Responsabilità civile
RIDARE

Atti discriminatori (responsabilità per)

16 Aprile 2014

La nozione di discriminazione si ricava dalle disposizioni contenute negli art. 43 del d.lgs. 286/1998 e 2 del d.lgs. 215/2003. La prima disposizione introduce, in attuazione dei precetti costituzionali, una sorta di clausola generale di non discriminazione e definisce discriminatorio qualunque comportamento che – direttamente od indirettamente - abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. L'art. 2 del d.lgs. 215/2003 definisce la nozione di discriminazione stabilendo che “ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell'origine etnica” (facendo salva, al secondo comma, la più ampia nozione di discriminazione per nazionalità, prevista dal citato d.lgs. 286/1998). Le norme citate descrivono le ipotesi di discriminazione diretta e contengono, poi, un chiaro riferimento alle discriminazioni indirette che, alla luce di una molteplicità di norme, interne (cfr. in particolare la l. n. 67/2006 che ha introdotto una tutela generale dalle discriminazioni in danno delle persone disabili al di fuori del mondo del lavoro), internazionali e di fonte comunitaria, possono essere definite come quelle disposizioni, criteri, prassi, atto, patto o comportamento apparentemente neutri che, però, mettono le persone di una determinata categoria socialmente individuabile in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, salvo ch tali disposizioni, criteri o comportamenti siano giustificati da ragioni oggettive non basate sulle qualità distintive o costitutive della categoria.

Nozione

BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

La nozione di discriminazione si ricava dalle disposizioni contenute negli art. 43 del d.lgs. 286/1998 e 2 del d.lgs. 215/2003. La prima disposizione introduce, in attuazione dei precetti costituzionali, una sorta di clausola generale di non discriminazione e definisce discriminatorio qualunque comportamento che – direttamente od indirettamente - abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. L'art. 2 del d.lgs. 215/2003 definisce la nozione di discriminazione stabilendo che “ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell'origine etnica” (facendo salva, al secondo comma, la più ampia nozione di discriminazione per nazionalità, prevista dal citato d.lgs. 286/1998).

Le norme citate descrivono le ipotesi di discriminazione diretta e contengono, poi, un chiaro riferimento alle discriminazioni indirette che, alla luce di una molteplicità di norme, interne (cfr. in particolare la l. n. 67/2006 che ha introdotto una tutela generale dalle discriminazioni in danno delle persone disabili al di fuori del mondo del lavoro), internazionali e di fonte comunitaria, possono essere definite come quelle disposizioni, criteri, prassi, atto, patto o comportamento apparentemente neutri che, però, mettono le persone di una determinata categoria socialmente individuabile in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, salvo che tali disposizioni, criteri o comportamenti siano giustificati da ragioni oggettive non basate sulle qualità distintive o costitutive della categoria.

Elemento soggettivo

La definizione di discriminazione (artt. 43 del d.lgs. 286/1998 e 2 del d.lgs. 215/2003) - nella parte in cui si definisce discriminatorio quel comportamento che, direttamente o indirettamente, abbia l'effetto (solo l'effetto e quindi non anche lo scopo) di distruggere il godimento, in condizioni di parità, dei diritti umani - porta a ritenere che l'imputazione della responsabilità non possa essere ancorata solo al tradizionale criterio della colpa (vedi in questo senso la giurisprudenza comunitaria e, in particolare, la sentenza della Corte di Giustizia, 8.11.1990, Dekker c. Stichting Vormingscentrum voor Jong Volwas-senen Plus, causa C-177/88, in Racc., 1990, p. 3941 e la giurisprudenza nazionale in tema di comportamento antisindacale, Cass. civ. sez. lav. 26 febbraio 2004 n. 3917). Secondo la disposizione legislativa, infatti, costituisce condotta discriminatoria anche quella che, pur senza essere animata da uno “scopo” di discriminazione, produca un "effetto" di ingiustificata pretermissione per motivi razziali, etnici ecc.

Il superamento del criterio della colpa è poi ancora più evidente nel caso delle discriminazioni indirette, nelle quali è sufficiente dimostrare che una disposizione, un criterio o una prassi siano astrattamente idonei a mettere le persone appartenenti ai gruppi tutelati in una “posizione di particolare svantaggio”, anche in assenza di una specifica intenzione discriminatoria (vedi, Trib. Trento, 23 settembre 2002).

Particolarmente interessante è l'applicazione dei principi in materia di c.d. “colpa d'apparato” fatta dal Tribunale di Padova che, decidendo di una dedotta discriminazione per motivi di religione, consistente nella mancata predisposizione, da parte della scuola, delle attività alternative all'insegnamento della religione), ha affermato che la colpa della pubblica amministrazione deve essere intesa non come colpa soggettiva del singolo funzionario agente, ma come colpa di apparato della pubblica amministrazione, configurabile ove l'attività amministrativa sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, che costituiscono limiti esterni alla discrezionalità (cfr. Trib. Padova, 30 luglio 2010).

Profili processuali

L'art. 28 del d.lgs. 150/2011 prevede che sono regolate dal rito sommario di cognizione “le controversie in materia di discriminazione di cui all'articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, quelle di cui all'articolo 3 della legge 1 marzo 2006, n. 67, e quelle di cui all'articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo”.

La legittimazione ad agire, per le ipotesi di discriminazione collettive, subisce una disciplina diversa in ragione del fattore che causa la discriminazione. In particolare per le discriminazioni fondate sul fattore di genere o sugli altri fattori di cui alla direttiva n. 2000/78/CE (orientamento sessuale, disabilità, età, convinzioni personali e credo religioso) la legittimazioni ad agire delle associazioni viene prevista sulla base del criterio generale del legittimo interesse dell'associazione a garantire il rispetto della normativa. Per le discriminazioni razziali il d.lgs. 215/2003 ha previsto una discrezionalità dell'esecutivo a selezionare i soggetti legittimati ad agire, individuati mediante lo strumento della previa obbligatoria iscrizione in uno dei due appositi Registri istituti presso il competente Ministero.

Onere della prova

In merito all'onere della prova della discriminazione, l'art. 28 del d.lgs. 150/2011– che, per disposizione dell'art. 8 sexies del d.l. n. 59/2008, contenente disposizioni urgenti per l'attuazione degli obblighi comunitari, ha introdotto un'agevolazione probatoria maggiore di quella originariamente contenuta nel comma 9 dell'art. 44 del d.lgs. 286/1998, che consentiva solo la possibilità per l'istante di offrire elementi presuntivi anche di natura statistica - prevede un'evidente “alleggerimento” (vedi Cass. sez. lav., 5 giugno 2013, n. 14206) dell'onere della prova. Chi chiede tutela deve offrire elementi idonei a far dedurre l'esistenza della condotta vietata dalla norma e la parte convenuta ha l'onere di dimostrare non semplicemente il fatto a base dell'eventuale eccezione, ma in positivo le circostanze idonee a giustificare il trattamento differenziato o ad escludere l'esistenza stessa di una differenziazione di trattamento (vedi Trib. Roma, sez. III lav., 21 giugno 2012).

L'onere della prova relativa al danno subito, e del quale si chiede il risarcimento, resta a carico del danneggiato, secondo il principio previsto dall'art. 2697 c.c.

Tutela specifica ripristinatoria

L'art. 28 del d.lgs. 150/2011 dispone che “Con l'ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate”.

La cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, già previsto dall'art. 4 d.lgs. 215/2003 e 216 del 2003, artt. 37 e 38 d.lgs. 198/2006 costituisce il contenuto ripristinatorio ed inibitorio tipico delle pronunce nell'ambito dei procedimenti sommari.

Il piano di rimozione delle discriminazioni (previsto dall'art. 28 del d.lgs. 150/20901 per le discriminazioni collettive ed individuali e con un'evidente funzione preventiva e dall'art. 37 del d.lgs. 198/2006 per le sole discriminazioni collettive, con una funzione anche ripristinatoria) costituisce uno strumento che astrattamente riempie di contenuto il principio, di derivazione comunitaria, di effettività della tutela, ma allo stesso tempo crea evidenti problemi di attuazione, con riferimento alla concreta individuazione del piano da parte del giudice, alle difficoltà di esecuzione tipiche degli ordini infungibili e all'efficacia dello stesso.

Ulteriori sanzioni consistono, poi, nella pubblicazione del provvedimento, per una sola volta, su un quotidiano a tiratura nazionale, a spese del convenuto (art. 28 del d.lgs. 150/2011) e nella revoca o esclusione da agevolazioni finanziarie o creditizie concesse dallo Stato o da enti pubblici o esclusione dagli appalti di opere, forniture e servizi (art. 44 comma 1 d.lgs. 286/1998).

Danno patrimoniale e danno non patrimoniale

In presenza di un'accertata discriminazione, l'attore che agisce in giudizio chiedendo anche il risarcimento del danno patrimoniale dovrà, secondo il generale principio dell'onere della prova (art. 2697 c.c.), provare l'esistenza del dedotto danno e l'entità dello stesso. Tra le poche pronunce che hanno riconosciuto un danno patrimoniale ai soggetti discriminati, meritano di essere ricordate quelle relative ai danni da perdita di chance relativi ad una discriminazione consistente nell'esclusione da un concorso (vedi Cass. civ. sez. lav. 18 marzo 2003 n. 3999; Cass. civ. sez. lav., 26 gennaio 2006 n. 852; Trib. Voghera 21 settembre 2005, Riv. Crit. Dir. Lav., 2005, p. 768; Trib. Prato 10 settembre 2010, Riv. Crit. dir. lav. 2010, p. 1063) e quelle che hanno riconosciuto il contributo economico per il sostegno alle locazioni, in caso di accertamento della condotta discriminatoria delle norme regionali che imponevano, per l'accesso a detto contributo, un'anzianità di residenza o di attività lavorativa in Italia di dieci anni (Trib. Trieste, 5 agosto 2011).

La lesione del diritto della persona umana alla parità di trattamento, diritto fondamentale di rilievo costituzionale primario ed assoluto (vedi Trib. Milano, 21 marzo 2002 n. 3614), a prescindere dal bene della vita rispetto al quale si è verificata l'esclusione (bene della vita che potrebbe riguardare diritti diversi da quelli costituzionalmente tutelati), sempre secondo i principi generali sopra richiamati e all'esito dell'esame del filtro di gravità della lesione e serietà del danno (nel senso chiarito dalle sentenze di San Martino 2008, dà luogo al risarcimento del danno non patrimoniale (cfr. Trib. Milano, 22 luglio 2008 che ha riconosciuto al somma di euro 250,00 a titolo di danno non patrimoniale da discriminazione, in relazione ad un'ordinanza di divieto di iscrizione alla scuola materna per i figli extracomunitari privi di permesso di soggiorno; Trib. Roma, 16 luglio 2008 in Dir. Imm. e citt. 2010,2, 157 che ha liquidato la somma di euro 5.000,00 per un rifiuto di servire la consumazione ad un cliente extracomunitario; vedi, anche per una rassegna di giurisprudenza, Alberto Guariso, I provvedimenti del Giudice, in Il Nuovo Diritto Antidiscriminatorio, a cura di Marzia Barbera, Giuffrè Editore, 2007).

L'art. 28 comma 6 del d.lgs. 150/2011 prevede che il giudice, nella liquidazione del danno, debba tener conto della natura ritorsiva del comportamento discriminatorio rispetto ad una precedente azione del soggetto volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento, in tal modo prescindendo dal danno conseguenza (cfr. per un'ipotesi di riconoscimento di danno da ritorsione, vedi Trib. Brescia, sez. lav., n. 2/2013).

Discriminazione nei rapporti con la pubblica amministrazione: la c.d. discriminazione istituzionale

Come chiarito dalla Corte di Cassazione, in tema di tutela avverso atti o comportamenti discriminatori, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario: il giudice deve decidere la controversia valutando il provvedimento amministrativo denunciato, disattendendolo, tamquat non esset, e adottando i conseguenti provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti (cfr.: Cass. 15 febbraio 2011 n.3670; Cass. 30 marzo 2011 n.7186).

Ove l'attività della pubblica amministrazione, provvedimentale o meno, venga svolta in contrasto con il principio di parità di trattamento, il giudice potrà condannare, come detto, al risarcimento del danno, ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio ed anche sostituirsi alla pubblica amministrazione nell'emanazione degli atti dovuti (cfr. Corte Costituzionale ord. 17.5.2001 n. 140).

Casistica

  • Nelle c.d. “discriminazioni per associazione” – quelle nelle quali la vittima subisce la discriminazione in quanto associata o frequentante persone, familiari o amici, appartenente a categorie oggetto discriminazione – la Corte di Giustizia Europea ha affermato che la protezione offerta dalla direttiva n. 2000/78 si estende anche a coloro che, benché non disabili essi stessi, subiscano una discriminazione diretta o molestie in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in quanto si trovano in stresso rapporto con una persona disabile (Corte di Giustizia, 17.7.2008, S. Coleman contro Attridge Law e Steve Law, C-303/06). Nella giurisprudenza italiana, vedi Trib. Pavia 18 settembre 2009 e Trib. Brescia 31 gennaio 2012.
  • L'inserimento del requisito della cittadinanza italiana nel bando per l'assegnazione degli alloggi a agli studenti provenienti da una determinata provincia e frequentanti università di detta provincia costituisce comportamento con il quale la pubblica amministrazione discrimina gli studenti stranieri in quanto tali (cfr. Trib. Milano, 1 agosto 2009; Trib. Brescia 19 gennaio 2010).
  • Gli artt. 2 e 3 Cost. italiana ricomprendono nel novero dei diritti inviolabili quello alla sessualità e quello alla realizzazione personale secondo il proprio orientamento sessuale. Le sofferenze e i patemi d'animo ingenerati dalla discriminazione fondata sull'orientamento sessuale fanno sorgere un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale (liquidato dal Tribunale di Catania in euro 100.000,00 nel caso di un giovane che, in ragione della sua dichiarata omosessualità, è stato giudicato non idoneo dall'Ospedale militare a svolgere il servizio di leva obbligatorio, in quanto affetto da "disturbo dell'identità sessuale" e dalla Motorizzazione civile, idoneo alla conduzione dei veicoli, con limitazione ad un anno a causa del “disturbo dell'identità sessuale”).
  • In presenza di una previsione, in un'ordinanza sindacale, ai fini dell'iscrizione anagrafica di uno straniero extracomunitario, di requisiti e documenti ulteriori rispetto a quelli richiesti ai cittadini italiani si è in presenza di una condotta discriminatoria, da rimuovere attraverso l'adeguamento dei provvedimenti amministrativi adottati a quanto stabilito dalla legge in ordine al diritto di iscrizione anagrafica e l'iscrizione del soggetto discriminato nell'anagrafe della popolazione residente con effetto dalla richiesta (Trib. Bergamo, 15 marzo 2011, confermata in sede di reclamo da Trib. Bergamo 7 marzo 2011, pres. Marongiu).
  • L'esistenza di barriere architettoniche, tali da impedire al disabile di salire sul mezzo di trasporto pubblico configura una discriminazione indiretta a danno dei disabili, mettendoli di fatto e nei risultati in una posizione di svantaggio rispetto alle altre persone. Il Tribunale di Roma ha ordinato dunque al Comune di Roma di realizzare entro 12 mesi un piano per la messa a norma dei marciapiedi corrispondenti alle fermate dei bus utilizzati dal ricorrente. Il Tribunale di Roma ha riconosciuto in favore del ricorrente il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, quale risultante dall'oggettiva violazione del diritto fondamentale alla libertà di circolazione, e fissato in via equitativa nella somma di 5,000 euro (Trib. Roma, n. 4929/2012).
  • Nell'ambito delle operazioni di sgombero di un campo rom, ove un cittadino italiano di etnia Rom venga condotto presso l'Ufficio Immigrazione della Questura di Roma e sottoposto a rilievi dattiloscopici e fotografici, senza essere sospettato di alcun reato e nonostante non vi fossero elementi per dubitare della propria identità, è stata accertata la natura discriminatoria ed illegittima del procedimento di identificazione, raccolta e conservazione di dati sensibili ed è stata accolta la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale arrecato al ricorrente dalla lesione dei diritti alla reputazione de alla riservatezza (Trib. Roma, II sez. civ., 27 maggio 2013).
  • In merito alla molestia razziale il Tribunale di Milano ha ritenuto che integri tale fattispecie l'utilizzo, da parte di esponenti e partiti politici, di un linguaggio e di termini con valenza dispregiativa nei confronti di gruppi etnici minoritari, tali da veicolare il messaggio che tali gruppi siano di per sé emblemi di negatività, di pericolo e di minaccia (Trib. Milano, 28 maggio 2012; vedi anche Trib. Pescara, 25 giugno 2013 che ha accertato il carattere discriminatorio della condotta del Popolo delle Libertà e della Lega Nord Abruzzo per avere accumunato i rom ai delinquenti).

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