Danno biologico terminale

Massimiliano Fabiani
28 Maggio 2014

La nozione di danno biologico terminale è una figura di creazione giurisprudenziale. Ci troviamo in presenza di un danno alla persona in cui la vittima percepisce uno stato di grande sofferenza fisica e mentale nell'intervallo di tempo intercorrente tra la lesione della salute e il successivo ed inesorabile spegnersi delle funzioni vitali fino alla inevitabile morte. Si tratta di un danno che non si identifica né con il danno biologico, in quanto abbraccia tutte le conseguenze che derivano dalla presa di coscienza da parte del soggetto della inesorabile fine, né con il danno morale (di diverso avviso invece Cass. civ., sez. lav., 27 maggio 2009, n.12326 e Trib. Ravenna, sez. lav., 21 giugno 2011) in quanto attiene ad una sfera più ampia rispetto alla lesione psichica, oggetto di consulenza medico legale, e non è riconducibile alla sola sofferenza immediata e diretta al pregiudizio subito. Il danno biologico terminale postula l'esistenza di una patologia medicalmente accertabile, la quale, per potersi definire “apprezzabile”, deve progredire in un lasso di tempo ragionevole che, purtroppo, progredisce fino all'evento morte.La salute (da qui la distinzione dal bene vita, secondo l'orientamento maggioritario) non solo non migliora ma peggiora fino al sopraggiungere dell'evento morte. Si tratta di un danno conseguenza poiché, nel caso di specie, non rileva il fatto che si sia verificato l'evento (il fulcro non è “l'evento lesivo in sé” -distinzione con il concetto di danno evento, ormai abbandonato da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, ma con diversa rilettura per quanto concerne “il ristoro del danno da perdita della vita (che) costituisce in realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio di risarcibilità dei soli danni conseguenza” e, deve essere “in realtà propriamente valutata ex ante e non già ex post rispetto all'evento che la determina” - Cass. civ. n. 1361/2014 ), bensì le “conseguenze pregiudizievoli” per il soggetto, che dall'evento generatore dell'illecito derivano. Il “fattore tempo” diviene elemento di primaria importanza al fine di riconoscere la sussistenza e il conseguente risarcimento del danno biologico terminale.
Nozione

La nozione di danno biologico terminale è una figura di creazione giurisprudenziale.

Ci troviamo in presenza di un danno alla persona in cui la vittima percepisce uno stato di grande sofferenza fisica e mentale nell'intervallo di tempo intercorrente tra la lesione della salute e il successivo ed inesorabile spegnersi delle funzioni vitali fino alla inevitabile morte. Si tratta di un danno che non si identifica né con il danno biologico, in quanto abbraccia tutte le conseguenze che derivano dalla presa di coscienza da parte del soggetto della inesorabile fine, né con il danno morale (di diverso avviso invece Cass. civ., sez. lav., 27 maggio 2009, n.12326 e Trib. Ravenna, sez. lav., 21 giugno 2011) in quanto attiene ad una sfera più ampia rispetto alla lesione psichica, oggetto di consulenza medico legale, e non è riconducibile alla sola sofferenza immediata e diretta al pregiudizio subito. Il danno biologico terminale postula l'esistenza di una patologia medicalmente accertabile, la quale, per potersi definire “apprezzabile”, deve progredire in un lasso di tempo ragionevole che, purtroppo, progredisce fino all'evento morte. La salute (da qui la distinzione dal bene vita, secondo l'orientamento maggioritario) non solo non migliora ma peggiora fino al sopraggiungere dell'evento morte. Si tratta di un danno conseguenza poiché, nel caso di specie, non rileva il fatto che si sia verificato l'evento (il fulcro non è “l'evento lesivo in sé” -distinzione con il concetto di danno evento, ormai abbandonato da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, ma con diversa rilettura per quanto concerne “il ristoro del danno da perdita della vita (che) costituisce in realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio di risarcibilità dei soli danni conseguenza” e, deve essere “in realtà propriamente valutata ex ante e non già ex post rispetto all'evento che la determina” - Cass. civ. n. 1361/2014 ), bensì le “conseguenze pregiudizievoli” per il soggetto, che dall'evento generatore dell'illecito derivano. Il “fattore tempo” diviene elemento di primaria importanza al fine di riconoscere la sussistenza e il conseguente risarcimento del danno biologico terminale. Prova ne è il fatto che quando i concetti di “lucidità” e “coscienza” della lesione cedono il posto al concetto di “intensità” della sofferenza, ecco che allora rientriamo nella diversa, seppur consimile sotto certi aspetti, figura del “danno catastrofico”: quel che dunque viene risarcito non è, come detto, né la perdita del diritto alla vita (danno tanatologico), né il danno biologico, la cui sussistenza presuppone che la vittima sia in vita e vitale, ma un danno non patrimoniale identificato con il pregiudizio alla salute patito dalla vittima stessa che deve essere liquidato come una invalidità temporanea “maggiorata” da calcolarsi in base alla durata e lucidità dell'agonia patita dalla vittima (Cass. civ., 17 gennaio 2008 n. 870), atteso che detto danno è, nella sua identità, di massima intensità (Cass. civ., 14 maggio 2012 n. 7499). Si tratta di un danno proprio della vittima primaria che, una volta entrato a far parte del suo patrimonio (art. 458 c.c.), si trasmette iure hereditatis ai superstiti (C. cost., 27 ottobre 1994, n. 372; Cass. civ., 16 marzo 2012 n. 4229).

Elemento oggettivo

Non è in discussione la sussistenza e il ristoro della voce “danno biologico terminale”, quanto il fatto che la brevità del periodo di sopravvivenza ha indotto la giurisprudenza ad escludere il riconoscimento e il conseguente risarcimento laddove risulti non apprezzabile, ai fini risarcitori, il deterioramento della qualità della vita a cagione del pregiudizio alla salute. Si è cioè ritenuto che in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte la sofferenza non sia suscettibile di degenerare in danno biologico. E infatti, contrariamente alla fattispecie inerente il “danno catastrofico”, ove rileva, come detto, l'intensità della sofferenza patita dal danneggiato tra lesione e morte, la problematica di come quantificare il lasso di tempo idoneo a far sorgere, in capo al de cuius prima e ai prossimi congiunti poi, il diritto al risarcimento e, una volta stabilito, come commisurare il quantum risarcitorio, è elemento essenziale ai fini della riconoscibilità o meno del danno biologico terminale maturato autonomamente in capo alla vittima. In primo luogo è bene ricordare che la giurisprudenza non ha fornito alcun parametro né alcun dato oggettivo cui fare riferimento. Sotto il profilo del lasso di tempo ritenuto “idoneo” si segnala che le pronunce emesse sia dalla giurisprudenza di legittimità che dalla giurisprudenza di merito non sono univoche. Anzi, nella maggior parte dei casi, sono discordi e, talvolta, contrapposte. E infatti: emblematiche le due pronunce della Suprema Corte del 28 novembre 2008: la n. 28407 lo riconosce con 28 ore (Cass. civ., 28 novembre 2008, n. 28407); mentre la n. 28423 lo nega con 40 ore (Cass. civ., 28 novembre 2008, n. 28423); e ancora sì “qualche giorno” per Cass. civ. 23 febbraio 2004, n. 3549; no “mezz'ora” per Cass. civ., n. 3585/2004 o “45 minuti” per Trib. Piacenza 29 giugno 2010, n. 458. Non da meno la giurisprudenza di merito lombarda: 14 ore di sopravvivenza, pur in assenza di lucidità, sono sufficienti per riconoscere e liquidare il danno biologico terminale in € 5.000,00 per Trib. Milano, sez. X, sent. 16 febbraio 2009; no 6 giorni per risarcire il danno biologico terminale ai genitori conseguente al decesso di un bimbo di un anno a distanza di sei giorni dal sinistro per il “breve” lasso di tempo intercorso, atteso che il bimbo era già in coma al momento dei primi soccorsi ed essendo rimasto incosciente fino al decesso. (Trib. Busto Arsizio, 24 marzo 2009, n. 389).

Ciò che pertanto rileva, sotto un profilo oggettivo, non è tanto la mera decorrenza di un lasso di tempo prestabilito (che come abbiamo visto non solo non è stato mai indicato ma, ci chiediamo, se sia corretto, sotto il profilo della scienza medica, farlo) tra l'evento lesivo e l'evento morte, durante il quale il soggetto che “permane in vita” ha cosciente percezione delle gravissime lesioni riportate e del fatto che, in conseguenza delle stesse, sente le proprie funzioni vitali affievolirsi fino alla inevitabile fine. Ciò che assume pregnanza sotto il profilo temporale è la congruità di quel lasso di tempo, anche minimo, in cui la vittima ha preso coscienza della imminente fine. La questione è alquanto delicata perché si interseca con la problematica del riconoscimento e ristoro del danno tanatologico e il tema, mai tramontato, del risarcimento del danno biologico da perdita della vita (si veda Cass. civ. sez. III, 15 luglio 2006 n. 15760 -che aveva -seppur con un “obiter dictum”- ammesso l'integrale risarcibilità del “danno da morte come perdita della integrità e delle speranze della vita biologica, in relazione alla lesione del diritto inviolabile alla vita, tutelato dall'art. 2 della Costituzione ed ora anche dall'art. II-62 della Costituzione europea, nel senso di diritto ad esistere”, nonché Cass. civ. sez. III, 19 novembre 2013-23 gennaio 2014 n. 1361 sulla “risarcibilità anche del danno da perdita della vita quale bene supremo di ogni singolo individuo”, con commenti critici di F. Martini e M.Rodolfi, in Guida al Diritto, n. 7 del 8 febbraio 2014, pag. 14 ss.)

Elemento soggettivo

Sulla natura del danno biologico terminale trasmissibile iure hereditatis occorre segnalare che in dottrina e in giurisprudenza si sono succeduti tre orientamenti:

1) “teoria negativa” (E. Navarretta, Danni da morte e danno alla salute, in “La valutazione del danno alla salute”, a cura di F. D. Busnelli e di M. Bargagna, IV ed., Padova, 1995, 247), che ha negato la possibilità di un risarcimento iure successionis, dal momento che il danno in esame viene definito biologico perché incidendo sulla vita, intesa come salute, amenità e gioia di vivere, riguarda la prosecuzione futura della vita stessa. Necessitando il danno biologico di una proiezione futura e di una durata della vita, questo non è configurabile nel caso del decesso del soggetto leso. Si tratta di una giurisprudenza di merito che non ha mai ricevuto alcun consenso da parte della giurisprudenza di legittimità;

2) “teoria affermativa” (M. Giannini, Il danno alla persona come danno biologico, Milano, 1986, 125) secondo cui la lesione di un diritto personale e non trasmissibile va distinta dal diritto di credito per la lesione subita, avente natura patrimoniale e, pertanto, trasmissibile per successione;

3) “teoria compromissoria” (G.B. Petti, Il risarcimento dei danni: biologico, genetico ed esistenziale, Tomo II, Torino, 2002, p. 771) che rappresenta l'orientamento accolto dalla più recente giurisprudenza di legittimità. Secondo questa teoria l'attenzione va posta su quell'intervallo di tempo ricompreso tra l'evento lesivo e la morte: in questo lasso di tempo opera una lesione della salute e quindi viene in essere il danno biologico. In sostanza la vittima subisce, in questo lasso di tempo, una effettiva compromissione del diritto alla salute ed il relativo diritto al risarcimento si trasferisce agli eredi. Pertanto il danno biologico, in caso di morte, è solo quello maturato dalla vittima tra il momento del fatto ed il decesso: una morte istantanea o quasi immediata, infatti non permetterebbe al soggetto leso di percepire la gravità della lesione ed il conseguente patimento derivante dalla menomazione psicofisica. (G. Cassano, I danni da morte nella giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite, 2009, Rimini).

La dottrina ha più volte messo in luce che il riferimento ai “danni terminali” (biologico, morale, da “lucida agonia”) non sarebbe altro che il “frutto” di “acrobazie o logiche e concettuali”, e di “intenzioni sostanzialmente compensative della totale assenza di risarcimento per la perdita della vita” (concetto ripreso anche da Cass. civ., sez. III, 19 novembre 2013-23 gennaio 2014 n. 1361). Nel caso della figura del danno biologico terminale, che non si identifica con la perdita totale della salute o della vita (secondo l'orientamento maggioritario, da considerarsi beni distinti), si deve fare riferimento unicamente alla percezione da parte del soggetto della effettiva sussistenza di uno stato psico-fisico così compromesso, tale da condurlo a morte certa. In questa prospettiva l'apprezzabilità dello spazio intertemporale, richiesto dalla giurisprudenza, consiste nel requisito di una netta separazione temporale fra i due eventi che valga a distinguere la loro verificazione nel tempo. Verificatosi questo requisito, il danno biologico terminale è sempre esistente per effetto della percezione, anche non cosciente, della gravissima lesione dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita.

Ai fini della liquidazione, tuttavia, bisogna tener conto che seppur detta posta di danno rientri nella tipologia del danno da inabilità temporanea, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero (Cass. civ., 28 agosto 2007, n. 18163). La Suprema Corte ha ritenuto infatti che nel caso di danno per morte la vittima consegue il diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale cosiddetti “terminali”, in tutti i casi in cui fra il fatto illecito e il decesso sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo. Tale può astrattamente considerarsi anche la sopravvivenza per ventiquattrore, atteso che la recente giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n. 1072/2011 e Cass. civ., n. 13672/2010) ha in realtà del tutto superato la distinzione tra morte immediata e non immediata ai fini del risarcimento del danno tanatologico; dando invece risalto esclusivamente alla (prova della) percezione della sofferenza. Ciò ha permesso di bypassare la problematica attinente la rilevanza del tempo da doversi ritenere idoneo a far sorgere e maturare il diritto di credito in capo alla vittima e poi trasmissibile iure hereditatis. Sia il danno biologico terminale, sia il danno morale terminale (o catastrofico) comprendono anche le sofferenze fisiche e morali sopportate dalla vittima in stato di incoscienza" (Cass. civ., 19 ottobre 2007, n. 21976). Conferme in tal senso le si ricavano proprio dalla Cass. civ., n. 1361/2014 (p. 24 cit.), ove, con riferimento al danno tanatologico o da perdita della vita, viene chiarito che “la morte determina la perdita di tutto ciò di cui consta(va) la vita della (di quella determinata) vittima, che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l'illecito dell'autore non he avesse determinato la soppressione”.

Si tratta, come detto, di un danno personalissimo della vittima che è trasmissibile agli eredi, che possono agire in giudizio nei confronti del danneggiante/responsabile “iure hereditatis”. Il diritto al risarcimento del danno entra nel patrimonio della vittima e viene trasferito ai prossimi congiunti.

Nesso di causalità

In primis, al fine di individuare il responsabile dell'evento lesivo (che va a colpire la situazione soggettiva della vittima primaria e poi quelle delle vittime da rimbalzo) occorrerà accertare il nesso di causalità materiale tra l'azione e/o omissione posta in essere dal danneggiante e il decesso del danneggiato, ai sensi degli artt. 41 e 42 c.p., secondo i criteri della cosiddetta causalità naturale (inerente il fatto generatore della responsabilità), fondata sul principio della “conditio sine qua non” o di equivalenza, con il correttivo della cosiddetta “efficenza causale”. In secondo luogo, accertata con esito positivo l'ascrivibilità della responsabilità dell'evento al danneggiante (situazione tipica della responsabilità “ex aquilia” a differenza della responsabilità da inadempimento che opera sul presupposto del soggetto inadempiente - di cui infra sub. “onere della prova”) occorrerà accertare il nesso causale tra evento morte e le conseguenze subite dalle vittime secondarie secondo i criteri della cosiddetta “causalità giuridica” di cui all'art. 1223 c.c., richiamato dall'art. 2056 comma 1 c.c., che limita il risarcimento ai soli danni immediati e diretti (non richiamando, come noto, l'art. 2056 c.c. l'art. 1225 c.c., rubricato “prevedibilità del danno”), ma che per giurisprudenza costante (Cass. civ. S.U., 1 luglio 2002 n. 9556), viene esteso anche ai danni indiretti, purché in nesso causale con l'evento principale.

Onere della prova

Per un corretto inquadramento dell'onere della prova gravante sulle parti processuali, giova in primo luogo evidenziare che incombe ai prossimi congiunti della vittima primaria, che agiscono iure hereditatis, la prova che il de cuius fosse in uno stato vitale nel lasso di tempo intercorrente tra la lesione e la morte. Non occorre la prova dello stato di coscienza, potendo riconoscersi il danno biologico terminale anche in soggetto in stato di incoscienza (Trib. Messina, 15 luglio 2002) o di coma, atteso che con la sentenza n. 7499/2012 la Suprema Corte ha ritenuto superato anche il limite della percezione dello stato di malattia durante lo stato di sopravvivenza della vittima, riconoscendo il risarcimento del danno non patrimoniale in considerazione del solo pregiudizio sofferto in quel lasso di tempo da parte della vittima e del pregiudizio morale soggettivo derivato ai suoi prossimi congiunti (la vittima era sopravvissuta in coma per 12 ore dopo un incidente stradale e poi deceduta) (Cass. civ. 14 maggio 2012, n. 7499). Nell'ipotesi in cui gli eredi agiscano nelle fattispecie delineate dalla responsabilità “ex delictu” l'onere della prova spetta al danneggiato, ai sensi della clausola generale di cui all'art. 2043 c.c. Dovranno dunque gli eredi dimostrare il fatto generatore della responsabilità (doloso o colposo) che ha cagionato al de cuius e conseguentemente a loro (ovviamente sotto forma di ristoro patrimoniale delle sofferenze subite dalla vittima) il danno ingiusto (sotto il profilo della rilevanza e gravità della offesa, si veda Cass. civ. n. 26972/2008 cit.) ed il nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso, secondo i dettami di cui all'art. 2697 comma1 c.c. Qualora gli eredi invece agiscano nel caso di responsabilità “ex contractu”, come nell'ipotesi in cui il decesso del danneggiato sia conseguenza di “malpractice” medica, in questo caso opera l'inversione dell'onere della prova in favore dell'attore (gli eredi), secondo il disposto di cui all'art. 1218 c.c., relativa alla ripartizione della prova sul nesso causale: spetterà all'attore, che agisce per ottenere il risarcimento del danno, fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre la struttura convenuta (e/o il medico convenuto -c.d. responsabilità da “contatto sociale” cfr. Cass. civ. S.U., 11 gennaio 2008, n. 577) sarà gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento e che la prestazione eseguita implicava problemi tecnici di speciale difficoltà (Cass. civ. S.U. 30 ottobre 2001, n. 13533).

Aspetti medico legali

Secondo Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22896, il danno biologico terminale si identifica nel danno biologico patito da colui che, sopravvissuto per un considerevole lasso di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale, abbia, in tale periodo, sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente considerabile come danno biologico, quindi accertabile (ed accertata) con valutazione medico-legale (di solito la prova dell'esistenza della lesione del bene salute è acquisita al processo mediante CTU medico legale -si veda anche art. 138, comma 2 lett. A d.lgs. n. 209/2005) e liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio. La morte viene ad essere considerata come il termine finale, cui il Giudice dovrà poi fare riferimento per determinare la durata del danno biologico in capo alla vittima dal momento delle lesioni patite. E' chiaro che, a differenza del calcolo tabellare classico del danno biologico riferito alla stabilizzazione delle lesioni (con guarigione definitiva -I.T.T. e I.T.P.- o meno -I.P.), in questo caso il bene salute (inteso come danno biologico) è irreversibilmente compromesso e danneggiato e "degrada" verso la morte, raggiungendo così, sotto un profilo quantitativo il cento per cento. Devono pertanto essere utilizzati gli stessi criteri del danno biologico da "inabilità assoluta temporanea": in questo caso la temporaneità non è determinata però dalla guarigione, ma dalla successiva morte, da cui il “nomen iuris”: "danno biologico terminale". La perdita del livello della qualità esistenziale nella parte residua della vita viene così ad essere risarcita, nonostante il fatto che tale danno cessi con la morte. Come evidenziato dalla Suprema Corte e dalla Dottrina (si vedano Cass. civ., 12 luglio 2006, n. 15760 - G.M.D. Arnone, Danno tanatologico: l'imperituro barrage della Cassazione, commento a Cass. civ., 8 gennaio 2010, n. 79, in “Danno e Responsabilità”, 8-9/2010, Milano, p. 813) “la certezza della morte, secondo le leggi nazionali ed europee è a prova scientifica, ed attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule. La morte cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni: la decapitazoone e lo spappolamento del cervello”. Ecco che allora il ruolo del CTU sarà determinante al fine di poter fornire valido ausilio al giudicante al fine di poter appurare se la vittima sia deceduta senza uscire dalla fase acuta della patologia con la conseguenza che, in tal caso, dovrà essere risarcito solo il danno alla salute da invalidità temporanea calcolato rispetto al tempo della sopravvivenza. Se al contrario la vittima è uscita dalla fase acuta della patologia e muore quando i postumi permanenti si sono stabilizzati, avrà maturato e potrà trasmettere in via successoria sia il danno da invalidità temporanea sia quello da invalidità permanente (E. Navarretta, Danni da morte e danno alla salute, in “La valutazione del danno alla salute”, a cura di F.D. Busnelli e di M. Bargagna, IV ed., Padova, 2001).

Sarà però compito del giudice valutare, ai sensi dell'art. 116 c.p.c., le prove testimoniali (ad esempio personale 118 e infermieristico nell'ipotesi di ricovero nosocomiale) e, soprattutto, la rilevanza dei referti in atti, al fine di personalizzare il danno biologico terminale subito dalla vittima, tenendo conto sia delle sofferenze patite sia delle circostanze del caso concreto (M. Rodolfi, Il danno da morte, in “Tabelle Milanesi 2013 e danno non patrimoniale”, Milano, 2013, p. 36). Il Giudice procederà pertanto nel seguente modo:

  1. accertare il “se” del risarcimento sulla base dei suddetti criteri;
  2. fare uso delle tabelle milanesi con riferimento al cento per cento per i calcoli dei punti di invalidità (base calcolo di partenza “oggettiva”);
  3. personalizzare la liquidazione del risarcimento, valutando tutte le allegazioni e le prove emerse nel corso del processo, tra le quali, il tempo di durata dell'invalidità (che come detto ha come termine iniziale l'evento lesione e finale la morte) e soprattutto l'irreversibile compromissione della salute, che intensifica fortemente il danno, visto che non c'è possibilità che la stessa migliori o si stabilizzi.
Criteri di liquidazione

La liquidazione del danno biologico terminale non può prescindere dal fatto che la vittima, che percepisce lucidamente l'approssimarsi della fine, attiva un processo di sofferenza psichica particolarmente intensa, idonea a qualificare il danno biologico ed a determinarne l'entità sulla base non già (e non solo) della durata dell'intervallo tra la lesione e la morte, ma dell'intensità della sofferenza provata. Abbiamo già visto nel paragrafo “Elemento oggettivo”, come il fattore tempo determini per il Giudice rilevante problematica in merito al riconoscere o meno la risarcibilità del danno biologico terminale. Ma il problema non è limitato al solo confine dell' “an” risarcitorio quanto alla congruità della liquidazione, che il Giudice dovrà accordare. Non si tratta di avere un risarcimento uniforme (il fattore “personalizzazione” incide giustamente sul quantum) quanto piuttosto di evitare che casi simili siano liquidati in modo sensibilmente diverso e sperequato per i familiari del de cuius. E' il caso di due recenti sentenze emesse dalla Suprema Corte, in sezione Lavoro, nel primo semestre del 2011. Con la pronuncia n 9238/2011 (con commento in M. Fabiani e E. Bonanni, Il danno da amianto, Giuffrè, 2013, p. 316) inerente la fattispecie di un lavoratore deceduto dopo tre anni a seguito di un mesotelioma pleurico derivante da patologia asbesto correlata (Cass. civ. sez. lav., 21 aprile 2011, n. 9238), la Suprema Corte ritiene risarcibile la sola invalidità temporanea (e non la invalidità permanente) con rilevante e aumentata personalizzazione del danno biologico: nel caso di specie liquidato in € 76.000,00, proprio in considerazione della “maggiore sofferenza” patita dalla vittima conscia della inevitabile fine. La Corte ha mosso il proprio percorso motivazionale, partendo dal presupposto che il decesso della vittima è da porsi in antitesi con il riconoscimento in capo al “de cuius” di una invalidità permanente, che, al contrario, prevede la guarigione (con postumi) del danneggiato. Con la pronuncia n. 1072/2011 inerente un caso di infortunio sul lavoro in un pastificio (Cass. civ. sez. lav., 18 gennaio 2011, n. 1072) la Suprema Corte ha liquidato il danno alla salute subito dal lavoratore, deceduto a distanza di cinque giorni, dall'infortunio nella misura del 100%, liquidando il danno biologico come se il lavoratore fosse sopravvissuto alle lesioni per il tempo corrispondente alla sua ordinaria speranza di vita, ponendo l'accento sulla intensità della indicibile sofferenza patita dalla vittima in cosciente e lucida attesa della inevitabile morte. Avendo la Corte fatto riferimento, in questo caso, al criterio della “invalidità permanente”, la posta risarcitoria in favore degli eredi ha raggiunto la ragguardevole somma di quasi 700.000,00 euro. Ecco perché l'elemento “base” da cui partire per procedere alla liquidazione del danno biologico terminale subito dalla vittima deve essere uniforme. Lo deve essere proprio al fine di evitare ingiustificati e inadeguati risarcimenti ai prossimi congiunti in presenza di un danno, in cui l'aggettivo “terminale” non è e non deve essere “il “frutto” di acrobazie o logiche e concettuali”, ma semplicemente il filo conduttore nel processo di liquidazione di detta posta di danno per il giudicante: l'evento morte e la presa di coscienza della stessa da parte della vittima devono essere il punto di partenza. Personalmente e in attesa di una rilettura da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità (in primis) del danno da perdita della vita (e quindi di tutte le figure “satelliti” quali il “danno catastrofico”, “il danno biologico terminale” e, con diversa funzione “il danno da lesione da rapporto parentale) dopo la pronuncia del gennaio 2014 (sent. 1361/2014 cit.), ritengo che il criterio della “invalidità permanente”, ad oggi, sia più consono come “base di calcolo” per la liquidazione del “danno tanatologico”.

Per questi motivi il risarcimento del danno biologico terminale va personalizzato escludendo ogni meccanismo semplificato di liquidazione automatica. Si dovrà tenere conto, invece, delle condizioni personali e soggettive della vittima e delle particolarità del caso concreto: il giudice del merito deve fornire una specifica indicazione dell'iter logico seguito per giungere alla liquidazione equitativa del danno patito dalla vittima, dando conto del criterio di valutazione adottato per quantificare il risarcimento dei patimenti sopportati (Cass. civ., n. 9238/2011 cit.). Dovrà altresì il giudice, “nell'esercizio del suo potere equitativo, adattare e dunque moderatamente incrementare, la valutazione del valore medio giornaliero della invalidità temporanea, tenendo conto che la vittima si trova in una particolare condizione che prelude al decesso. Tale adattamento equitativo non presenta, peraltro, alcuna analogia né sul piano concettuale né sul terreno quantitativo con le stime connesse con il danno biologico da morte iure hereditario” (E. Navarretta, Danni da morte e danno alla salute, in “La valutazione del danno alla salute”, a cura di F.D. Busnelli e di M. Bargagna, IV ed., Padova, 2001, 300; R. Bordon e M. Palisi, Il danno da morte, in “Il diritto privato oggi”, a cura di P. Cendon, Milano, 2002, 231). Senza dimenticare che la Suprema Corte (Cass. civ., 12 giugno 2011, n. 12408 e Cass. civ., 30 giugno 2011, n. 14402) ha avuto modo di chiarire che “si applicano i criteri orientativi delle Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla perdita/grave lesione del rapporto parentale, alle quali occorrerà fare riferimento, anche per quanto attiene alla personalizzazione del risarcimento” (vedi “Tabelle Tribunale Milano 2013 e criteri orientativi Osservatorio giustizia civile”).

Aspetti processuali

Il giudizio deve essere instaurato in base ai normali criteri di competenza per valore e territorio, ai sensi degli artt. 7-40 c.p.c. Nel caso di danno biologico terminale derivante da incidente stradale, quanto alla competenza per valore, riteniamo che, in considerazione della gravità dell'offesa e della rilevante entità del quantum risarcitorio, la competenza del Tribunale (sostanzialmente da ricavarsi a contrariis -si veda art. 9 comma 1 c.p.c.) è da considerarsi esclusiva, atteso il modesto limite di € 20.000,00, di cui all'art. 7 comma1 c.p.c. per il Giudice di Pace, verosimilmente non percorribile, atteso anche il cumulo delle poste di danno iure proprio e iure hereditatis, oggetto della domanda attorea. Quanto invece alla competenza per territorio, soccorrono le norme di cui agli art. 19 c.p.c. -in tema di foro generale- e art. 20 c.p.c. -in tema di foro facoltativo delle obbligazioni.

L'attore dovrà già in atto di citazione o nel ricorso introduttivo (in modo ancor più astringente, in considerazione delle preclusioni e decadenze proprie del rito lavoro): in primo luogo enucleare la causa petendi; allegare e provare sia la qualità di erede e/o la prova del rapporto parentale con il de cuius (se contestata la legittimazione attiva) sia il rapporto intercorso con la vittima primaria nel suo essenziale aspetto affettivo e di assistenza morale; ben specificare le circostanze di fatto dell'infortunio, in modo da chiarire con evidenza il nesso di causalità tra l'evento lesivo e il conseguente evento morte nonché, da ultimo, le conseguenze pregiudizievoli subite dalla vittima primaria prima e dai congiunti poi; infine, allegare, proprio alla luce dei dettami propri delle Sezioni Unite del 2008, tutti i fatti da cui possa emergere (poi) la prova del danno patrimoniale e non patrimoniale. Ricordiamo che la prova della lesione salute è consentita con tutti i mezzi previsti dall'ordinamento per la prova dei fatti costitutivi e delle eccezioni (D. Spera, L'onere della prova della lesione della salute, in “Tabelle Milanesi 2013 e danno non patrimoniale”, Giuffrè, 2013, p. 44).

Per converso, il convenuto dovrà, già in comparsa di risposta: svolgere le difese più opportune, ivi compresa la possibilità di un apporto causale della vittima stessa nel decesso (ipotesi classica il mancato uso dei presidi di sicurezza in violazione dell'art. 172 d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 ai sensi dell'art. 1227 c.c., e principalmente contestare il nesso di causalità tra il sinistro e l'evento morte.

Profili penalistici

Il titolo XII “Dei delitti contro la persona” del codice penale (la fattispecie che qui interessa, essendo rilevante l'evento morte, è l'art. 589 “omicidio colposo”) disciplina, al Capo I, i delitti contro la vita e l'incolumità individuale. E' evidente che se l'evento dannoso civile si verifica allorché l'illecito integri anche gli estremi soggettivi ed oggettivi di cui all'omicidio colposo, il responsabile è tenuto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, ex art. 185 c.p.

Se già è intervenuta sentenza penale passata in giudicato, la vittima, ai fini del risarcimento in sede civile, potrà avvalersi della disciplina di cui all'art. 651 c.p.p.; altrimenti spetterà al giudice civile accertare incidenter tantum l'ipotesi criminosa, ai soli fini del risarcimento del danno civile (Cass. civ., S.U., sent., 18.11.2008, n. 27337). Da ultimo i rapporti tra azione civile e azione penale sono disciplinati dall'art. 75 c.p.p.

Casistica

Responsabilità civile automobilistica

  • La lesione biologica in capo al danneggiato, trasmissibile iure hereditatis ai congiunti, è individuabile nel fatto che la paziente era perfettamente cosciente delle proprie sofferenze, circostanza, tra l'altro, comprovata dalle copie della cartella clinica e degli altri documenti sanitari prodotti. Ciò che viene in rilievo in questo caso è la situazione di prostrazione psichica in cui la donna si era ritrovata, consapevole di andare incontro ineluttabilmente alla morte: sarà allora il giudice del rinvio a valutare l'ammontare del suddetto danno non patrimoniale riconoscibile iure hereditatis ai parenti della defunta. (fattispecie inerente un sinistro stradale in cui la vittima era rimasta in stato di agonia per 6 giorni. La Corte di appello aveva rigettato la richiesta dei parenti di ristoro del danno da agonia sul presupposto che il lasso di tempo intercorso tra lesione e morte fosse troppo breve. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, incentrando la decisione sulla percezione della sofferenza patita dalla vittima. Va rilevato che tra l'incidente e il decesso era trascorso un apprezzabile lasso di tempo di sei giorni. Per gli Ermellini 6 giorni sono senz'altro sufficienti, e il giudice di merito ha fatto una valutazione erronea nel considerare tale periodo un termine breve, non idoneo a radicare la pretesa risarcitoria). (Cass. civ., 16 marzo 2012, n. 4229).
  • Nessun danno alla salute è più grave, per entità ed intensità, di quello che, trovando causa nelle lesioni che esitano nella morte, temporalmente la precede, dal momento che il danno alla salute raggiunge quantitativamente la misura del 100%, con l'ulteriore fattore "aggravante", rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta, che il danno biologico terminale è più intenso perché l'aggressione subita dalla salute dell'individuo incide anche sulla possibilità di essa di recuperare (in tutto o in parte) le funzionalità perdute o quanto meno di stabilizzarsi sulla perdita funzionale già subita, atteso che anche questa capacità recuperatoria o, quanto meno stabilizzatrice, della salute risulta irreversibilmente compromessa: la salute danneggiata non solo non recupera (cioè non "migliora") nè si stabilizza, ma degrada verso la morte; quest'ultimo evento rimane fuori dal danno alla salute, ma non la "progressione" verso di esso, poichè durante detto periodo il soggetto leso era ancora in vita (Trib. Brindisi, 26 aprile 2013).
  • Il danno da agonia è il danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona che, a causa delle lesioni sofferte nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, assiste alla perdita della propria vita. Tale danno è distinto dal danno biologico e terminale o tanatologico che è il danno connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute. (fattispecie inerente un sinistro stradale in cui la vittima è sopravvissuta per 14 giorni) (Cass. civ. sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22896). Qualora intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni e la morte causata dalle stesse, è ravvisabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione dell'integrità psicofisica patita dal danneggiato per quel dato periodo di tempo. Siffatto diritto è trasmissibile agli eredi iure hereditatis. (Trib. Monza sez. I, sentenza 16 gennaio 2013).
  • la giurisprudenza di questa Corte distingue il caso in cui la morte segua immediatamente o quasi alle lesioni da quello in cui tra le lesioni e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo; nel primo caso esclude la configurabilità del danno biologico in quanto la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, incidendo sul diverso bene giuridico della vita; la ammette, viceversa, nel secondo caso, essendovi un'effettiva compromissione dell'integrità psico - fisica del soggetto che si protrae per la durata della vita, e ne riconosce la trasmissibilità agli eredi. (Cass. civ. sez. III, 17 gennaio 2008 n. 870).
  • la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l'apprezzabilità ai fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la vittima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conseguentemente fatto valere "iure hereditatis" (Cass. civ. sez. III, n. 13672/2010).
  • Il danno biologico terminale, ovvero il danno subito dal "de cuius" nell'intervallo di tempo tra la lesione del bene salute e il sopraggiungere della morte conseguente a tale lesione rientra nel danno da inabilità temporanea, la cui quantificazione equitativa va operata tenendo conto delle caratteristiche peculiari di questo pregiudizio, consistenti nel fatto che si tratta di un danno alla salute che, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità; in quanto danno da inabilità permanente il danno biologico terminale si verifica sempre quando uno spazio temporale intercorra fra lesione e morte a causa di essa. In questa prospettiva l'apprezzabilità dello spazio intertemporale consiste nel requisito di una netta separazione temporale fra i due eventi che valga a distinguere la loro verificazione nel tempo. Verificatosi questo requisito il danno biologico terminale è sempre esistente per effetto della percezione anche non cosciente della gravissima lesione dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita (Trib. Milano, sez X, 14 giugno 2012).
  • In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando all'estrema gravità delle lesioni, segua, dopo un intervallo temporale brevissimo, la morte, non può essere risarcito il danno biologico "terminale" connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull'intensa sofferenza d'animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro (Cass. civ. Sez. III, 8 giugno 2012, n. 9293).

Danno da amianto

Deve essere riconosciuta la sussistenza e il conseguente diritto al risarcimento del danno da agonia jure hereditatis in capo ai familiari di un lavoratore deceduto in conseguenza di un mesotelioma pleurico, contratto quando era impiegato presso una fabbrica navale in cui era presente amianto: la vittima ha percepito lucidamente l'approssimarsi della fine, avendo attivato un processo di sofferenza psichica particolarmente intensa che qualifica il danno biologico e ne determina l'entità sulla base non già (e non solo) della durata dell'intervallo tra la lesione (o, come nel caso di specie, la manifestazione conclamata della malattia) e la morte, ma dell'intensità della sofferenza provata (Cass. civ. sez. lav., 17 novembre 2011/16 febbraio 2012 n. 2251).

Responsabilità medica

In caso di negligenza nella mancata diagnosi di una grave patologia del paziente che ne determina la morte dopo una lunga e dolorosa agonia, il medico e la struttura ospedaliera sono responsabili nei confronti dei familiari del defunto non solo per i danni morali, ma anche per il "danno da agonia", che consiste in quel danno non patrimoniale, autonomamente apprezzabile, causato dal protrarsi di una lunga e dolorosa agonia, consapevolmente inutile, il cui impatto sulla qualità della vita del paziente non è seriamente dubitabile. (Trib. Venezia, 6 dicembre 2004).

Infortunio sul lavoro

Il danno d'agonia deve essere ricondotto, nello specifico, al danno morale e non al biologico, perché per aversi danno biologico deve esserci vita, se questa viene meno, immediatamente dopo l'evento lesivo o a breve distanza, non c'è maturazione del danno stesso in capo al soggetto leso, il cui dolore però, per aver percepito lucidamente l'avvicinarsi della morte deve essere risarcito iure hereditatis. (Cass. civ. sez. lav., 27 maggio 2009, n. 12326).

In altre ipotesi

In caso di morte della vittima che segua le lesioni fisiche dopo breve tempo, il danno c.d. tanatologico, consistente nella sofferenza patita dalla vittima che sia rimasta lucida durante l'agonia, in consapevole attesa della fine, dev'essere ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia accezione, ed il diritto al relativo risarcimento è trasmissibile agli eredi (nel caso di specie, il de cuius era deceduto dopo breve tempo in conseguenza di asfissia di annegamento, in occasione della triste e nota tragedia del camping "Le Giare", di Soverato, Calabria. Il giudice estensore osserva che la morte per asfissia non sopravviene immediatamente, ma consente al soggetto di rendersi conto, prima di perdere conoscenza, di ciò che sta accadendo). (Trib. Catanzaro, 23 febbraio 2012, con commento di G. Buffone su www.dirittoegiustizia.it marzo 2010).

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