Responsabilità civile
RIDARE
03 Ottobre 2016

Vengono qui esaminate le problematiche relative alla contrazione delle malattie professionali asbesto-correlate sul luogo di lavoro. Si affronta la questione della responsabilità del datore di lavoro per l'insorgenza di tali tecnopatie, in quanto titolare di una posizione di garanzia per la salute e la sicurezza dei propri lavoratori. In particolare, vengono stigmatizzate le peculiari problematicità connesse all'accertamento del nesso di causa fra la condotta del datore di lavoro e la manifestazione delle diverse patologie derivanti da amianto, nonché la complessa tematica della sussistenza della colpevolezza del garante.

Inquadramento

BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

Vengono qui esaminate le problematiche relative alla contrazione delle malattie professionali asbesto-correlate sul luogo di lavoro. Si affronta la questione della responsabilità del datore di lavoro per l'insorgenza di tali tecnopatie, in quanto titolare di una posizione di garanzia per la salute e la sicurezza dei propri lavoratori. In particolare, vengono stigmatizzate le peculiari problematicità connesse all'accertamento del nesso di causa fra la condotta del datore di lavoro e la manifestazione delle diverse patologie derivanti da amianto, nonché la complessa tematica della sussistenza della colpevolezza del garante.

Infine, una volta enucleati i criteri su cui fondare la responsabilità del datore di lavoro, vengono trattati gli aspetti relativi alla possibilità per il lavoratore di ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza della contrazione di una patologia asbesto-correlata.

In evidenza

L'impostazione scientifica prevalente ha come conseguenza giuridica quella di considerare rilevanti sul piano causale le condotte di tutti i datori di lavoro che si siano succeduti fino al completamento del periodo di induzione della malattia asbesto-correlata di tipo tumorale (carcinoma e mesotelioma) e non di quelli che abbiano rivestito tale posizione di garanzia durante il periodo di latenza clinica.

La natura della condotta: omissiva o commissiva?

Nell'affrontare il tema dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro nell'insorgenza delle patologie derivanti da esposizione all'amianto, appare necessario risolvere preliminarmente la questione che attiene alla qualificazione della natura commissiva od omissiva della condotta del datore di lavoro.

Assumendo come criterio distintivo quello proposto qualche anno fa dalla dottrina, che è poi stato confermato nella recente giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., 3 maggio 2010, n. 16761), l'addebito è commissivo qualora si possa imputare al soggetto agente di avere introdotto nella situazione concreta un fattore di rischio in precedenza assente, poi effettivamente sfociato nella produzione di un evento lesivo.

Viceversa, l'addebito è omissivo quando il soggetto non ha contrastato quei fattori di rischio, poi effettivamente produttivi dell'evento lesivo, già presenti nella situazione concreta.

Nei processi relativi all'esposizione all'amianto, così come in tutti i casi riguardanti il contatto con altri tipi di sostanze tossiche, la giurisprudenza di legittimità è divisa nel dare una qualificazione rispetto alla natura giuridica -commissiva od omissiva- della responsabilità dei gestori dell'impresa.

Secondo l'orientamento tradizionale, la natura della condotta del datore di lavoro per insorgenza di una malattia asbesto-correlata dovrebbe senza dubbio qualificarsi come omissiva (cfr. Cass. pen., 24 maggio 2012, n. 33311; Cass. pen., 22 marzo 2012, n. 24997; Cass. pen., 21 dicembre 2011, n. 11197).

I sostenitori di tale tesi, infatti, mettono in luce che i garanti dell'impresa, svolgendo i compiti loro attribuiti, abbiano omesso di adottare le misure di prevenzione previste dalla legge per la salute dei lavoratori o comunque non li abbiano adeguatamente informati in merito al “rischio amianto”.

Questa teoria, tuttora prevalente, è stata di recente contrastata da un altro indirizzo (soprattutto penalistico) che, al contrario, assegna ad una siffatta condotta natura commissiva, mettendo in evidenza la rilevanza prima di tutto di scelte positive di politica aziendale, quali, per esempio, la decisione di lavorare il cemento-amianto o, semplicemente, l'adibizione dei lavoratori a mansioni potenzialmente pericolose (cfr. Cass. pen., 12 luglio 2012, n. 41184).

Quest'ultimo orientamento è stato accolto con favore anche dalla dottrina maggioritaria, la quale ritiene che si riesca così a preservare la (corretta) scelta di fondo, volta a tenere distinte le condotte omissive vere e proprie dalle condotte commissive colpose (MASERA, «Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva», in Dir. pen. proc., 2006, pp. 500 ss.).

Sulla scorta di queste considerazioni, la più recente (sia pur ancora minoritaria) giurisprudenza ritiene che la condotta del datore di lavoro, in un ambiente lavorativo con presenza di amianto, sarebbe di natura commissiva (v. la citata sentenza Cass. pen., sent., n. 41184/2012).

La condotta contestata al datore di lavoro consisterebbe, infatti, nell'avere esposto i lavoratori (o i terzi) attraverso l'organizzazione aziendale ad un fattore di rischio (quale è il contatto con l'amianto) al quale essi non erano precedentemente esposti: proprio a causa di quell'organizzazione del processo produttivo si sono potuti innescare i decorsi patologici che, in mancanza di esso, non si sarebbero invece verificati (M. Donini, «La causalità omissiva e l'imputazione per l'aumento del rischio», in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, pp. 32 ss.).

Si potrebbe tuttavia adottare anche una soluzione mediana, qualificando la condotta come commissiva soltanto nelle fattispecie in cui il datore di lavoro abbia esposto i lavoratori ad amianto in stabilimenti espressamente destinati all'estrazione o alla lavorazione di questo minerale (per es. nelle cave di estrazione di asbesto o nella produzione di cemento-amianto) ed invece come omissiva qualora l'asbesto sia già presente nelle strutture del luogo di lavoro (ad es. nelle forme di floccato di amianto nei muri degli edifici o come copertura di tetti), deteriorato allo stato di polvere libera aerodispersa nell'ambiente.

In ogni caso, si deve concludere che ancora oggi la giurisprudenza dominante continua a qualificare la condotta del datore di lavoro come omissiva, ponendo in evidenza la mancata adozione delle misure di sicurezza idonee ad evitare l'innescarsi della patologia professionale(R. Garofoli, Manuale di diritto penale, 2015, pp. 591 e ss.).

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Tesi tradizionale:

responsabilità omissiva

Cass. pen., 24 maggio 2012, n. 33311

Tesi più recente:

responsabilità commissiva

Cass. pen. , 13 dicembre 2010, n. 43786 , imp. Cozzini

Rimane tuttavia maggioritaria la tesi secondo cui si tratta di una responsabilità omissiva

Cass. pen., 16 marzo 2015, n. 11128

c.d. “sent. Fincantieri” «il principio secondo cui la responsabilità per gli eventi dannosi legati all'inalazione di polveri di amianto, pur in assenza di dati certi sull'epoca di maturazione della patologia, va attribuita causalmente alla condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale».

Le problematiche legate alla causalità nelle malattie asbesto-correlate

In tema di accertamento del nesso causale nella tecnopatie asbesto-correlate, occorre innanzi tutto distinguere fra causalità reale e causalità ipotetica.

In ordine alla causalità reale, il giudice deve verificare se la patologia derivi da esposizione all'amianto e se tale esposizione possa dirsi effettivamente inquadrabile nell'ambito dell'organizzazione aziendale in cui il lavoratore presta il proprio servizio.

Solo una volta accertati gli elementi oggettivi dell'illecito relativi alla “causalità reale”, si porrà l'ulteriore problema di stabilire se le cautele esigibili dal datore di lavoro sarebbero state idonee ad eliminare -o quanto meno a ridurre o ritardare- la possibilità di innescare quelle patologie. Si tratta, in definitiva, di stabilire che cosa sarebbe accaduto se il datore di lavoro avesse posto in essere le cautele che, nella realtà, ha omesso di adottare (“causalità ipotetica”).

A ben vedere, tuttavia, nelle controversie aventi ad oggetto le malattie professionali, le problematiche più rilevanti sull'accertamento del nesso di causa non riguardano il decorso causale ipotetico, come invece avviene nella generalità dei processi (ad esempio relativi alla malpractice medica). Al contrario, le questioni che principalmente si affrontano nel settore delle malattie professionali asbesto-correlate hanno ad oggetto proprio l'accertamento del decorso causale reale, poiché concernono l'innesco e lo sviluppo delle diverse patologie.

E' anche a questo proposito che è necessario distinguere la qualificazione commissiva od omissiva della condotta del datore di lavoro nello sviluppo della tecnopatia asbesto-correlata.

Nelle condotte commissive l'accertamento della sussistenza del nesso causale avviene infatti tramite l'accertamento della (sola) “causalità reale”. Tale accertamento si realizza effettuando il c.d. "giudizio controfattuale", che nella causalità commissiva consiste in un processo di eliminazionementale della condotta attiva posta in essere finalizzato ad accertare se, in assenza di questa, l'evento si sarebbe realizzato ugualmente. In definitiva si tratta di verificare se l'azione effettivamente commessa sia antecedente storico o condicio sine qua non del verificarsi dell'evento sulla base di una legge scientifica di copertura -sia essa universale o statistica-, all'esito di un giudizio valutativo di elevata probabilità logica (e ciò a prescindere dal grado di tale valutazione, cioè sia nel caso in cui viga il principio penalistico «dell'oltre ogni ragionevole dubbio», sia quello privatistico della «preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non», cfr. Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576).

Viceversa, nelle condotte omissive, l'accertamento del rapporto di causalità tra omissione ed evento è (ancora) più complesso poiché consiste in una “duplice indagine” (G. Marinucci, E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, IV Ed., pp. 221-222; p. 370).

In primo luogo il Giudice deve infatti accertare la causa reale dell'evento effettivamente verificatosi (c.d. “causalità reale”), con il medesimo giudizio basato su leggi scientifiche utilizzato per l'accertamento della causalità commissiva. A riguardo, occorre ricordare che nel reato colposo omissivo improprio (ex art. 40, comma 2, c.p.), il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (cfr. Cass. pen., Sez. Un.,18 settembre 2014, n.38343, c.d. “sentenza Thyssenkrupp”; Cass. pen., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30328, c.d. “sentenza Franzese”).

Successivamente, è necessario vagliare l'efficacia impeditiva dell'azione omessa (c.d. “causalità ipotetica”). È quindi solo in questa seconda fase di accertamento che occorre porre in essere il giudizio controfattuale. In presenza di condotte omissive, infatti, il giudizio controfattuale deve essere effettuato in punto di accertamento della causalità ipotetica. E dunque, il giudizio controfattuale della causalità omissiva si estrinseca in un processo -non di eliminazione, ma- di aggiunta mentale della condotta doverosa, volto a comprendere se l'adozione dell'azione in concreto omessa avrebbe impedito il verificarsi dell'evento infausto ovvero se esso si sarebbe ugualmente verificato «con significativa probabilità». Tale giudizio avviene sulla base di leggi di tipo sia scientifico sia epidemiologico, il cui «coefficiente di probabilità statistica deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto» (Cass. pen., Sez. Un., 18 settembre 2014, n.38343).

Infine, è opportuno rilevare che il giudizio controfattuale, da svolgersi nell'ambito della causalità ipotetica, nella causalità omissiva, tende, in ultima analisi, a sovrapporsi all'accertamento della c.d. “causalità della colpa” (cfr. Cass. pen., sez. IV, 13 dicembre 2010, n. 43786, imp. Cozzini), e cioè con il giudizio controfattuale tipico dell'accertamento della colpa (relativo al “secondo nesso fra colpa ed evento”), idoneo a verificare se la condotta rispettosa delle regole cautelari avrebbe evitato o significativamente ridotto la possibilità del verificarsi dell'evento nel caso concreto.

Il periodo di latenza e i tempi di induzione

La prima problematica che concerne l'accertamento del nesso eziologico di una tecnopatia derivante da amianto attiene innanzi tutto alla questione del tempo necessario affinché essa insorga nell'organismo.

Le malattie asbesto-correlate, soprattutto quelle di tipo tumorale (quali carcinomi e mesoteliomi pleurici), rientrano infatti fra le patologie c.d. “lungolatenti”.

Questa denominazione si spiega perché esse si caratterizzano per lunghi tempi di latenza fra l'innesco originario della malattia ed il suo manifestarsi.

In relazione a tale aspetto, le prime difficoltà riguardano innanzitutto dubbi di tipo terminologico ed è pertanto opportuno scolpire alcuni concetti di importanza fondamentale.

Quando si parla di latenza “epidemiologica” (o “latenza convenzionale”) si deve intendere il tempo che intercorre fra l'inizio dell'esposizione a un cancerogeno (docume

Gli oncologi si riferiscono invece alla latenza come periodo fra il momento in cui il tumore è stato definitivamente indotto (al termine del "periodo di induzione") e la sua esternazione nell'organismo in maniera diagnosticamente accertabile: è questa la definizione di “latenza clinica” (o latenza “propriamente detta”). Tale termine indica quindi tutto il periodo di tempo in cui il tumore, ormai instauratosi come tale, rimane clinicamente occulto poiché non ancora manifestatosi.

In questo senso, utile risulta delineare il concetto di “periodo d'induzione”. Questa locuzione indica il tempo necessario affinché il cancerogeno inizi effettivamente ed efficacemente ad agire nell'organismo creando delle cellule mutanti (inizio della cancerogenesi). Ciò in quanto «per la progressione da un fenotipo normale ad uno pienamente maligno sono invariabilmente necessari molteplici eventi mutazionali in successione» (cfr. “Harrison Principles of Internal Medicine”), i quali rappresentano la “progressione multistadio” di un tumore. Il periodo di induzione termina nel momento in cui tale clone di cellule mutate sopravvive e prende il sopravvento nell'organismo, determinando l'innesco della patologia in maniera definitiva ed irreversibile (pur se non manifesta).

Alcune sentenze parlano poi, sia pur in modo atecnico, anche di “latenza minima”. Con tale locuzione si è soliti fare generico riferimento al tempo necessario affinché il meccanismo multistadio della cancerogenesi inizi e si completi innescando definitivamente la malattia e, pertanto, essa coincide in via convenzionale con il periodo intercorrente fra la prima esposizione ed il termine del periodo di induzione della patologia.

In evidenza

Per rendere più comprensibile il concetto è utile il seguente schema dove:

  • A= inizio esposizione
  • C1 = inizio del processo patologico
  • C2= definitivo innesco della malattia
  • B= diagnosi
  • AB= latenza epidemiologica (o “convenzionale”)
  • AC2= latenza minima (periodo di induzione)
  • C1-C2 = periodo di induzione
  • C2 B= latenza clinica (latenza “propriamente detta”)

Da un punto di vista giuridico, di grande importanza è accertare se, all'interno del periodo di latenza (sia essa intesa in senso clinico che epidemiologico), tutte o solo alcune delle esposizioni ad asbesto abbiano rilevanza causale ai fini sia dell'innesco, sia del decorso della malattia.

In relazione alla patologia dell'asbestosi, è pacifico che tale fibrosi si aggravi con il succedersi delle esposizioni successive, essendo una malattia dose-correlata.

Riguardo alle malattie tumorali (come il carcinomaed il mesotelioma pleurico), la scienza medica maggioritaria ritiene che durante il periodo di induzione tutte le esposizioni successive allo stesso cancerogeno (ma anche a cancerogeni di diverso tipo) risultano rilevanti ai fini dell'insorgenza della patologia.

A questo proposito è doveroso però distinguere fra le due malattie tumorali, stante la solo intrinseca diversità genetica.

Il carcinoma polmonare è infatti una malattia multifattoriale, in quanto può essere causata da una pluralità di agenti, fra i quali l'abitudine al tabagismo rimane sicuramente la più frequente.

Studi epidemiologici hanno infatti dimostrato che, se per i lavoratori che sono stati esposti all'asbesto, quando non fumatori, il rischio di contrarre la malattia è pari a 55 casi su 100.000, in caso di lavoratori fumatori il rischio è addirittura di oltre 50 volte superiore.

Di conseguenza, di grande complessità per il giurista è già in primo luogo riuscire a distinguere quale sia la causa della malattia, ponendo in essere il giudizio di “esclusione dei decorsi causali alternativi”.

Tale problematica non si pone invece nel caso di mesotelioma, patologia “sostanzialmente monofattoriale”.

Riguardo alla sua eziologia, risulta ormai definitivamente superata la tesi tradizionale che riteneva sufficiente per l'innesco di tale patologia anche una sola esposizione, sulla scorta della storica teoria della c.d. “trigger-dose” (o dose killer).

In proposito, è stato infatti accertato che, anche per la malattia tumorale del mesotelioma, sono necessarie più inalazioni di fibre di asbesto (poste in un rapporto intensità/durata) tra la c.d. “iniziazione” della prima cellula tumorale - consistente nella prima mutazione cellulare per effetto del contatto con l'agente cancerogeno (inizio del periodo di induzione) - ed il momento in cui, a seguito della replicazione delle cellule mutate, si dia origine ad un clone autonomo e quindi all'insorgenza irreversibile della patologia tumorale asbesto-correlata (momento consistente nella fine del periodo di induzione).

Secondo la medicina legale, pertanto, nelle malattie tumorali tutte le esposizioni successive fino all'induzione completa, cioè fino all'inizio della latenza clinica, devono essere considerate efficienti in senso neoplastico, in quanto «l'incremento della dose aumenta il rischio di sviluppare la malattia» (così la consulenza tecnica riportata in Trib. Milano, Sez. V pen., sent., 15 luglio 2015, n. 4988).

La comunità scientifica ritiene inoltre che, «a parità di altre condizioni, le esposizioni più remote rivestirebbero un peso maggiore nello sviluppo della patologia» (Trib. Milano, sez. V pen., causa RG. n. 2212/2013).

Secondo un altro indirizzo, dovrebbero risultare più nocive le esposizioni subite in giovane età (così la consulenza tecnica nella sentenza della App. Milano, sez. lav., 16 settembre 2015, n. 802/2015).

Di conseguenza, da un punto di vista giuridico, risulta molto difficile accertare chi sia il responsabile in caso di successione di posizioni di garanzia, e cioè in tutte le ipotesi in cui il datore di lavoro sia mutato nel corso degli anni.

Sulla scorta delle considerazioni scientifiche sopra esposte, il Giudice deve quindi concludere nel senso che durante l'intero periodo di induzione tutte le condotte dei datori di lavoro susseguitisi in quel periodo di tempo debbano essere considerate rilevanti sul piano causale.

E già qui le prime criticità.

La scienza medica, non dispone infatti di test scientifici capaci di appurare con certezza, all'interno del meccanismo multistadio della cancerogenesi da amianto, quale sia stato l'esatto momento di innesco definitivo delle malattie asbesto-correlate.

Non sono infatti accertabili con sicurezza, né da un punto di vista clinico né autoptico, i seguenti dati di importanza fondamentale:

  1. quando sia avvenuto nel singolo caso l'iniziazione della prima cellula con conseguente inizio del processo patologico (inizio del periodo di induzione);
  2. quando sia avvenuto l'innesco definitivo della malattia (termine del periodo di induzione);
  3. quanto tempo sia durato, nel singolo caso, il periodo di induzione.

In relazione a tali questioni, la medicina può fare esclusivo riferimento (solo) a leggi di tipo - non scientifico, ma - epidemiologico. Ebbene, in base a queste leggi, la latenza media (qui da intendersi in senso epidemiologico, e quindi dalla prima inalazione) avrebbe una durata di circa 46 anni, con una deviazione standard di 12 anni, mentre rimane rarissima l'osservazione di casi di mesoteliomi che insorgano prima del trascorrere di 10 anni dalla prima esposizione (cfr. più recente report del Registro Nazionale dei Mesoteliomi: IV Rapporto ReNaMe, 2012). Studi epidemiologi hanno inoltre rilevato che, in una coorte di una pluralità di soggetti studiati, il periodo di induzione durerebbe circa 5 – 8 anni (così la consulenza tecnica riportata nella citata sentenza della Corte Appello Milano n. 802/2015).

Di conseguenza, almeno allo stato attuale, manca al giurista la c.d. “legge scientifica di copertura” da utilizzare per porre in essere l'operazione di sussunzione del caso concreto al di sotto di questa.

Pertanto, alcune sentenze, soprattutto di merito, hanno ritenuto che «se non è noto quanto dura il periodo di induzione, è impossibile stabilire [...] quali esposizioni debbano considerarsi anteriori e quali successive alla sua fine e, dunque, quali esposizioni siano state effettivamente rilevanti nel determinare la malattia e la morte" (v. la citata sentenza del Trib. Milano, n. 4988/2015), finendo quindi per assolvere anche i datori di lavoro che si siano susseguiti nei primi anni di esposizione.

Allo stato, la giurisprudenza, almeno penalistica, ha dunque ormai definitivamente abbandonato la tradizionale teoria del c.d. "aumento del rischio", che portava invece a risultati diametralmente opposti. Secondo tale impostazione, per l'esistenza del nesso causale era invece «sufficiente che si realizzi una condizione di lavoro idonea a produrre la malattia” sulla scorta della considerazione che “la correlazione del rischio di tumore al polmone e di mesotelioma con la dose di esposizione (durata per intensità) è dimostrata anche dalla letteratura che indica che alla diminuzione della dose di amianto diminuirebbe la probabilità delle patologie correlate» (Pret. Torino, 9 febbraio 1995, Barbotto Beraud, in Foro it., 1996, II, 107 ss., con nota di L. Termini).

L'effetto acceleratore delle esposizioni successive

Ulteriori problematicità si profilano in relazione alla questione dell'eventuale effetto acceleratore (da taluni anche detto “anticipatorio”) delle esposizioni successive all'innesco della malattia.

Con la locuzione di “effetto acceleratore” si intende la capacità di ulteriori esposizioni ad asbesto, subite in un periodo successivo al termine del periodo di induzione, di abbreviare i tempi di latenza clinica, anticipando di conseguenza il manifestarsi della malattia e il correlato evento morte.

Limitatamente all'asbestosi, la scienza medica è allo stato concorde nel ritenere che tale tecnopatia sia dose-dipendente e si aggravi all'aumentare della durata dell'esposizione ad amianto, in quanto essa consiste in una patologia non di tipo neoplastico, ma fibrotico.

In questo senso, in ipotesi di asbestosi, il Giudice sarebbe legittimato a concludere -sia pur ovviamente con la dovuta cautela nel tenere in considerazione le peculiarità della fattispecie concreta- nel senso di ritenere rilevanti sul piano causale tutte le inalazioni subite durante l'intero periodo di esposizione.

Diversa e non univoca è invece tale soluzione in merito alla sussistenza di un effetto di accelerazione/anticipazione in relazione alle patologie asbesto-correlate di tipo tumorale. In proposito la medicina è infatti giunta a conclusioni del tutto contrastanti.

Secondo la dottrina medica dominante, una volta che la neoplasia sia definitivamente indotta (e cioè alla fine del periodo di induzione), non è dimostrato che le esposizioni successive rivestano alcun ruolo (cfr. III Consensus Conference Italiana sul mesotelioma pleurico).

Conseguentemente, si ritiene che le esposizioni successive subite in seguito all'innesco del tumore non possano essere considerate quali concause dell'evento hic et nunc, né nel senso di aver abbreviato il tempo necessario ai fini del manifestarsi della malattia nell'organismo, né nel senso di averne aggravato gli effetti, anticipando la morte del lavoratore.

Pertanto, alla luce di queste considerazioni, risulterebbero responsabili sul piano causale tutti i datori di lavoro che si siano succeduti durante il completamento del periodo di induzione e non quelli che abbiano rivestito tale ruolo durante il periodo di latenza clinica.

Riguardo ai datori di lavoro che abbiano assunto la posizione di garanzia in periodi successivi, mancherebbe in effetti, il c.d. “secondo nesso fra colpa ed evento”, concretizzato cioè nella locuzione di «causalità della colpa » o « evitabilità dell'evento» nella causalità omissiva.

Infatti, anche qualora i datori di lavori successivi avessero adottato il c.d. «comportamento alternativo lecito» sospendendo il contatto dei propri lavoratori con l'amianto, l'evento si sarebbe ugualmente ed inevitabilmente verificato con le medesime modalità.

Viceversa, altra parte (sia pur minoritaria) della scienza medica aderisce alla tesi opposta, secondo cui, sulla scorta di una rielaborazione della “formula di Peto” -originariamente volta ad individuare l'incidenza (data dall'equazione: "incidenza [n. di casi] = dose x latenza”)-, le esposizioni successive all'innesco della malattia avrebbero l'effetto di ridurre il tempo di latenza clinica.

Secondo tale orientamento, frutto dell'elaborazione degli studi sull'effetto acceleratore nel carcinoma polmonare, le patologie tumorali asbesto-correlate risulterebbero condizionate dalle esposizioni successive, come avviene per l'asbestosi.

Se la giurisprudenza abbracciasse detta tesi scientifica, si dovrebbe necessariamente concludere nel senso che le successive omissioni di cautele assumano rilevanza sul piano causale.

Di conseguenza, in questa prospettiva, non potrebbero essere ritenuti esenti da responsabilità i soggetti che ricoprono posizioni di garanzia anche successivamente all'innesco della malattia.

Inoltre da ciò conseguirebbe che, in presenza di una successione nelle posizioni di garanzia, non sarebbe neanche più necessario dover individuare il momento in cui la dose innescante potrebbe essere stata inalata.

Tuttavia, è opportuno evidenziare che la giurisprudenza maggioritaria non segue tale impostazione, sulla scorta della considerazione che «non sia possibile [...] 'scegliere' quali teorie siano da accogliere per fondarvi le basi della decisione, ma vada preso atto dell'inesistenza di teorie universalmente condivise dalla scienza su alcuni aspetti» (Trib. Milano, la citata sentenza n. 4988/2015).

Ulteriori problematicità vengono pio in luce in merito alla patologia del carcinoma di tipo polmonare in relazione alla c.d. teoria della “clearance” del polmone, e cioè della capacità di autopulizia del polmone stesso, che, nel caso in cui la vittima fosse un fumatore abituale, potrebbe rilevare ai sensi dell'art. 1227 c.c., primo e secondo comma.

Gran parte della letteratura scientifica sostiene infatti che il polmone dovrebbe essere in grado di catturare le fibre di asbesto inalate e già penetrate nell'organismo e di smaltirle tramite i macrofagi.

Studi sul parenchima polmonare post mortem avrebbero inoltre portato a ritenere che la pulizia del polmone varierebbe a seconda del tipo di fibre di asbesto inalate: per il crisotilo i tempi di clearance parrebbero infatti molto brevi, in quanto la pulizia del polmone dovrebbe avvenire nell'arco di 70 - 80 giorni dal termine dell'esposizione; per la crocidolìte, invece, la tempistica sarebbe decisamente più cospicua, addirittura ultrannuale, in quanto tutti i tipi di anfiboli sono costituiti da fibre più lunghe, di forma più regolare e dotate di maggiore resistenza meccanica (in questi termini la consulenza tecnica nella citata sentenza App. Milano, n. 802/2015).

Tuttavia, anche in queste ipotesi si profilano, allo stato, almeno delle perplessità circa l'utilizzabilità di tali teorie all'interno del processo, dal momento che esse non possono essere considerate come vere e proprie leggi scientifiche, trattandosi solo di studi epidemiologici fondati su una serie di dati statistici ricavabili dalle autopsie poste in essere su un campione di soggetti affetti da tumori asbesto-correlati.

Viceversa, la clearance della pleura non è stata in alcun modo provata e pertanto tale argomento scientifico non è sicuramente utilizzabile in relazione ai casi di mesotelioma.

La soluzione della Cassazione

Il 13 dicembre 2010 è stata pubblicata la sentenza Cass. pen. n. 43786/2010 (c.d. “Cozzini”), che ha definitivamente precisato in termini rigorosi quale debba essere l'attività che occorre compiere in punto di accertamento del nesso eziologico (v parr. nn. 2.1 e 2.2).

Tale pronuncia è partita dalla considerazione che, in alcune sentenze, la giurisprudenza di merito non prendeva di fatto alcuna posizione sulla questione, limitandosi ad evidenziare l'esistenza di dubbi esplicativi e finendo per aderire talvolta all'una, talvolta all'altra tesi.

Questa tipologia di sentenze, però, era già stata più volte cassata con rinvio dalla Suprema Corte nel momento in cui «la sentenza impugnata solo apparentemente motiva sulla sussistenza della legge scientifica di copertura, in quanto, dopo avere delineato due orientamenti teorici prevalenti, della “dose risposta” (meglio conosciuta come “teoria del multistadio della cancerogenesi”) e quello contrapposto della irrilevanza causale delle dosi successive a quella “killer”, dichiara di aderire al primo orientamento, senza però indicare dialetticamente le argomentazioni dei consulenti che sostengono detta tesi e le argomentazioni di quelli che la contrastano e le ragioni dell'opzione causale. In sostanza il giudice di merito, più che utilizzare la legge scientifica, se ne è fatto artefice» (Cass. pen., 4 novembre 2010, n. 38991).

La Suprema Corte, con la sentenza “Cozzini”, ha quindi voluto fornire al giudice di merito proprio i criteri generali da tenere in considerazione ai fini della valutazione della seria e reale attendibilità delle diverse tesi proposte in campo scientifico, senza tuttavia entrare nel merito delle singole conclusioni accolte da ciascuna di esse.

In questo senso, il giudice deve valutare, in relazione ad ogni teoria scientifica:

  • gli studi che la sorreggono;
  • l'ampiezza e la rigorosità oggettiva della ricerca;
  • il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi;
  • la discussione critica sviluppatasi in merito;
  • la sua attitudine esplicativa;
  • il grado di consenso nella comunità scientifica.

Infine, proprio con lo specifico riferimento alle problematica dell'amianto, la Cassazione (sempre nella “sentenza Cozzini”) ha indicato anche l'iter di valutazione che deve compiere il giudice di merito per poter legittimamente fondare l'affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l'evento morte di ogni singolo lavoratore a seguito di contrazione di una malattia asbesto-correlata (nella specie, si trattava di mesotelioma pleurico).

Sulla scorta di tale pronuncia, una legge scientifica esplicativa del decorso causale eziopatogenico dell'amianto può quindi dirsi attendibile solo qualora il giudice di merito accerti:

  1. se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico;
  2. in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico;
  3. nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali;
  4. infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all'iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all'arco di tempo compreso tra inizio dell'attività dannosa e l'iniziazione della stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all'innesco del processo carcinogenetico.

La colpa

Riguardo all'accertamento dell'elemento soggettivo, la colpa specifica si estrinseca nel mancato rispetto da parte del datore di lavoro delle norme dettate in tema di amianto previste dall'ordinamento.

Tuttavia, giova evidenziare che i valori limite relativi alla concentrazione di fibre di asbesto in ambiente di lavoro sono stati introdotti in Italia solo a partire dal 1986, con il D.M. 16.10.86 (seguito dal d.lgs. n. 277/1991 e dalla l. n. 257/1992).

Per condotte poste in essere in epoca precedente a tale data, si potrebbe quindi richiamare, sebbene in maniera molto generica, il d.P.R. n. 303/1956, il quale si limita a fare esclusivo riferimento alle “polveri” presenti sul luogo di lavoro.

La menzionata normativa affronta tale problematica, per esempio: nell'art. 9, che prevede il ricambio d'aria nel luogo di lavoro; nell'art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell'ambiente mediante aspiratori; nell'art. 18, che proibisce l'accumulo delle sostanze nocive; nell'art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri; nell'art. 20, che difende l'aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l'uso di aspiratori; nell'art. 25, che prescrive, in caso di dubbio sulla pericolosità dell'atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione.

La giurisprudenza, però, è andata oltre, giungendo talvolta ad affermare che il datore di lavoro, rivestendo una posizione di garanzia, deve essere ritenuto responsabile anche per colpa generica ogni qual volta egli abbia comunque omesso di predisporre tutte quelle misure e cautele ulteriori (anche non specificatamente prescritte dalla legge), atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro (cfr. Cass. civ., 8 ottobre 2012, n. 17092).

La teoria in esame, comunemente definita del “residuo di colpa”, si fonda sulla considerazione che le disposizioni dettate in tema di amianto rientrano fra le norme c.d. “elastiche”, come ben si può evincere dalla lettura in combinato disposto della disposizione di chiusura di cui all'art. 2087 c.c. e dell'art. 21,d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303.

Quest'ultima normativa stabilisce infatti che nei lavori che generano la formazione di «polveri di qualunque specie», il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendo che «le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione», cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri.

Comunque, sia che si tratti di colpa generica che di colpa specifica, valgono gli assunti cui è pervenuta la dottrina, seguita dalla giurisprudenza più moderna, in relazione ai due c.d. “nessi fra colpa ed evento”.

Riguardo alla questione della “evitabilità dell'evento”, consistente nel “secondo nesso fra colpa ed evento”, occorre qui richiamare quanto già esposto in proposito nell'ambito di accertamento della causalità omissiva, in cui causalità della condotta e causalità della colpa tendono a “confondersi”. Tale compenetrazione nasce dalla piena sovrapponibilità dei due giudizi controfattuali della “causalità ipotetica” e della “causalità della colpa”, e ciò in quanto vi è sostanziale coincidenza fra il giudizio controfattuale posto in essere nell'ambito dell'accertamento della causalità e quello da effettuarsi in sede di colpevolezza volto ad verificare la sussistenza del secondo nesso fra colpa ed evento e quindi l'evitabilità dell'evento stesso.

Qualora invece, il Giudice, in relazione alla contrazione di una tecnopatia asbesto-correlata, qualifichi la condotta del datore di lavoro come commissiva, egli dovrà porre in essere l'indagine circa l'evitabilità dell'evento in sede di accertamento dell'elemento soggettivo, con tutte le conseguenze che tale scelta comporta (per es. in termini di scelta della formula assolutoria).

In relazione invece al primo nesso fra colpa ed evento e quindi al tema della c.d. “concretizzazione del rischio” (prevedibilità dell'evento in astratto) a fini pratici è sufficiente affermare che la giurisprudenza è ormai pacifica nel sancire che l'insorgere di tutte le malattie asbesto-correlate concretizzi il medesimo rischio che la norma cautelare mirava a prevenire. Secondo il più recente orientamento della Suprema Corte, infatti, «ciò che rileva non è l'esatta formulazione delle disposizioni del d.P.R. 303/56 in termini di specifica malattia, ma la generale finalità della normativa volta a tutelare la salute dei lavoratori» (cfr. Cass. pen., 14 gennaio 2003, n. 988).

In questo senso, non si richiede pertanto che la disposizione di legge faccia esplicito riferimento alla specifica malattia, ma è invece sufficiente che, dalla lettura teleologica della normativa nel suo complesso, si evinca la generica pericolosità dell'amianto.

La Suprema Corte ha pertanto ritenuto che «al fine del giudizio di prevedibilità deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante delle evento dannoso» (Cass. pen., sent. n. 33311/2012, già citata).

In proposito, si ritiene prevalentemente che la generica pericolosità dell'amianto era già conosciuta o conoscibile almeno a partire dall'entrata in vigore del d.P.R. 1124/1965, se non già dal 12 aprile 1943, data di emanazione del d.P.R. n. 455/1943 che ha esteso all'asbestosi l'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali, istituita con regio decreto 17 agosto 1935 n. 1765.

Altra parte della giurisprudenza - ormai invero minoritaria (cfr. da ultimo Cass. civ., 6 novembre 2015, n. 22710) - faceva invece risalire la responsabilità del garante addirittura al periodo iniziale della lavorazione dell'amianto e quindi già dall'inizio del Novecento, in quanto il r.d. 14 giugno 1909, n. 442, all'art. 29 della tabella B, n. 12, includeva la filatura e la tessitura dell'amianto tra i «lavori insalubri o pericolosi» nei quali l'applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo.

Riguardo invece alla questione della prevedibilità dell'evento in concreto, essa viene in rilievo in relazione alla locuzione di homo eiusdem condicionis et professionis, parametro in base al quale valutare ex ante la prevedibilità dell'agente modello.

Tale problematica si pone, per esempio, nelle fattispecie in cui venga accertato che il livello di polverosità nei luoghi di lavorazione, pur risultando inferiore a limite tollerabile imposto dalla legge per la sicurezza della salute dei lavoratori, sarebbe potuto essere ulteriormente diminuito adottando una serie di comportamenti idonei a ridurre il rischio di contrarre la malattia.

Il datore di lavoro potrebbe pertanto essere chiamato a rispondere per colpa generica, in quanto «si è osservato che nell'attuale contesto legislativo italiano non v'è spazio per una interpretazione del concetto dei valori-limite come soglia a partire dalla quale sorga per i destinatari dei precetti l'obbligo prevenzionale nella sua dimensione soggettiva e oggettiva, giacché ciò comporterebbe inevitabili problemi di legittimità costituzionale, che è implicita e connaturata all'idea stessa del valore-limite una rinuncia a coprire una certa quantità di rischi ed una certa fascia marginale di soggetti» (cfr. Cass. pen., n. 38991/2010, già citata).

Ancora di recente, la giurisprudenza ha difatti ribadito che il titolare della posizione di garanzia risponde del decesso dei propri lavoratori dovuto ad amianto «anche quando, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro» (Cass. pen., sez. IV, n. 5117/2008, imp. Biasotti).

In ordine al mesotelioma, la giurisprudenza ha per esempio sancito che «l'inosservanza dei c.d. T.L.V. (ovverosia dei valori limite di esposizione agli agenti dannosi, ivi comprese le polveri) non assurge certo ad elemento necessario per l'integrazione della violazione delle prescrizioni di cui agli artt. 20 e 21 d.P.R. n. 303/1956, e ciò in ragione del fatto che l'obbligo di prevenzione contro gli agenti chimici scatta a carico del datore di lavoro pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino determinati parametri quantitativi ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriore abbattimento [...] con conseguente necessità per il datore di lavoro [...] di aprirsi il più possibile agli spazi delle nuove acquisizioni tecnologiche» (Cass. pen.sez. IV, 20 marzo 2000, n. 3567, imp. Hariolf).

Sulla scorta di tali considerazioni, alcune sentenze più risalenti dichiaravano la responsabilità del datore di lavoro perché avrebbe dovuto imporre l'uso di mascherine con filtri c.d. "assoluti",le uniche quantomeno potenzialmente in grado di evitare la contrazione della malattia. In effetti, a ben guardare, questo tipo di mascherine era già stato prodotto nel passato, anche se esse venivano esclusivamente utilizzate nell'industria nucleare e nel settore farmaceutico.

Tuttavia, la dottrina più attenta ha rilevato che, sulla base delle regole generali volte a selezionare i criteri con cui individuare l'homo eiusdem professionis et condicionis, si deve ritenere che il parametro per individuare la pretesa comportamentale doverosa debba necessariamente essere costruito tenendo in considerazione le caratteristiche di un agente modello che operi nel medesimo settore del soggetto agente (cfr. R. Bartoli, La recente evoluzione giurisprudenziale, sul nesso causale nelle malattie professionali da amianto, relazione svolta al corso La sicurezza del lavoro: infortuni e malattie da lavoro, tenutosi presso la Scuola Superiore della Magistratura, nei giorni 21-23 maggio 2014, in Riv. Diritto Penale Contemporaneo, 3-4/2014 pp. 396 e ss.).

In questo senso, quindi, l'orientamento giurisprudenziale “del residuo di colpa” potrebbe dirsi corretto soltanto se fondato sul parametro dell'homo eiusdem professionis et condicionis costruito sul criterio di prevedibilità ex ante del garante che operi nel medesimo settore del datore di lavoro del caso di specie.

La risarcibilità del danno da malattia asbesto-correlata

In tema di sicurezza sul lavoro, l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. 10, d.P.R. n. 1124/1965 e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria.

Tuttavia, qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura si verifichino in pregiudizio del lavoratore e siano casualmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, viene in rilievo l'art. 2087 c.c., che come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato (cfr. Cass. civ., 23 settembre 2010, n. 20142).

Allo stesso modo, esclusivamente per quanto riguarda le prestazioni del Fondo vittime dell'amianto (di cui all'art. 1, comma 241 e ss. della l. n. 244 del 2007), esse, ai sensi del comma 242, possono essere cumulate con prestazioni diverse concesse in favore dei lavoratori da disposizioni generali o speciali, quali la rendita diretta o in favore dei superstiti dovuta dall'INAIL o il risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro (cfr. Cass. civ., sent. n. 17092/2012, già citata).

Per quanto attiene alla problematica della ripartizione degli oneri probatori, valgono le normali regole dettate sul punto dall'art. 2087 c.c. che, secondo giurisprudenza costante, configura una responsabilità di natura contrattuale.

Come ripetutamente affermato dalla Suprema Corte, la responsabilità del datore di lavoro di cui al citato art. 2087 non delinea un'ipotesi di responsabilità oggettiva per cui «ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo» (ex multiplis Cass. civ. 17 febbraio 2009, n. 3786; Cass. civ., 17 febbraio 2009, n. 3788; Cass. civ., sent. n. 17092/2012, già citata).

Di conseguenza, una volta che il lavoratore sia riuscito a fornire la prova del nesso causale tra l'evento e l'attività svolta dal datore di lavoro, graverà sul titolare della posizione di garanzia l'onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria) attraverso l'adozione di cautele previste in via generale e specifica dalla normativa dettata in tema di amianto (cfr. la citata Cass. civ.,sent. n. 22710/2015).

All'opposto, tale responsabilità datoriale non è configurabile ove il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non sia accertato, oppure qualora, allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, non fosse stato possibile per un imprenditore avveduto poter colpevolmente prospettare l'adozione di adeguate misure precauzionali.

Per esempio, nella citata sent. n. 20142/2010, la Cassazione ha confermato la decisione di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dagli eredi di un lavoratore, già addetto alla lavorazione dell'amianto, deceduto per mesotelioma ed esposto al rischio tra il 1953 ed il 1962, ritenendo congruamente motivato il giudizio secondo il quale il rispetto delle limitate prescrizioni cautelative praticabili all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa, non avrebbe impedito l'insorgere del mesotelioma in quanto malattia dose-dipendente.

Riguardo infine al dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione, giova ricordare che le malattie asbesto-correlate sono tutte malattie lungolatenti in quanto, come visto, sono necessari molti anni affinché la malattia si manifesti all'esterno e sia clinicamente accertabile, pur essendo stata irrimediabilmente innescata nell'organismo già decenni prima.

Anche per tali ragioni, la giurisprudenza è giunta a ritenere che il termine inizi a decorrere effettivamente solo dal momento in cui il soggetto avrebbe potuto compiutamente avvedersi dell'esistenza del danno e quindi soltanto dalla data in cui gli è stata diagnosticata con certezza la tecnopatia.

Secondo la Cassazione, infatti, è solo da questo momento che la vittima può avere la certezza di aver contratto una determinata e specifica tipologia di malattia e della sua origine professionale (cfr. Cass. civ., 8 maggio 2007, n. 10441).

Conseguentemente, è solo a partire da tale data che può iniziare a decorrere il termine di prescrizione decennale, essendo la responsabilità di cui all'art. 2087 di natura contrattuale.

Quinquennale sarà invece la prescrizione per ottenere il risarcimento del danno patito iure proprio dal prossimo congiunto del lavoratore per perdita del rapporto parentale in caso di morte della vittima primaria.

Ovviamente, tali regole devono altresì conciliarsi con quanto dettato dall'art. 2947, comma 3, qualora sia accertata in sede penale, ovvero in sede civile incidenter tantum, la sussistenza di un reato (ad. es. di lesioni o di omicidio colposo) da parte del datore di lavoro.

Per quanto infine attiene al quantum del danno risarcibile, la Corte di Cassazione ha sancito che, qualora intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra la diagnosi di una malattia asbesto-correlata e la morte a questa conseguente, è configurabile un danno qualificabile come “terminale”. La sua sussistenza, di volta in volta accertata dal Giudice nel singolo caso di specie, «dà luogo ad una pretesa risarcitoria, trasmissibile "iure hereditatis" da commisurare soltanto all'inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte» (Cass. sez. III, 8.7.2014, n. 15491).

Casistica

La prevedibilità dell'evento in astratto

Cass. pen., 14 gennaio 2003, n. 988

«La prevedibilità dell'evento [...] non riguarda soltanto specifiche conseguenze dannose che da una certa condotta possono derivare, ma si riferisce a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta che sia pericolosa per la salute».

Responsabilità ex art. 2087 c.c.

Cass. civ., 24 gennaio 2014 n. 1477

(esposizione a polveri di amianto dal 1976 al 1979 – contestata la prevedibilità del danno e la eziologia)

«La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., la quale impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolta dai dipendenti, si rendono necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori».

Cass civ., 5 agosto 2013, n. 18626

La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (così anche Cass. civ., 3 agosto 2012, n. 13956).

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