Mobbing

Chiara Colosimo
15 Aprile 2014

Il referente normativo per le condotte qualificabili in termini di mobbing è l'art. 2087 c.c. che dispone che “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. In assenza di una definizione legislativa, il concetto di mobbing è stato circoscritto dalla Corte di Cassazione quale condotta sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro garantite, per l'appunto, dall'art. 2087 c.c. Tale comportamento illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza sopra richiamato, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato, e anche in assenza di una violazione di specifiche norme poste a tutela del dipendente. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta datoriale che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa (Cass. civ. sez. lav., n. 4774/2006).
Nozione

Il referente normativo per le condotte qualificabili in termini di mobbing è l'art. 2087 c.c. che dispone che “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

In assenza di una definizione legislativa, il concetto di mobbing è stato circoscritto dalla Corte di Cassazione quale condotta sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro garantite, per l'appunto, dall'art. 2087 c.c.

Tale comportamento illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza sopra richiamato, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato, e anche in assenza di una violazione di specifiche norme poste a tutela del dipendente.

La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta datoriale che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa (Cass. civ. sez. lav., n. 4774/2006).

Tali comportamenti rilevano qualora determinino causalmente nel lavoratore l'insorgere di una vera e propria patologia.

Come tale, il mobbing è comportamento senz'altro rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c., che è norma primaria costitutiva di obblighi con una portata precettiva tale da ricomprendere qualsiasi atto o comportamento comunque lesivo della persona del lavoratore. Si tratta, infatti, di una disposizione di chiusura destinata a imporre la massima sicurezza possibile: una previsione che qualifica la condotta, non in base al suo contenuto, ma in considerazione del solo bene protetto.

Sussiste la fattispecie in esame, e conseguentemente la responsabilità del datore di lavoro, anche nell'ipotesi in cui la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente. In tali ipotesi, infatti, la responsabilità del datore del lavoro sorge in forza degli obblighi posti a carico dello stesso dall'art. 2049 c.c., ove sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (Cass. civ. sez. lav., n. 18093/2013; vedi anche Cass. civ. sez. lav., n.22858/2008).

Elemento oggettivo

Il Supremo Collegio ha chiarito che il mobbing si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (sistematici e reiterati abusi idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico; Cass. civ. sez. lav., n. 18836/2013.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva sono da considerarsi rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cass. civ. sez. lav.,n. 3785/2009).

È caratteristica propria del mobbing, dunque, la sussistenza di un disegno persecutorio nei confronti del dipendente, realizzato per mezzo di comportamenti vessatori, o comunque lesivi dell'integrità fisica e della personalità del prestatore di lavoro, protratti per un periodo di tempo apprezzabile e finalizzati all'emarginazione del lavoratore, ovvero oggettivamente dirette alla sua espulsione dal contesto lavorativo (Cass. civ. sez. lav., n. 18836/2013; Cass. civ. sez. lav., n. 4135/2013).

Elemento soggettivo

Sotto il profilo soggettivo, consolidato orientamento della Suprema Corte richiede che sussista e sia data prova del cosiddetto intento persecutorio, ovvero della sussistenza della coscienza e dell'intenzione del datore di lavoro di arrecare danno al dipendente (Cass. civ. sez. lav., n. 18836/2013; cfr. anche Cass. civ. sez. lav., n.18927/2012).

Si richiede, in sostanza, che i comportamenti posti in essere siano caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (Cass. civ. sez. lav.,n. 12725/2013).

Medesimo orientamento si rinviene nella giurisprudenza del Giudice Amministrativo, che ritiene che singoli comportamenti datoriali non possano essere qualificati come costitutivi di mobbing se è dimostrato in giudizio che vi è una ragionevole e alternativa spiegazione al comportamento datoriale, poiché quest'ultimo può considerarsi mobbizzante solo ove si riveli univocamente sorretto da scopi emulativi, e cioè dall'unica e illecita finalità di condurre alla progressiva emarginazione della vittima dall'ambiente lavorativo. Va, invece, escluso qualora trovi il suo fondamento in situazioni e circostanze che di volta in volta ben giustificavano l'esercizio del potere di controllo dell'Amministrazione o l'adozione di misure organizzative finalizzate a garantire il buon andamento dell'ufficio (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., n. 274/2013).

Anche secondo la giurisprudenza di merito le suddette finalità qualificano l'intera fattispecie e devono essere dimostrate dal lavoratore-ricorrente (TAR Firenze, sez. I,n. 1463/2012; vedi anche TAR Genova, sez. II, n. 1629/2012).

Ai fini della valutazione della sussistenza dell'intento persecutorio non può essere tenuto in considerazione il solo punto di vista del lavoratore (che, evidentemente, assume una visione necessariamente unitaria degli episodi denunciati), ma è necessario verificare, da un punto di vista oggettivo, se esista il reale collegamento fra i suddetti episodi e, quindi, il collegamento logico degli stessi nell'ambito di un atteggiamento persecutorio da parte dei superiori. (TAR Venezia, sez. I,n. 1401/2011).

Giova precisare che l'elemento soggettivo di cui si discute non è riconducibile all'accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro, che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria, ma risultano collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro (Cass. civ. sez. lav., n. 1609/2013).

Onere della prova

Dovendosi ricondurre la controversia risarcitoria nell'alveo della responsabilità contrattuale, ex art. 1218 c.c., la distribuzione dell'onere probatorio fra il prestatore asseritamente danneggiato e il datore di lavoro deve essere operata in base al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro in base al principio di inversione dell'onus probandi di cui all'art. 1218 c.c. il solo onere di provare l'assenza di una colpa a sé riferibile (ex multis, Cass. civ. sez. lav., n. 22305/2007; Cass. civ. sez. lav., n. 19053/2005).

Il riparto dell'onere della prova deve essere effettuato in base ai principi generali vigenti in materia e, quindi, innanzitutto con riferimento all'art. 2697 c.c.

Il tratto strutturante del mobbing (ossia ciò che attrae nell'area della fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro) è la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa: quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo.

Il lavoratore deve quindi fornire la prova:

  1. della molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio,
  2. dell'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente,
  3. del nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore,
  4. dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cass. civ. sez. lav., n. 898/2014).

Ai fini della liquidazione in suo favore del risarcimento del pregiudizio patito, il lavoratore che lamenta di esser vittima di una condotta persecutoria da parte del datore di lavoro deve quindi dimostrare la realizzazione dei comportamenti mobbizzanti, il dolo del mobber (generico e specifico, consistente nella sua specifica intenzione di discriminare e vessare il mobbizzato, esercitando nei suoi confronti una vera e propria forma di violenza morale), l'effettività del danno (nelle diverse accezioni di danno patrimoniale, danno biologico, danno da demansionamento, danno alla personalità e alla sua estrinsecazione nell'attività lavorativa), nonché il relativo nesso causale tra quest'ultimo e le vessazioni subite.

Il carattere mobbizzante delle condotte non può essere desunto da mere osservazioni o valutazioni di carattere soggettivo, dovendo invece presentare caratteristiche strutturali durature e oggettive e, come tali, verificabili e documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi che siano in grado di confermare o meno quanto lamentato dal lavoratore (Trib. Bari, 28 aprile 2005).

Dunque, il lavoratore che non riesca a fornire prova della perpetrazione della lamentata serie reiterata di comportamenti volti all'intenzionale dequalificazione, mortificazione e isolamento, non potrebbe veder accolta la propria domanda (Trib. Latina, sez. lav., 11 dicembre 2012).

Medesimo orientamento si rinviene presso il Giudice Amministrativo, che ha affermato che il soggetto destinatario di una condotta mobbizzante deve provvedere a una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio, con la precisazione che non rilevano mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo: il mobbing, proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo, non può essere imputato in via esclusiva o prevalente al vissuto interiore del soggetto ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (TAR Roma, sez. I,n. 6008/2012; TAR Venezia, sez. I, n. 1401/2011). Quando il lavoratore omette di fornire la prova anche solo di uno dei presupposti della pretesa azionata in giudizio, dovrà ritenersi insussistente uno degli elementi costitutivi della fattispecie e del conseguente obbligo risarcitorio, con la conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, risultando in tal caso irrilevante ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso.

L'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva: l'affermata responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.

Il lavoratore che lamenti di avere subito un danno alla salute deve, sempre e comunque, provare l'esistenza di tale danno e la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro. Solo quando il lavoratore ha fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno, e che la malattia del dipendente non è ricollegabile all'inosservanza di tali obblighi (Cass. civ. sez. lav., n. 2038/2013).

Il danno e la sua liquidazione

Il danno eventualmente conseguente a una condotta mobbizzante non può in alcun modo valere come danno esistente in re ipsa,ma deve essere dimostrato nella sua effettiva esistenza ed entità. Il riconoscimento del danno derivante dal mobbing non può prescindere, dunque, dall'accertamento della sussistenza di un pregiudizio effettivo.

Il danneggiato ha senz'altro diritto all'integrale risarcimento del danno subito, dovendosi a tal fine rammentare che il mobbing è condotta astrattamente idonea a determinare una pluralità di pregiudizi.

Nel danno da mobbing può essere considerato il danno patrimoniale, inteso quale lesione al patrimonio professionale in senso stretto (sia essa mortificazione della professionalità già acquisita, sia essa perdita di chances per il futuro), ogniqualvolta la condotta mobbizzante sia stata realizzata anche attraverso il demansionamento del lavoratore. Si osservi, in proposito, che la dequalificazione non si può configurare come mobbing se non si riesce a dimostrare l'esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro. In ogni caso, il demansionamento che provochi danni morali e professionali dà sempre diritto al risarcimento (Cass. civ. sez. lav., n. 12770/2012).

Sotto la voce del danno non patrimoniale, potranno invece essere considerate le lesioni alla personalità e alla dignità del lavoratore, all'immagine e alla vita di relazione, così come il danno all'integrità psico-fisica.

Per quanto attiene ai criteri di liquidazione del danno non patrimoniale nella sua componente di danno biologico, la giurisprudenza è oramai solita fa ricorso alle Tabelle milanesi di liquidazione non patrimoniale.

Detto criterio di liquidazione, d'altronde, è stato riconosciuto parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico, in ossequio alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. (Cass. civ. sez. III, n. 12408/2011, e Cass. civ. sez. III, n. 28290/2011).

Per quel che attiene alla componente di danno alla professionalità propriamente intesa, invece, la giurisprudenza è solita adottare a parametro la retribuzione percepita dal lavoratore (cfr. Cass. civ. sez. lav., 7967/2002), riconoscendo a titolo di risarcimento una percentuale parametrata alla gravità del demansionamento patito, ossia in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente, nonché all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore (Cass. civ. S.U.,n. 4063/2010).

Per il resto, la condotta mobbizzante ha l'attitudine a determinare pregiudizi che, per la natura che gli è propria, sono privi delle caratteristiche della patrimonialità e suscettibili di liquidazione esclusivamente equitativa (Cass. civ. sez. lav., n. 4975/2006; Trib. Roma, 15 febbraio 2005).

Si rammenti che la risarcibilità del danno all'immagine derivato al lavoratore presuppone che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi (Cass. civ. sez. lav., n. 5237/2011).

Aspetti processuali

Il giudizio deve essere instaurato con ricorso ex art. 414 c.p.c. in base ai normali criteri di competenza funzionale e per territorio, ai sensi degli artt. 409 ss. c.p.c.

Il lavoratore ha l'onere di specificamente allegare, dedurre e chiedere di provare i singoli episodi che, complessivamente considerati, in quanto uniti da un intento persecutorio che deve essere parimenti allegato e dedotto, compongono il preteso comportamento mobbizzante.

Parimenti, il lavoratore-ricorrente dovrà dedurre e chiedere di provare il danno che assume patito e la sussistenza di un nesso causale tra le condotte ritenute mobbizzanti e il danno de quo.

Nel rito del lavoro il ricorrente è tenuto a indicare già in ricorso i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, che devono essere specificati così come prescritto dall'art. 414, n. 5, c.p.c.: l'omessa indicazione dei mezzi di prova non comporta la nullità del ricorso, ma la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo.

Vero che è carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale e che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale e idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti. Tuttavia, deve esservi sempre specifica motivazione dell'attivazione dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421 c.p.c., e la Suprema Corte ha chiarito che è corretta la decisione che ritiene decaduto il lavoratore-ricorrente dalla prova di asseriti fatti di mobbing quando tale prova non viene richiesta specificamente nel ricorso introduttivo del giudizio (Cass. civ. sez. lav., n. 22305/2007).

Il datore di lavoro convenuto, nella memoria di cui all'art. 416 c.p.c., potrà limitarsi a contestare specificamente le deduzioni del lavoratore-ricorrente (al quale solo, come si è visto, spetta di provare l'esistenza del mobbing).

Il datore-convenuto potrà anche dedurre e chiedere di provare fatti o elementi utili a dimostrare l'insussistenza dell'intento persecutorio, così come la riconducibilità di determinati comportamenti o episodi all'esclusivo legittimo esercizio dei tipici poteri datoriali (ad esempio, la sussistenza di un legittimo esercizio dello jus variandi). In tal caso, dovrà da subito tutte le proprie difese e istanze istruttorie per non incorrere nelle preclusioni e decadenze del rito.

Qualora il lavoratore agisca nei confronti di più datori di lavoro addebitando loro un'attività coordinata di dequalificazione e mobbing, e chiedendo quale effetto della condotta il risarcimento dei danni, sussiste tra le domande una connessione eccedente quella del mero cumulo soggettivo tra causa prevista dall'art. 33 c.p.c., analoga semmai alle più intense fattispecie di connessione prevista dagli art. 31 c.p.c. e ss. ovvero dall'art. 331 c.p.c., sicché, inapplicabili i criteri di competenza inerenti al singolo rapporto di lavoro, opera il criterio residuale di cui all'art. 413, comma 7, c.p.c., riferito al foro generale delle persone fisiche o giuridiche (Cass. civ. sez. lav., n. 29039/2011).

Profili penalistici

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest'ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Cass. pen. sez. VI., n. 28603/2013; vedi anche Cass. pen. sez. VI., n. 16094/2012; Cass. pen. sez. VI, sent.,n. 43100/2011).

Per quel che attiene alla condotta del lavoratore, il Supremo Collegio ha affermato che, al cospetto di una condotta di mobbing compiuta dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, deve verificarsi se la condotta stizzita del dipendente tradottasi nell'ingiuria sia da ritenere non punibile in quanto reazione ad una provocazione (Cass. pen. sez. V., n. 4245/2012).

Casistica

Mobbing verticale e mobbing orizzontale

Perché si possa parlare di atti di "mobbing" (persecuzione) e/o "bossing" (sottomissione), necessita che si sia determinata sul luogo di lavoro un'oggettiva situazione persecutoria, per essere stato il dipendente sottoposto ad una serie continua di comportamenti arbitrari da parte dei superiori (mobbing verticale) e/o altri colleghi (mobbing orizzontale), con l'unico scopo di danneggiare il sottoposto e/o collega, in quella che é la sua posizione lavorativa. Ciò implica, in definitiva, una consapevole strategia unitaria vessatoria e non singoli atti che possono rientrare nell'ordinaria dinamica del rapporto di lavoro e che si pongono come conseguenti a conflitti interpersonali causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima (TAR Pescara, sez. I, 20 giugno 2012, n. 300).

Va esclusa la condotta di mobbing orizzontale al cospetto di una situazione di ostilità, acutissima, ma circoscritta ai rapporti con una sola collega, in mancanza altresì della prova della conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro (Trib. Milano, 17 novembre 2011).

Demansionamento/mobbing

Qualora il lavoratore, agendo in giudizio per il danno derivante da demansionamento, chieda anche la componente di danno alla vita di relazione o cosiddetto danno biologico deducendo sin dall'atto introduttivo la lesione della propria integrità psico-fisica in relazione, non solo al demansionamento, ma anche al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, la successiva qualificazione come "mobbing" del suddetto comportamento, non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, in considerazione della mancanza di una specifica disciplina del "mobbing" e della sua riconduzione (anche secondo la sent. della Corte cost. n. 359/2003) alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c. c., alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore (Cass. civ. sez. lav., n. 6326/2005)

Ai fini della deduzione del mobbing non è sufficiente la prospettazione di un mero "svuotamento delle mansioni", occorrendo, anche l'allegazione di una preordinazione finalizzata all'emarginazione del dipendente (Cass. civ. sez. lav., n. 7985/2013).

Discriminazione/mobbing

La condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo (cosiddetto "mobbing") si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria per motivi sindacali: richiedendosi, nel primo caso, una pluralità di atti e comportamenti (eventualmente anche leciti in sé considerati) unificati dall'intento di intimorire psicologicamente il dipendente e funzionali alla sua emarginazione, attuandosi, invece, la discriminazione per motivi sindacali, anche attraverso un unico atto o comportamento e connotandosi di illiceità di per sé, in quanto diretta a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere da un intento di emarginazione. Ne consegue che la domanda con cui si deduca, quale autonomo motivo di illegittimità della condotta datoriale, il "mobbing" ha una "causa petendi" differente rispetto alla domanda diretta alla repressione di atti discriminatori per ragioni sindacali e, ove venga introdotta per la prima volta in appello, va dichiarata inammissibile (Cass. civ. sez. lav., n. 22893/2008)

Mobbing e licenziamento

In tema di licenziamento individuale per giusta causa la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per "mobbing" e conseguente malattia depressiva, in relazione a comportamenti datoriali che abbaino determinato il dipendente alle dimissioni, è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva ritenuto non sostenuta da prova sufficiente la tesi della ricorrente lavoratrice della sussistenza di comportamenti della società datrice di lavoro finalizzati a nuocerle per indurla alle dimissioni e comunque per provocarle danno, sostenendo in particolare che i mutamenti nell'attribuzione della clientela e l'eliminazione del supporto del "merchandiser" avevano trovato ampia giustificazione, da un lato, nella ristrutturazione aziendale, che aveva implicato una riduzione di organico e la soppressione della posizione professionale di tutti i "merchandiser"; dall'altro, nei ripetuti e prolungati periodi di assenza della lavoratrice che avevano imposto la distribuzione della clientela di sua competenza agli altri venditori) (Cass. civ. sez. lav.,n. 19053/2005).

Autotutela

Non sussiste danno da mobbing qualora il lavoratore reagisca ai richiami ed ai rimbrotti ricevuti rispondendo colpo su colpo, così dimostrando capacità di sottrarsi alla persecuzione del proprio superiore (App. Ancona, sez. lav., n. 1199/2013).