodologie e assunzioni logiche. Da condividere è dunque la ricostruzione secondo cui duplice è il rilievo della clausola della veridicità che, da un lato, esige dagli amministratori un determinato comportamento ai fini dell'individuazione degli elementi patrimoniali iscrivibili e della loro valutazione, dall'altro, mira (per mezzo dell'imposizione di un simile obbligo di condotta) alla rappresentazione in bilancio di risultati il più possibile conformi alla realtà (Colombo, Dalla chiarezza, cit.,81).
Per quanto concerne l'ambito di applicazione della clausola generale della veridicità (così come delle altre clausole di cui all'art. 2423, comma 2, c.c.) non può dubitarsi che esso comprenda anche la nota integrativa (che costituisce parte integrante del bilancio d'esercizio), sì che l'inclusione in essa di informazioni non veritiere determina la nullità della delibera di approvazione del bilancio (Bianchi, Le clausole generali della “chiarezza” e della rappresentazione in modo veritiero e corretto” del bilancio d'esercizio (art. 2423 c.c.), in Bilanci, operazioni straordinarie e governo dell'impresa, 2013, 12 ss., seppur con riferimento alla chiarezza; Lolli, La nota integrativa nel bilancio d'esercizio delle s.p.a., Giuffrè, 2003, 94 ss.).
Venendo ora alla disamina delle implicazioni applicative della clausola generale della veridicità, va anzitutto notato che essa assume capacità integrativa nei casi in cui le disposizioni di legge non regolino i presupposti di iscrivibilità e i criteri di valutazione di determinati elementi patrimoniali (Bocchini, Bilancio d'esercizio, 3 ed., Torino, 2010, 68; Bianchi, op. cit., 39). Incontroverso è altresì che la clausola generale della veridicità costituisce il parametro di riferimento ai fini della individuazione delle più idonee modalità applicative dei criteri valutativi nei numerosi casi in cui le disposizioni legislative concedono un margine di discrezionalità al redattore del bilancio (Bianchi, op. cit., 40). Quando lo stesso legislatore concede la facoltà di scelta tra più criteri per la valutazione di determinate categorie di attività è da ritenere, tuttavia, che la scelta tra di essi non possa essere operata sulla base della clausola di veridicità, poiché deve supporsi che l'impiego di ognuno dei criteri previsti sia di per sé compatibile con l'obiettivo di una rappresentazione veritiera. Segue: la correttezza
Strettamente connessa a quella di veridicità è (come posto in evidenza dalla lettera dell'art. 2423 c.c.) la clausola di correttezza, alla quale tuttavia la dottrina ha tentato di assegnare autonomo rilievo, sì da non privare di significato la scelta legislativa di introdurre tale nozione a fianco di quella di veridicità.
In dottrina sono state prospettate molteplici ricostruzioni della portata della clausola generale della correttezza.
Sembra, tuttavia, che nessuna delle tesi prese in considerazione sia in grado di dimostrare l'“autonomia” della correttezza rispetto alle altre clausole generali. Fermo restando che v'è uno stretto legame tra le clausole di veridicità e correttezza, è da ritenere che il rispetto di quest'ultima consegua normalmente all'applicazione delle norme di legge e dei principi contabili di generale accettazione (Venuti, op. cit., 217 s.; Pontani, op. cit., 264 s.). In linea teorica, dunque, la clausola di correttezza dovrebbe fungere da “filtro” nell'individuazione dei principi contabili applicabili: in concreto, tuttavia, il problema non sussiste in quanto è sostanzialmente automatica l'applicazione dei principi emanati dall'Organismo Italiano di Contabilità, che vengono elaborati all'esito di un procedimento che ne assicura, salvi rarissimi casi, la compatibilità con le disposizioni di legge.
In definitiva, le ipotesi in cui la clausola della correttezza assume effettivo rilievo sembrano essere principalmente quelle in cui l'iscrizione o la valutazione di un determinato elemento patrimoniale o reddituale non sia regolata né dalle disposizioni di legge né dai principi contabili: in simili circostanze la clausola della correttezza costituisce il parametro per la definizione del trattamento contabile applicabile nello specifico caso. Particolarmente significativo, in tale prospettiva, è il ruolo della clausola della correttezza ai fini del vaglio dei casi in cui sia ammissibile l'applicazione (non infrequentemente prospettata nella prassi) di talune previsioni dei principi contabili internazionali IAS/IFRS (ad esempio, quelle concernenti il momento della rilevazione delle perdite su crediti) da parte delle società italiane che redigono il bilancio in conformità alle disposizioni codicistiche. Il rispetto della clausola di correttezza impone infatti di accertare se le previsioni degli IAS/IFRS conducano ad una rappresentazione coerente con i principi generali previsti dall'art. 2423-bis c.c. e dei criteri valutativi previsti per le diverse poste di bilancio. Come già osservato con riferimento alla clausola della veridicità, è da ritenere che neppure quella di correttezza possa imporre, in presenza di una facoltà di scelta, l'adozione del criterio considerato maggiormente “corretto” (Caratozzolo, Il bilancio, cit., 94): una simile funzione della clausola generale della rappresentazione veritiera e corretta, comportando la disapplicazione della norma che consente al redattore del bilancio di optare tra diversi criteri, può essere riconosciuta soltanto in casi eccezionali entro i limiti del comma 4 dell'art. 2423 c.c.
Dopo un lungo periodo in cui la giurisprudenza poneva la clausola della chiarezza in rapporto di strumentalità e di subordinazione rispetto a quella di rappresentazione veritiera e corretta, è ormai largamente prevalente l'orientamento opposto accolto anche dalla giurisprudenza a seguito dell'importante pronuncia resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2000, che costituisce il leading case in materia (Cass., SS.UU., 21 febbraio 2000, n. 27, in Giur. comm., 2000, II, 73 ss., nota Jaeger; seguita da Cass. 9 maggio 2008, n. 11554, in Riv. Not., 2008, II, 1120 ss.; Cass. 2 maggio 2007, n. 10139, in Giust. civ., 2008, I, 441, nota Vidiri; Cass. 7 marzo 2006, n. 4874, in Società, 2007, 703). Tale impostazione era già precedentemente accolta dalla dottrina prevalente che sosteneva l'autonomia della clausola della chiarezza affermandone la natura imperativa e notando che la subordinazione della chiarezza alla rappresentazione veritiera e corretta era palesemente incompatibile con la funzione di obiettiva informazione esplicitamente attribuita ai conti annuali a seguito del recepimento della IV direttiva (Colombo, Il bilancio, cit., 65 ss.; Bocchini, op. cit., 60 ss.; Fortunato, Clausole generali e informazione contabile fra interpretazione giurisprudenziale e integrazione professionale, in Contr. impr., 2010, 483 ss.; Bianchi, op. cit., 10 s.). Alla stregua di quanto appena affermato è dunque possibile che un bilancio “veritiero e corretto” sia comunque illecito (e la relativa delibera di approvazione sia nulla) qualora esso non contenga le informazioni richieste dalla legge (o quelle complementari eventualmente necessarie) ovvero non consenta la comprensibilità delle informazioni in esso contenute (Bocchini, op. cit., 65).
In termini generali, il rispetto della clausola della chiarezza implica l'ordinata esposizione delle voci di bilancio, l'univocità e la comprensibilità delle denominazioni delle medesime nonché l'intelligibilità e la completezza delle informazioni di carattere qualitativo, contenute principalmente nella nota integrativa (Colombo, Il bilancio, cit., 61 s.; Venuti, op. cit., 190 s.). La clausola della chiarezza presuppone il raggiungimento di un livello informativo idoneo a soddisfare le esigenze conoscitive di un fruitore “medio”, che si presuppone dotato di una media cultura contabile (Caratozzolo, artt. 2423, 2423 bis c.c., in Commentario romano al nuovo diritto delle società, diretto da d'Alessandro, 2, Piccin, 2011, 612; Bianchi, op. cit., 24 ss.; contra Bussoletti – de Biasi, art. 2423, in Società di capitali. Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d'Alcontres, 2, Napoli, 2004, 986, per i quali i conti annuali devono ritenersi destinati ad un utilizzatore esperto).
La più significativa implicazione del principio di chiarezza è rappresentata dall'obbligo di fornire informazioni complementari di cui all'art. 2423, comma 3, c.c. (Colombo, Dalla chiarezza, cit., 84). Sebbene la norma appena richiamata riconduca tale obbligo alla clausola della rappresentazione veritiera e corretta, non può infatti dubitarsi che tale precetto costituisca principalmente un'implicazione della chiarezza (Colombo, Il bilancio, cit., 58 s.; Tantini, op. cit., 66; Giambanco, op. cit., 39; contra Bussoletti – de Biasi, op. cit., 988). Giacché il precetto di inserire ulteriori voci qualora il loro contenuto non sia compreso in alcuna di quelle previste dagli schemi di bilancio è esplicitamente dettato dall'art. 2423 ter, comma 3 c.c., il comma 3 dell'art. 2423 c.c. rileva principalmente per la redazione della nota integrativa, esigendo l'inclusione in essa di informazioni aggiuntive rispetto a quelle richieste dall'art. 2427 c.c. (Lolli, op. cit., 146 ss.).
Una problematica di notevole rilevanza applicativa riguarda l'efficacia “sanante” dei chiarimenti e delle informazioni fornite in assemblea a fronte di eventuali vizi di chiarezza del bilancio. La dottrina e la giurisprudenza sono divise sul punto:
Quest'ultima impostazione, seppur rispondente all'intento di arginare pretestuose impugnazioni di bilancio, non può essere condivisa in ragione della decisiva obiezione secondo cui il verbale assembleare in cui sono destinati a riflettersi i chiarimenti offerti in assemblea non è (come riconosciuto anche dalla Cass. 9 maggio 2008, n. 11554, cit.) parte del bilancio e non può perciò sanare vizi del medesimo.
La deroga obbligatoria prevista dall'art. 2423, comma 4, c.c. ha una fondamentale funzione sul piano teorico-sistematico in quanto afferma in modo esplicito la “supremazia” delle clausole generali su tutte le altre disposizioni in materia di bilancio. Non altrettanto chiara è la portata applicativa della deroga, pur potendo dal dettato normativo dedursi con certezza (come confermato dalla prassi: Venuti, op. cit., 280) che essa è destinata ad operare molto raramente, in «casi eccezionali», giacché deve ovviamente presumersi che le disposizioni degli artt. 2423-bis c.c. e seguenti siano normalmente conformi alle clausole generali di cui al comma 2 dell'art. 2423 c.c.
Anche in considerazione di tale ultima osservazione, merita condivisione l'opinione secondo cui la deroga ex art. 2423 comma 4 c.c., pur riferendosi astrattamente a tutte le disposizioni contenute negli articoli successivi, è destinata ad essere attivata pressoché esclusivamente in relazione alle disposizioni sui criteri di valutazione di cui all'art. 2426 c.c. (per tutti, Colombo, Il bilancio, cit., 331 ss.). Per quanto riguarda il rilievo della deroga nell'ambito dei criteri di valutazione l'“eccezionalità” della deroga impone una lettura restrittiva (e ormai pacifica) della medesima, in accordo alla quale il “caso eccezionale” deve riferirsi allo specifico bene e non alle condizioni “generali” della società o del mercato in cui essa opera, non potendo dunque in alcun caso considerarsi eventi idonei all'attivazione della deroga la svalutazione della moneta ovvero l'esigenza di evitare la riduzione del capitale ai sensi degli artt. 2446 e 2447 c.c. (Colombo, Il bilancio, cit., 334; Colombo Dalla chiarezza, cit., 91; Bocchini, op. cit., 84; De Angelis, op. cit., 16; Venuti, op. cit., 298 ss.).
Il ricorso alla deroga, inoltre, non è necessario qualora il criterio valutativo prescritto dal legislatore sia sufficientemente elastico (es.: il presumibile valore di realizzo per i crediti) da consentire il suo adattamento alle fattispecie che possono presentarsi e da risultare perciò conforme alle clausole generali (Venuti, op. cit., 302). L'ipotesi più rilevante di applicazione della deroga dovrebbe dunque concernere il superamento del limite massimo rappresentato dal costo storico per le attività valutate secondo tale criterio (Colombo, Il bilancio, cit., 337 s.).
L'art. 2423, comma 4, c.c. circonda l'attivazione della deroga, data la sua eccezionalità e le sue incisive conseguenze, di particolari cautele di carattere informativo e sostanziale (Bussoletti – de Biasi, op. cit., 989). Riguardo al primo profilo v'è l'obbligo di indicare nella nota integrativa le motivazioni e gli effetti della medesima sulla situazione patrimoniale e finanziaria nonché sul risultato d'esercizio. Un ulteriore precetto impone di iscrivere gli utili eventualmente derivanti dall'attivazione della deroga in una riserva non distribuibile se non in misura corrispondente al valore non recuperato, al fine di prevenire la distribuzione degli utili non realizzati derivanti dalla rivalutazione dei beni. Riferimenti
Normativi
Prassi
Giurisprudenza
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