Danno non patrimoniale (risarcimento del)

Damiano Spera
21 Febbraio 2017

Il danno non patrimoniale costituisce uno dei temi più avvincenti della responsabilità civile. La norma di riferimento è l'art. 2059 c.c., ma la dottrina e, soprattutto, la giurisprudenza (di merito, di legittimità e della Corte Costituzionale) negli ultimi trenta anni ne hanno proposto differenti interpretazioni descrivendone in vario modo il contenuto.
Inquadramento

*** Bussola in fase di aggiornamento autorale ***

Il danno non patrimoniale costituisce uno dei temi più avvincenti della responsabilità civile.

La norma di riferimento è l'art. 2059 c.c., ma la dottrina e, soprattutto, la giurisprudenza (di merito, di legittimità e della Corte Costituzionale) negli ultimi trenta anni ne hanno proposto differenti interpretazioni descrivendone in vario modo il contenuto.

Si può dire, quindi, che il “diritto vivente” della responsabilità civile trovi nell'art. 2059 c.c. la sua massima espressione.

Le questioni relative al danno non patrimoniale presuppongono e si correlano in vario modo con quelle della prova degli elementi strutturali del fatto illecito (ed in particolare del nesso di causa tra la condotta e la lesione dell'interesse protetto) e, ancora più in generale, della responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale.

La Cassazione a Sezioni Unite, con le c.d. “sentenze di San Martino”, ha chiarito le questioni più controverse sul danno morale, sul danno esistenziale e sulla necessità di una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, inteso sempre come danno conseguenza e mai in re ipsa. Le Sezioni Unite hanno quindi prescritto che il giudice dovrà procedere all'integrale risarcimento del danno subito dalla vittima, senza però effettuare duplicazioni di liquidazione del medesimo pregiudizio.

Infine, dopo la sentenza della Cassazione (Cass. civ., n. 12408/2011, c.d. “sentenza Amatucci”), sono state ritenute viziate da nullità, per violazione di legge, le sentenze che non applicano la Tabella milanese di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del bene salute e da perdita o grave lesione del rapporto parentale.

Ora l'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano sta elaborando ulteriori tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di altri diritti della persona.

In evidenza

Il danno non patrimoniale è risarcibile “solo nei casi determinati dalla legge", e cioè, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.:

  • quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale;
  • quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di un'ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni);
  • quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice.
Il danno non patrimoniale inteso come “danno morale soggettivo” fino alle c.d. “sentenze di San Martino”

L'art. 2059 c.c. dispone che «Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge».

Per “danno non patrimoniale” (con la sola esclusione della sentenza C. Cost. n. 88/1979), fino alle sentenze di Cass. civ., Sez. Un., nn. 26972/2008, 26973/2008, 26974/2008 e n. 26975/2008 (c.d. “sentenze di San Martino”), si è sempre inteso, pressoché come sinonimo, il “danno morale soggettivo”, quale transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima: afflizioni morali e turbamenti dello stato d'animo del danneggiato.

La Corte Costituzionale, con la nota sentenza C. cost. n. 184/1986, evidenziava che l'art. 2043 c.c. è una «norma in bianco». Ebbene, «la vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali, svela che l'art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli dalla Carta fondamentale (che tutelano i predetti valori) e che, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell'illecito. L'art. 2043 c.c., correlato all'art. 32 Cost., va, necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma (esclusi, per le ragioni già indicate, i danni morali subiettivi) tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana».

La Corte distingueva il danno biologico quale evento del fatto lesivo della salute (e dunque anche in assenza degli elementi costitutivi del reato di lesioni) dal danno morale soggettivo (che rimaneva liquidabile solo in presenza di reato) e dal danno patrimoniale, che appartenevano, invece, alla categoria del danno-conseguenza in senso stretto.

Conseguentemente, la sentenza della Corte Costituzionale (C. cost. n. 184/1986) afferma che «da un canto, la giurisprudenza successiva all'emanazione del vigente codice civile identifica quasi sempre il danno morale (o non patrimoniale) con l'ingiusto perturbamento dello stato d'animo del soggetto offeso e, dall'altro, ancor oggi la prevalente dottrina riduce il danno non patrimoniale alla sofferenza fisica (sensazione dolorosa) o psichica. Se, dunque, secondo il diritto vivente, l'art. 2059 c.c., che, peraltro, pone soltanto una riserva di legge, fa riferimento, con l'espressione "danno non patrimoniale", al solo danno morale subiettivo, lo stesso articolo si applica soltanto quando all'illecito civile, costituente anche reato, consegue un danno morale subiettivo».

In proposito, giova ricordare che, nei lavori preparatori del vigente codice civile, si definisce danno morale «quello che in nessun modo tocca il patrimonio, ma arreca solo un dolore morale alla vittima».

Sulla base di queste premesse sul rapporto danno morale-danno biologico, così conclude la Corte Costituzionale: «Il danno morale subiettivo, che si sostanzia nel transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso, é danno-conseguenza, in senso proprio, del fatto illecito lesivo della salute». Pertanto, il danno morale è risarcibile ex art. 2059 c.c., ove dalla lesione alla salute (risarcibile ex art. 2043 c.c.) derivi, come conseguenza ulteriore (rispetto all'evento della menomazione delle condizioni psico-fisiche del soggetto offeso) un danno morale subiettivo, sempreché il fatto realizzativo del danno biologico costituisca anche reato.

Anche la sentenza della C. Cost. n. 372/1994 conferma (in generale) la nozione di danno morale soggettivo come «patema d'animo o stato di angoscia transeunte».

Tale impostazione muta sensibilmente a seguito dalla pubblicazione delle c.d. sentenze "gemelle" della Corte di Cassazione (Cass. civ., 31 maggio 2003 n. 8827 e Cass. civ., 31 maggio 2003 n. 8828), nonché della sentenza della Corte Costituzionale C. cost. n. 233/2003. In relazione al limite derivante dalla riserva di legge prevista dall'art. 2059 c.c. si inizia infatti a prediligere «una lettura della norma costituzionalmente orientata», che «impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti».

A seguito di questa svolta storica, l'art. 2059 c.c. assume quindi «una funzione non più sanzionatoria, ma soltanto tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale» e diventa norma idonea a ricomprendere «ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona» (così C. cost. n. 233/2003).

Segue. Con le “sentenze di San Martino” il danno non patrimoniale diventa categoria unitaria

Come già si evince da quanto esposto, fino alla sentenze di San Martino (e fatte salve le eccezioni contenute nelle citate C. cost. n. 88/1979 e C. cost. n. 372/1994) il danno biologico è stato sempre nettamente distinto dal “danno morale soggettivo”, ravvisandosi in quest'ultimo una conseguenza del primo oppure il contenuto essenziale del danno non patrimoniale nelle ipotesi di reato e degli altri specifici «casi determinati dalla legge».

Ai fini che qui interessano, le Sezioni Unite stigmatizzano, invece, che l'interpretazione dell'art. 2059 c.c. come contenitore del solo “danno morale soggettivo transeunte” deve essere definitivamente superata, perché senza fondamento normativo e perché «la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo. (…) La formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento».

Le Sezioni Unite di San Martino prendono le mosse dagli arresti delle citate "sentenze gemelle" del 2003 circa la bipolarità della responsabilità aquiliana tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.). Ribadiscono altresì che il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità (Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità.

Premettono altresì di accogliere la nozione di danno biologico recepita negli artt. 138 e 139 Cod. Ass., rilevando che questa nozione è «suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato».

Inoltre, superata la tradizionale nozione di danno morale soggettivo, inteso come patema d'animo transeunte ed «affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile».

Tuttavia, sia la menzionata nozione di danno biologico sia quelle di “sofferenza soggettiva” e di perdita o grave lesione del rapporto parentale assumono solo una valenza descrittiva del danno non patrimoniale.

Infatti, per le Sezioni Unite di San Martino, «il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. (…) Viene in primo luogo in considerazione, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale. (…) Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione».

La vexata quaestio del c.d. "danno esistenziale"

La più completa e chiara definizione di “danno esistenziale” si rinviene nella citata sentenza della Cass. civ., Sez. Un., n. 6572/2006: «Per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso. (…) Mentre il danno biologico non può prescindere dall'accertamento medico legale (…) la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso».

Le “sentenze di San Martino” affermano che il «pregiudizio di tipo esistenziale» è risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra la lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria. Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all'interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Per le Sezioni Unite di San Martino questa tesi «pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all'evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell'ingiustizia da dimostrare, e va disattesa. Essa si risolve sostanzialmente nell'abrogazione surrettizia dell'art. 2059 c.c.». Le “sentenze di San Martino” pervengono così alla conclusione che «di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere».

Alcune sentenze della Cassazione quasi “gridano al tradimento” del diritto al giusto ed integrale risarcimento, che sarebbe stato consacrato nei precedenti arresti giurisprudenziali.

In particolare, la sentenza di Cass. civ., n. 11851/2015 evidenzia che la Corte Costituzionale, con la sentenza C. cost. n. 233/2003, aveva aderito ai dicta delle “sentenze gemelle” ed anche alla tripartizione del danno non patrimoniale: il danno biologico in senso stretto, il danno morale soggettivo e «sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona».

E dunque, nella sentenza della Cassazione n. 11851/2015, si riafferma la distinzione ontologica delle predette tre voci di danno: «sgombrato il campo da ogni possibile equivoco quanto alla autonomia del danno morale rispetto non soltanto a quello biologico, ma anche a quello "dinamico relazionale" (predicabile pur in assenza di un danno alla salute), va affrontata e risolta la questione della legittimità di un risarcimento di danni c.d. esistenziali», anch'essi ricondotti dalle sentenze di San Martino a species descrittiva di danno non patrimoniale, inidonea a costituirne autonoma categoria risarcitoria. Esistenziale è quel danno che, nell'ipotesi di lesione del bene salute, si colloca nella sfera dinamico relazionale del soggetto, come conseguenza autonoma della lesione medicalmente accertabile.

Per un'analisi critica di siffatto orientamento rinvio al mio Focus: Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?.

Mi limito qui ad evidenziare che le “sentenze gemelle” già avvertivano che, nella valutazione dei pregiudizi non patrimoniali da lesione di interessi costituzionalmente protetti, segnatamente in relazione al danno morale (per difetto di materialità del bene inciso allorché non ricorra la lesione biologica), sussistono «innegabili difficoltà nella distinzione di pregiudizi che, pur ontologicamentediversi tra loro, concernono ambiti che tendono talora a sovrapporsi». (…) E va ribadito che, nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona».

Per altro verso, allorché le “sentenze di San Martino” valorizzano le “voci” del danno non patrimoniale (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale, ecc.) non intendono mai negarne (in senso tecnico) l'autonoma esistenza, ma, più semplicemente, evidenziarne la natura di “componente” della categoria unitaria del danno non patrimoniale, «non suscettiva di suddivisione in sottocategorie». «Il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare» e quello ravvisato nella pena e nel dolore conseguenti e cioè «nella sofferenza morale determinata dal non poter fare» sono, in definitiva, due facce della stessa medaglia, essendo la sofferenza morale «componente di un più complesso pregiudizio non patrimoniale» (per un maggiore approfondimento, si veda anche D. SPERA, Tabella del Tribunale di Milano, in Ridare.it). È come se le sentenze di San Martino avessero affermato che le varie “voci” di danno predette non abbiano autonomia ontologica in relazione al danno non patrimoniale, di cui costituiscono (al contrario) l'essenza!

Anche le sentenze di San Martino mettono in guardia dai rischi di duplicazione di risarcimento dello stesso pregiudizio e ne ravvisano una tipica ipotesi nella liquidazione del danno morale (da sofferenza) in una percentuale del danno biologico (come del resto era previsto, fino al 2008, in tutte le tabelle giurisprudenziali di liquidazione del danno biologico). E, pur tuttavia, si noti che le sentenze di San Martino, lungi dall'escludere la liquidazione dell'una o dell'altra voce di danno, sollecitano il giudice a «procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza».

Infine, la recente sentenza della Cass. civ., Sez. Un., n. 15350/2015ha ribadito la necessità della unitaria liquidazione del danno non patrimoniale per i pregiudizi di tipo relazionale e di sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale; ha inoltre stigmatizzato che «se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all'art. 2059 c.c.».

È per queste ragioni che nei “Criteri orientativi” delle Tabelle milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del bene salute (Edizione 2009 e successive fino a quella tuttora “vigente” del 2014) si individuano valori monetari complessivi per liquidare unitariamente i pregiudizi anatomo-funzionali, relazionali (esistenziali) e di sofferenza soggettiva (v. Criteri di liquidazione del danno da lesione del bene salute e da perdita o grave lesione del rapporto parentale).

Orientamenti a confronto

Omnicomprensività della liquidazione del danno non patrimoniale

Cass. civ., sent. n. 9320/2015

In materia di responsabilità civile, il principio della "omnicomprensività" della liquidazione del danno non patrimoniale comporta l'impossibilità di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio, ma non esclude, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione, seppure facenti capo al medesimo soggetto.

Cass. civ., sent. n. 336/2016

In tema di risarcimento del danno, non è ammissibile nel nostro ordinamento l'autonoma categoria del "danno esistenziale", in quanto, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., sicché la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una non consentita duplicazione risarcitoria; ove, invece, si intendesse includere nella categoria i pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, la stessa sarebbe illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili alla stregua del menzionato articolo.

Cass. civ., sent. n. 25351/2015

Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara, costituisce indebita duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale - non altrimenti specificato - e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita, e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita, altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ma unitariamente ristorato.

Cass. civ., sent. n. 4043/2013

Il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria ed omogenea, all'interno della quale le distinzioni tradizionali (come quella tra danno morale e danno biologico) possono continuare ad essere utilizzate al solo fine di indicare in modo sintetico quali tipi di pregiudizio il giudice abbia preso in esame al fine della liquidazione, e mai al fine di risarcire due volte il medesimo pregiudizio, sol perché chiamato con nomi diversi. Ne consegue che la liquidazione del danno da uccisione di un prossimo congiunto è correttamente compiuta dal giudice di merito quando risulti che questi abbia tenuto conto delle circostanze rilevanti del caso concreto, a prescindere dai nomi che abbia usato per indicare i pregiudizi risarciti.

Liquidazione separata del danno esistenziale e delle altre voci di danno

Cass. civ., sent. n. 777/2015

Il danno esistenziale, quale criterio di liquidazione del più generale danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 c.c., può essere desunto in forza dell'art. 115, comma 2, c.p.c. da massime di comune esperienza, quali la giovane età del danneggiato al momento dell'infortunio (nella specie, venticinque anni) e la gravità delle conseguenze dell'infortunio (nella specie, immobilizzazione su sedia a rotelle) incidenti sulla normale vita di relazione dell'infortunato avuto riguardo alla capacità di procreazione, alla vita sessuale, alla possibilità di praticare sport ed altre analoghe attività.

Cass. civ., sent. n. 11851/2015

Nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, al di fuori dell'ambito applicativo delle lesioni cd. micro permanenti di cui all'art. 139, d.lg. 7 settembre 2005, n. 209, il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in considerazione dall'art. 138 del menzionato d.lg. n. 209 del 2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria.

Cass. civ., sent. n. 19211/2015

Attesa «la diversità ontologica degli aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale è necessario che essi, in quanto sussistenti e provati, vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro». Personalizzare la liquidazione significa che il giudice deve tener conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso concreto.

Il danno non patrimoniale nelle ipotesi di responsabilità extracontrattuale e contrattuale

Anche sugli elementi strutturali dell'illecito aquiliano, che cagioni danni non patrimoniali, le sentenze di San Martino hanno posto punti fermi.

L'art. 2059 c.c. non disciplina un'autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c..

Infatti, sul piano della struttura oggettiva del fatto illecito - condotta, nesso causale tra questa e l'evento dannoso, danno - le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto.

In relazione a tale aspetto, infatti, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. e cioè la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge, nei termini innanzi descritti (Cass. civ., sent., sez. III, 15 luglio 2005 n. 15027; Cass. civ., sent. n. 23918/2006).

Per quanto attiene, in particolare, al nesso di causa, la sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 581/2008 ha evidenziato che, nell'ambito della responsabilità in sede civile, a differenza di quella penalistica incentrata sulla valutazione della condotta vietata, ai sensi dell'art. 2043 c.c. assume rilievo preponderante il "danno", sotto due profili diversi: «come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria» (sulle complesse problematiche aventi ad oggetto la causalità materiale e giuridica, si rinvia a L. BERTI, “Il nesso di causa nella responsabilità civile” in Ridare.it).

Al contrario il danno non patrimoniale conseguente all'inadempimento delle obbligazioni, secondo l'opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L'ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all'art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l'ostacolo, nel caso in cui oltre all'inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (v. Cass. civ., sent. n. 2975/1968, seguita da Cass. civ., sent. n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell'esecuzione del contratto di trasporto; Cass. civ., sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

Le sentenze di San Martino, anche sulla questione in esame, elaborano il condivisibile principio di diritto secondo cui «L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali. Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni».

Ai sensi degli artt. 1218 e 1223 c.c., l'inadempimento obbliga al risarcimento dei consequenziali danni patrimoniali e non patrimoniali, con gli stessi oneri sulla prova del nesso di causalità giuridica e sulla effettiva sussistenza delle singole voci di danno non patrimoniale risarcibile (con la sola avvertenza che la tutela risarcitoria contrattuale sarà soggetta al limite di cui all'art. 1225 c.c., non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell'art. 2056 c.c.).

Il filtro della gravità dell'offesa e della serietà del danno

Nelle “sentenze di San Martino” si afferma che sono certamente non meritevoli di tutela risarcitoria, i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale.

«Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale».

Trattasi di quei danni che scaturiscono dalle c.d. liti bagatellari.

Con la locuzione "gravità dell'offesa e serietà del danno" si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell'interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al di fuori dei casi previsti dalla legge) l'invocabilità dell'art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che il filtro della serietà del danno attiene all'ambito dell'area del danno-conseguenza, mentre quello della gravità dell'offesa opera a monte, sul piano dal danno-evento. Non c'è serietà del danno, infatti, quando il danno conseguenza, del quale è richiesto il ristoro, consiste in un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici); mentre manca la seconda, se l'offesa arrecata è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell'epidermide, del mal di testa per una solamattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata.

Pertanto, «il giudice (anche quale prudente interprete del giudizio di riprovevolezza già insito nella coscienza sociale) dovrà escludere la risarcibilità dei “danni non meritevoli di tutela” (arg. ex art. 1322 c.c.) e di quelli che non siano di “entità apprezzabile” (sulla falsariga delle acquisizioni della sentenza della Corte Costituzionale n. 372/94). Il giudice, quindi, deve escludere la risarcibilità dei danni, in astratto, conseguenza di lesioni di valori della persona (ad esempio del diritto inviolabile dell'uomo alla libera estrinsecazione della propria personalità), ma che siano, in concreto, non meritevoli di risarcimento: perché comportano una compromissione di futili attività esistenziali ovvero perché, in considerazione dell'entità e della durata della condotta illecita, sia derivata una lesione dell'interesse protetto che abbia dato luogo ad un danno trascurabile o comunque non economicamente apprezzabile. In quest'ottica, le condotte illecite che impediscano di fare smorfie allo specchio o che non consentano una libera estrinsecazione della personalità, ma solo per un breve periodo di tempo - apprezzato dal giudice sulla base delle peculiarità della fattispecie concreta, della coscienza sociale e delle ragioni dei soggetti coinvolti - non comportano un danno risarcibile” (così nella mia relazione “Il danno non patrimoniale dal danno futile al danno risarcibile”, nel convegno organizzato dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano sul tema “Il danno alla persona”, Milano 13 – 14 novembre 2003, e pubblicato su “Questione Giustizia”, n. 5/2004).

E dunque la gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Per le Sezioni Unite di San Martino, il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Ogni persona inserita nel complesso contesto sociale deve accettare pregiudizi connotati da futilità in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.). Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, Cass. civ., n. 17208/2002; Cass. civ., n. 9266/2005, o disciplinare, Cass. civ., Sez. Un., n. 16265/2002).

Quest'ultima statuizione è stata validata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 235/2014 (C. Cost., n. 235/2014), nel vaglio positivo di costituzionalità dell'art. 139 Cod. ass., in relazione ai valori ivi previsti per la liquidazione del danno biologico.

La Corte, in quella sentenza, sul bilanciamento degli interessi anche tra valori costituzionali, ha poi aggiunto:

«Il controllo di costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto dal censurato art. 139 Cod. ass. – per il profilo del prospettato vulnus al diritto all'integralità del risarcimento del danno alla persona – va, quindi, condotto non già assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base della disciplina censurata. Orbene, in un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata – in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi – la disciplina in esame, che si propone il contemperamento di tali contrapposti interessi, supera certamente il vaglio di ragionevolezza».

Peraltro, la necessità di stabilire una soglia per l'accesso alla tutela risarcitoria non è prevista unicamente nel nostro ordinamento giuridico, ma trova riscontro anche nel diritto dell'Unione Europea. Infatti, l'art. 35, paragrafo 3, della C.E.D.U. prevede che la Corte dichiari irricevibile il ricorso se ritiene che «il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante».

Infine, pare opportuno evidenziare che il vaglio della gravità dell'offesa e della serietà del danno è necessario non solo nelle ipotesi di applicazione dell'art. 2059 c.c. (a seguito di lettura costituzionalmente orientata dello della norma), ma anche nei (rari) casi in cui sia la stessa legge a prevedere espressamente il risarcimento del danno non patrimoniale.

Infatti, la Cassazione ha statuito che il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lg. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. "Codice della privacy"), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva (Cass. civ., sent. n. 16133/2014; in questi termini, ancora più recentemente Cass. civ., ord. n. 222/2016, in una fattispecie di smarrimento di documentazione sanitaria (per un maggior appronfondimento, si veda anche P. ZIVIZ, Smarrimento di documenti contenenti dati sensibili e i filtri della gravità dell'offesa e della serietà del pregiudizio per la risarcibilità del danno non patrimoniale in Ridare.it).

Il danno non patrimoniale non è mai in re ipsa e non ha funzione punitiva

Prima della svolta operata dalle Sezioni Unite di San Martino, la sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 6572/2006 aveva sostenuto che il danno morale ha natura meramente emotiva ed interiore, riconoscendo in termini generali il danno esistenziale.

Ma in tutti i casi in cui si applica l'art. 2059 c.c., alla luce anche della sentenza n. 6572/2006, qual è l'effettivo contenuto del danno non patrimoniale risarcibile?

Un po' provocatoriamente, nella sentenza Trib. Milano, 4 marzo 2008 n. 2847 (pubblicata su "Danno e Responsabilità", n. 8-9/2008 ed in “Guida al diritto”, dossier n. 4/2008), sostenevo che, in definitiva, sempre (e solo) a due grandi voci si può ricondurre il danno non patrimoniale:

«Da un'attenta ricognizione dell'evoluzione giurisprudenziale sul danno non patrimoniale, si evince che, in definitiva, tutti i pregiudizi riconducibili al genus del danno non patrimoniale possono essere ricompresi in due sole species:

a) un patema d'animo cd. “danno morale soggettivo”, che attiene alla sfera interiore del soggetto;

b) un danno che attiene alla sfera esteriore del soggetto, che in tal senso può anche definirsi “esistenziale”, nella nozione accolta dalle Sezioni Unite: pregiudizio che l'illecito “provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno».

In quella sentenza sostenevo che il genus rimaneva il danno non patrimoniale ed il danno biologico era esattamente coincidente con il danno esistenziale di cui alla menzionata lett. b), con l'unica peculiarità di essere correlato alla lesione del bene giuridico salute.

Spingendo l'analisi ancora più in profondità, potrebbe sostenersi addirittura che il danno non patrimoniale risarcibile sia costituito solo dalla prova, sia pure in via presuntiva, della sofferenza.

La premessa di questa tesi è che la giurisprudenza ha ravvisato ipotesi in cui alla lesione del bene protetto possa non conseguire alcun danno risarcibile:

- la rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato ad essere di lì a poco estirpato dal dentista, determina una lesione medicalmente accertabile, ma senza conseguenza dannosa risarcibile (v. la motivazione della citata Cass. civ. n. 11851/2015);

- la morte del fratello da molti anni residente in Italia, cui non consegue un danno risarcibile (neppure in valori monetari minimali) in favore dei fratelli unilaterali viventi in Colombia, «in difetto non solo della coabitazione, ma di qualsivoglia allegazione e principio di prova circa le effettive abitudini e relazioni familiari tra soggetti abitanti, addirittura, in diversi continenti» (Trib. Milano, sent. n. 6400/2013);

- la comprovata lesione del diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario è stata ritenuta non sufficiente per accogliere la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, laddove la paziente, soddisfatta della prestazione ricevuta, successivamente, si sia rivolta allo stesso medico per un ulteriore intervento chirurgico (v. Trib. Milano, sentenza n. 3520/2005).

Queste fattispecie hanno in comune la peculiarità che non sia possibile presumere alcuna sofferenza interiore, nonostante la comprovata lesione dell'interesse protetto.

E dunque, in tutti i casi di lesione di diritti inviolabili della persona ed, ancora più in generale, in tutte le ipotesi di applicazione dell'art. 2059 c.c., devesi ribadire che il danno non è mai in re ipsa, riconducibile all'evento lesivo dell'interesse protetto, ma è danno conseguenza che deve essere in concreto accertato, sia pure (spesso) mediante presunzioni; «è sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato» (così C. cost., n. 372/1994).

Anche le sentenze di San Martino stigmatizzano che «Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. civ., n. 8827/2003, Cass. civ., n. 8828/2003, Cass. civ., n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. (…) E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».

Del resto anche la citata sentenza n. 6572/2006 ha individuato «specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell'ambito del rapporto di lavoro, in particolare dalla violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.)», nonché dalla violazione dei diritti inviolabili di cui agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., che tutelano la dignità personale del lavoratore (v., in questi termini, le “sentenze di San Martino”).

Come si è detto, nella sentenza della Cass. civ., Sez. Un.n. 581/2008, si afferma che «se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria».

Con la sentenza Cass. civ., n. 1361/2014 (c.d. “sentenza Scarano”) si riconosceva la risarcibilità del danno tanatologico, diritto al risarcimento che si acquisterebbe al momento stesso della perdita del bene vita: danno in re ipsa, inteso quale eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza.

Tuttavia, le Sezioni Unite, nella citata sentenza n. 15350/2015 (per approfondimenti, si veda anche D.SPERA, La sentenza Sez. Un. n. 15350/2015: pietra tombale sul danno tanatologico e crisi della funzione nomofilattica della Cassazione in Ridare.it), ribadiscono il tradizionale indirizzo, affermando che «l'ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il “bene salute” ed il “bene vita”, sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità».

Quanto esposto è coerente con la funzione della responsabilità civile.

La medesima sentenza Cass. civ., n. 15350/2015 conclude infatti che «la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (…) e l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria)».

Dovrebbe quindi dirsi definitivamente tramontata ogni residuale configurabilità del danno in re ipsa e del c.d. “danno punitivo”, in assenza di un intervento legislativo ad hoc (come ad esempio, ai sensi dell'eccezionale ipotesi di cui all'art. 96 ult. cpv. cpc.) o di un non prevedibile revirement delle Supreme Corti.

Oneri di allegazione e prova

È ancora controverso in dottrina ed in giurisprudenza se sia valida o meno la domanda risarcitoria estesa a “tutti i danni” non patrimoniali subiti in conseguenza del fatto illecito (per un maggior approfondimento, vedi anche A. BARLETTA, Incertezze e contrasti sul contenuto essenziale della domanda risarcitoria: a quando un intervento delle Sezioni Unite?, in Ridare.it).

È invece acclarato che, come si è già accennato, anche il danno non patrimoniale, inteso come danno conseguenza, deve essere allegato ed, in ipotesi di contestazione, provato nel processo.

Infatti, sia nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, sia in presenza di (non lieve) lesione del diritto inviolabile della persona (ex art. 2059 c.c.), è risarcibile solo (ex art. 1223 c.c. citato) la “perdita” subita dalla vittima (primaria o secondaria), valutata in termini di sofferenza interiore e di alterazione significativa delle condizioni di vita (è indifferente definire queste ultime relazionali o esistenziali).

Affermano le sentenze di San Martino: «Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (d.lg. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. (…) Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto».

Tuttavia, perfino nell'ipotesi di lesione del bene salute, nonostante la prova nel processo di tale lesione (di regola, ma non necessariamente, mediante consulenza tecnica d'ufficio) potrebbe non seguire alcun risarcimento, come, ad esempio, nelle ipotesi di:

- rottura del femore di vittima già paraplegica (il danno risarcibile si riduce ad un breve periodo di danno biologico temporaneo e ad un modesto danno estetico permanente);

- distacco della retina per un non vedente (che non dovrebbe cagionare nessun danno consequenziale) (per un maggior approfondimento, vedi anche D. SPERA, Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza? in Ridare.it).

Orbene (fatti salvi questi casi davvero eccezionali) la prova della sofferenza interiore, quale fatto (ontologicamente) ignoto, non può che essere presuntiva e, quindi, è necessario (ex art. 2727 c.c.) allegare e provare i fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

Anche nell'ipotesi di perdita del rapporto parentale, quindi, bisogna allegare tutte o talune delle seguenti circostanze di fatto: l'età della vittima e di chi chiede il risarcimento, il rapporto di convivenza, l'intensità delle relazioni affettive, la composizione del nucleo familiare dopo il decesso, le abitudini e relazioni di vita anteriori e successive al decesso, ecc..

Se contestate dalla controparte, tutte le predette allegazioni devono essere provate nel processo.

Gli avvocati spesso si dolgono della mancata ammissione dei capitoli di prova dedotti dalla difesa del danneggiato.

Anche in relazione alla allegazione e prova delle circostanze di fatto relative all'alterazione delle condizioni di vita del soggetto danneggiato, appare opportuno ricordare che: i capitoli di prova per testi devono essere «formulati in articoli separati» e mediante «indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti»(art. 244 c.p.c.); anche la prova per interrogatorio formale deve essere chiesta «per articoli separati e specifici» e quindi anch'essa su «fatti» specifici (artt. 230 e 232 c.p.c.).

Molto spesso la prova dedotta è rigettata dal giudice perché avente ad oggetto circostanze generiche e/o implicanti valutazioni.

Sulle problematiche specifiche si rinvia alla bussola sul tema (LINK bussola “Onere di allegazione e contestazione del danno patrimoniale e non patrimoniale” di Francesca Picardi).

Mi limito qui ad evidenziare che l'onere di allegazione nel processo civile è una proiezione della regola di cui all'art. 112 c.p.c.

Tale regola va coordinata, nell'attuale sistema, con il regime delle preclusioni, il cui superamento è rilevabile d'ufficio. Va, tuttavia, ricordato che solo i fatti principali - e, cioè, costitutivi, modificativi, estintivi o impeditivi del diritto azionato devono necessariamente confluire negli atti introduttivi, nella prima o nella seconda memoria dell'art. 183, comma 6, c.p.c., mentre i fatti secondari, stante la loro funzione meramente probatoria, possono tradursi anche in un capitolo di prova formulato nella seconda o terza memoria ex art. 183 c.p.c. (in questo senso Cass. civ., sent. n. 7786/2013, secondo cui i fatti secondari, per la loro funzione di prova dei fatti principali, possono essere indicati entro i termini di decadenza stabiliti per la trattazione probatoria).

La Suprema Corte ha chiarito che i c.d. danni conseguenza devono essere allegati e provati, in quanto il risarcimento del danno non è dovuto qualora la lesione dell'interesse giuridicamente protetto non abbia in concreto determinato alcuna conseguenza pregiudizievole, non potendo tradursi in una sanzione privata per il comportamento “contra ius” del convenuto.

Nelle domande di risarcimento, l'onere di allegazione investe, quindi, necessariamente non solo il danno evento ma anche tutti i danni conseguenza lamentati (Cass. civ., sent. n. 691/2012).

Pertanto, ove il danno conseguenza non sia tempestivamente precisato entro la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., la domanda formulata dovrebbe essere rigettata nel merito in assenza di uno dei fatti costitutivi del diritto azionato e, cioè, del danno conseguenza.

Questa statuizione comporterebbe per la parte l'onere di allegare tutti i pregiudizi che sono derivati dalla menomazione del bene salute o dalla lesione di altri diritti inviolabili della persona entro il termine finale della memoria ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c.. Sarebbe quindi preclusa, ad esempio, la richiesta di personalizzazione del danno conseguente alla impossibilità di praticare un determinato hobby (ad esempio il gioco del tennis), se questa specifica allegazione non fosse stata introdotta nel processo entro la predetta c.d. "memoria n. 1", ma solo dedotta, per la prima volta, nella c.d. “memoria n. 2”, in un capitolo di prova o in una produzione documentale.

Data la rilevanza della questione ed i tentennamenti della giurisprudenza, appare prudente attendere altri arresti della Corte di Cassazione e della dottrina prima di assumere definitive conclusioni.

Criteri di liquidazione del danno da lesione del bene salute e da perdita o grave lesione del rapporto parentale

Come è noto la Cassazione, con la sentenza n. 12408/2011 (c.d. “sentenza Amatucci”), ha avvertito che la liquidazione dei danni alla persona deve evitare due estremi:

  • «da un lato, che i criteri di liquidazione siano rigidamente fissati in astratto e sia sottratta al giudice qualsiasi seria possibilità di adattare i criteri legali alle circostanze del caso concreto;
  • dall'altro, che il giudizio di equità sia completamente affidato alla intuizione soggettiva del giudice, al di fuori di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni».

La Cassazione ha quindi ritenuto che il contemperamento dei due principi tendenzialmente contrapposti richiede che il criterio di liquidazione associ all'uniformità pecuniaria di base del risarcimento ampi poteri equitativi del giudice, eventualmente entro limiti minimi e massimi.

Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale - e al quale la S.C., in applicazione dell'art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c..

La mancata applicazione della tabella milanese nel giudizio di appello non comporta, per ciò solo, la ricorribilità in cassazione per violazione di legge (in relazione agli artt. 1226 e 2056 c.c.) della sentenza che, in applicazione di diversa tabella, abbia liquidato importi inferiori.

Perché il ricorso sia ammissibile è necessario che:

- in appello, sia stata prospettata l'inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice ed il ricorrente si sia specificamente doluto «sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano»;

- il ricorrente, «nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti».

«In tanto, dunque, la violazione della regula iuris potrà essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360, n. 3, c.p.c., in quanto la questione sia stata specificamente posta nel giudizio di merito» (in questi termini la citata sentenza Cass. civ., n. 12408/2011 e, per un maggior approfondimento, vedi anche D. SPERA, La tabella del Tribunale di Milano, in Ridare.it).

Ebbene, nei "Criteri orientativi" delle tabelle milanesi si afferma che:

«Per individuare i valori monetari di tale liquidazione congiunta, si è poi fatto riferimento all'andamento dei precedenti degli Uffici giudiziari di Milano, e si è quindi pensato:

  • a una tabella di valori monetari “medi”, corrispondenti al caso di incidenza della lesione in termini "standardizzabili" in quanto frequentemente ricorrenti (sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali, sia quanto agli aspetti relazionali, sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva);
  • a una percentuale di aumento di tali valori “medi” da utilizzarsi -onde consentire un'adeguata "personalizzazione" complessiva della liquidazione- laddove il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato, in particolare:
    • sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali (ad es. lavoratore soggetto a maggior sforzo fisico senza conseguenze patrimoniali; lesione al "dito del pianista dilettante"),
    • sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva (ad es. dolore al trigemino; specifica penosità delle modalità del fatto lesivo),

ferma restando, ovviamente, la possibilità che il giudice moduli la liquidazione oltre i valori minimi e massimi, in relazione a fattispecie del tutto eccezionali rispetto alla casistica comune degli illeciti».

Di regola, quindi, entro il range di «aumento personalizzato» previsto nelle stesse tabelle, il giudice procederà ad una «adeguata personalizzazione complessiva della liquidazione».

Sull'avvocato graverà, quindi, l'onere di allegare e provare (ove possibile anche mediante presunzioni) le «particolari condizioni soggettive del danneggiato» e cioè i particolari pregiudizi relazionali, esistenziali di sofferenza soggettiva patiti dalla vittima.

Alla luce di quanto fin qui esposto emerge tuttavia che non vi sono “minimi garantiti” né limiti invalicabili di liquidazione, ma (solamente) la previsione di valori “medi” di liquidazione.

Bisogna infatti ribadire che, in tutte le ipotesi di applicazione della Tabella milanese, il giudice dovrà aumentare o diminuire la liquidazione anche oltre i valori massimi e minimi, qualora la fattispecie concreta esorbiti dalla casistica media e tenuta presente durante i lavori di allestimento della tabella milanese. Ciò potrà accadere qualora il danno conseguenza - in termini di pregiudizi anatomo-funzionali, relazionali e di sofferenze - sia di particolare levità o gravosità: si pensi, per un verso, al danno non patrimoniale temporaneo e permanente conseguente al colpo di frusta e, per altro verso, alle particolari sofferenze fisiche e psichiche conseguenti a lesioni dolose o ad altre condotte penalmente rilevanti e/o particolarmente abiette.

Anche nella sentenza della Cass. civ., n. 12408/2011 si afferma che i criteri tabellari di Milano «costituiranno d'ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi “equo”, e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entità».

Recentemente la Cassazione ha ribadito che il giudice, nell'effettuare la necessaria personalizzazione del danno non patrimoniale, in base alle circostanze del caso concreto, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle tabelle milanesi solo quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all'oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'«id quod plerumque accidit», dando adeguatamente conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate (Cass. civ., sent. n. 3505/2016).

Segue. I criteri di liquidazione nelle nuove proposte tabellari dell'Osservatorio di Milano

Per la liquidazione del danno non patrimoniale subito in fattispecie peculiari, nelle ipotesi di altri reati oppure in conseguenza della lesione di altri diritti non vi sono tabelle di liquidazione generalmente seguite dai giudici di merito e/o validate dalla Corte di Cassazione.

In questi casi la liquidazione del danno non patrimoniale dovrà essere necessariamente effettuata con il criterio dell'equità pura (ex art. 1226 c.c.).

È pacifico in giurisprudenza che, laddove sia provato il danno, ma l'accertamento del suo ammontare e dunque la sua liquidazione presentino gravi difficoltà, il giudice possa procedere secondo equità esercitando il suo prudente apprezzamento discrezionale. Nell'esercizio di tale potere la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, ma solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge o essa macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria. Sulla questione può dirsi consolidato quell'orientamento che, tenendo conto di una certa difficoltà di dimostrazione dell'entità del danno non patrimoniale, consente – nel rispetto degli oneri di allegazione e prova – la liquidazione di esso in via equitativa con un apprezzamento non sindacabile dal Giudice di legittimità, purché ancorato ad un excursus logico esauriente ed intelligibile. Tale parametro di equità giudiziale integrativa deve, ovviamente, ancorarsi a criteri di congruità logica anche allorché si serva di quei criteri orientativi che si sostanziano nelle tabelle di liquidazione elaborate dagli uffici giudiziari e che sono dirette ad assicurare una certa omogeneità di trattamento nell'ambito di situazioni analoghe.

In questo quadro si colloca la sfida lanciata dal “Gruppo danno alla persona” dell'Osservatorio milanese nello scorso settembre 2015.

L'Osservatorio prende le mosse dalle seguenti premesse:

- la necessità di dare ulteriori risposte alla soluzione di altre complesse questioni non contemplate dalle tabelle “in vigore” come, per esempio, danno terminale, rendita vitalizia, danno intermittente, ecc.;

- l'impossibilità di procedere ad una modifica delle stesse tabelle, atteso che essendo queste ultime diventate “parametro para-normativo dell'equità” (sul presupposto che erano state seguite dai due terzi degli uffici giudiziari d'Italia), ogni modifica deve essere adottata con estrema delicatezza, perché dovrà essere ritenuta congrua dalla maggioranza degli Uffici giudiziari, altrimenti si rischia il ritorno al caos che imperava negli anni precedenti alla citata sentenza Cass. civ., n. 12408/2011.

L'Osservatorio di Milano ha dunque deciso di non modificare i criteri ed i valori dei risarcimenti delle tabelle milanesi, ma di procedere all'elaborazione di ulteriori diverse tabelle per la liquidazione di altre voci di danno non patrimoniale (per un maggior approfondimento, vedi anche D. SPERA, Le Supreme Corti hanno validato le tabelle milanesi e ora ispirano l'osservatorio di Milano nelle proposte di nuove tabelle, in Ridare.it)

Si è deciso, quindi, di assegnare le questioni più rilevanti all'elaborazione critica e propositiva di 8 gruppi,per ognuno dei quali è stato designato un Coordinatore.

Sono stati (tra gli altri) oggetti di esame dei gruppi:

- le modalità tecniche e giuridiche per costituire una rendita vitalizia ex art. 2057 c.c.;

- i criteri di liquidazione del c.d. “danno intermittente”, subito dalla vittima che decede nel corso del processo per causa diversa;

- la legittimazione attiva di altri prossimi congiunti che lamentano un danno parentale e la quantificazione del danno subito dalla vittima (spesso secondaria) che risiede in uno Stato con diverso costo della vita;

- i criteri per la liquidazione del c.d. “danno terminale”;

- i criteri di accertamento medico legale della lesione biologica in presenza di menomazioni preesistenti, concorrenti o coesistenti, danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa generica e specifica;

- i criteri adottati negli Stati membri dell'Unione europea nella liquidazione delle voci del danno non patrimoniale;

- i criteri di liquidazione del danno endofamiliare, da diffamazione, da lesione del diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario (c.d. “consenso informato”), da lesione del diritto alla riservatezza, da abuso del processo ex art. 96 c.p.c.;

- le modalità di accertamento medico legale delle lesioni di lievi entità ed i relativi criteri di liquidazione del danno.

I lavori si sono conclusi con interessanti proposte che sono state poste all'attenzione e all'analisi critica della dottrina e degli altri Osservatori d'Italia (per un maggiore approfondimento, vedi D.SPERA, Dibattito sulle proposte tabellari dell'Osservatorio di Milano, in Ridare.it).

Casistica

Casistica

Danno da lesione del bene salute

Cass. civ., sent. n. 777/2015

In tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato, e la limitazione dell'azione risarcitoria di questi al cosiddetto danno differenziale, nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale a norma dell'art. 10 d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, riguarda, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, soltanto l'ambito della copertura assicurativa, ossia il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica e non anche il danno alla salute, o biologico, e il danno morale di cui all'art. 2059 c.c. entrambi di natura non patrimoniale, al cui integrale risarcimento il lavoratore ha diritto ove sussistano i presupposti della responsabilità del datore di lavoro.

Cass. civ., sent. n. 2998/2016

In tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.

Cass. civ., sent. n. 16788/2015

Il consolidamento del ricorso ai criteri di equità integrativa non esclude il ricorso nella determinazione ai criteri orientativi delle tabelle di liquidazione. Secondo la S.C. è indispensabile che l'onere motivazionale destinato a sorreggere il criterio equitativo, ove assunto a parametro di liquidazione del danno biologico, nel fare riferimento al cd. “punto variabile” sia ancorato ad un riscontro concreto alle tabelle di liquidazione, dovendo il Giudice specificare il valore monetario di base del punto e il grado di invalidità permanente, nonché il coefficiente di abbattimento in funzione dell'età della vittima e le ragioni per cui ha ritenuto di variare o non variare il “risarcimento standardizzato”.

Danno da perdita del rapporto parentale

Cass. civ., sent. n. 16992/2015

Il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell'esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita.

Cass. civ., sent. n. 12717/2015

In materia di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, non è adeguatamente motivata la sentenza del giudice di merito che, facendo applicazione dei parametri previsti al riguardo dalle tabelle elaborate dal tribunale di Milano, abbia liquidato, per il pregiudizio subito dai genitori in ragione della nascita di un feto morto, una somma pari ai valori più elevati della forbice risarcitoria ivi contemplata, senza considerare che essa, in quanto dichiaratamente calcolata in ragione della qualità e quantità della relazione affettiva con la persona perduta, non è di per sé utilizzabile nel caso del figlio nato morto, dove tale relazione è solo potenziale.

Danno da grave lesione del rapporto parentale

Cass. civ., sent. n. 12146/2016

Il fatto illecito, costituito dalle gravissime lesioni patite dal congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nelle conseguenze pregiudizievoli sul rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, restando irrilevante, per l'operare di detta presunzione, la sussistenza di una convivenza tra gli stretti congiunti e la vittima del sinistro.

Danno tanatologico

Cass. civ., Sez. Un., n. 15350/2015

In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.

Cass. civ., sent. n. 14940/2016

Il danno non patrimoniale da perdita della vita non è indennizzabile "ex se", senza che possa essere invocato il "diritto alla vita" di cui all'art. 2 CEDU, norma che, pur di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene vita, non detta specifiche prescrizioni sull'ambito ed i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, né, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l'attribuzione della tutela risarcitoria, il cui riconoscimento in numerosi interventi normativi ha comunque carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull'evento lesivo in sé considerato.

Danno endofamiliare

Cass. civ., sent. n. 3079/2015

Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli artt. 2 e 30 Cost. - oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento - un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell'illecito civile e legittima l'esercizio, ai sensi dell'art. 2059 c.c., di un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.

Cass. civ., sent. n. 16222/2015

La Cassazione ha ritenuto correttamente motivata la sentenza di merito che ha liquidato i danni conseguenti ad un falso riconoscimento di paternità, poi disconosciuto, in base ai parametri utilizzati in materia di perdita del rapporto parentale e di pregiudizi intrafamiliari. In particolare, si è ritenuto che la liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa resti affidata ad apprezzamenti discrezionali del giudice di merito, non sindacabili in sede di legittimità purché la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo.

Danno da lesione del diritto di autodeterminazione e da nascita indesiderata

Cass. civ., sent. n. 24220/2015

In materia di attività medico-chirurgica, l'obbligo di informare la gestante degli esami diagnostici effettuabili preventivamente per conoscere patologie fetali, idonee ad orientare la scelta tra l'interruzione o la prosecuzione della gravidanza, assume autonomo rilievo, nel rapporto contrattuale, rispetto a quello relativo alla verifica degli esiti di esami già effettuati ed alla valutazione della necessità di approfondimenti, sicché la sua violazione implica una responsabilità contrattuale del professionista fondata sulla lesione di un diritto all'autodeterminazione a scelte non solo terapeutiche ma anche procreative, spettando al sanitario, a fronte della mera allegazione dell'inadempimento di siffatto obbligo di informazione, dare la prova di averlo, invece, adempiuto.

Danno all'immagine, all'identità personale e sessuale

Cass. civ., sent. n. 1126/2015

Costituiscono condotte omofobiche, gravemente discriminatorie e lesive del diritto alla privacy, la segnalazione, effettuata dall'Ospedale militare, della dichiarazione di omosessualità da parte di un chiamato alla leva (ed esonerato dal servizio militare per tale sola ragione) alla Motorizzazione civile, evidenziando la derivante carenza dei requisiti psico-fisici legalmente previsti per la guida di automezzi, nonché la conseguente sottoposizione dell'interessato ad un procedimento di revisione della patente di guida, restando privo di rilievo al fine della determinazione dell'entità del risarcimento, a fronte dell'inviolabilità del diritto all'identità sessuale, che la vicenda e la diffusione dei dati sia rimasta "circoscritta" in ambiti endo-amministrativi.

Cass. civ., sent. n. 24221/2015

L'illecito utilizzo della immagine altrui, ai sensi dell'art. 10 c.c., si configura quando la sua divulgazione, in fotografia o in filmati pubblici, non trovi ragione in finalità di informazione, ma nello sfruttamento - in difetto di consenso dell'interessato - commerciale o pubblicitario, a tal fine richiedendosi che il personaggio appaia come involontario "testimonial" del prodotto reclamizzato o che, comunque, il pubblico lo associ ad esso, reputando che costui ne condivida la propaganda o la commercializzazione.

Cass. civ., sent. n. 15024/2016

Nel caso di c.d. parto anonimo, sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all'identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, previsto dall'art. 93, comma 2, d.lg. n. 196 del 2003, che determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto (C. cost. n. 278 del 2013) e l'affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta.

Danno da lesione della privacy

Cass. civ., sent. n. 1091/2016

In tema di lesione del diritto all'immagine ed alla reputazione, la quantificata entità del corrispondente danno risarcibile non può essere automaticamente ridotta per effetto della pubblicazione della sentenza su un quotidiano, costituendo tale misura, oggetto di un potere discrezionale del giudice, una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all'ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell'illecito, diversamente dal risarcimento del danno per equivalente che mira al ristoro di un pregiudizio già verificatosi.

Danno da diffamazione

Cass. civ., sent. n. 12522/2016

In tema di diritto di critica, il requisito della continenza si atteggia non solo come correttezza formale delle espressioni adoperate ma anche come corretta manifestazione delle proprie opinioni, sicché l'aggressione all'altrui reputazione non scriminata dal diritto di critica, e perciò fonte di responsabilità, si riscontra, pur in assenza di espressioni in sé offensive, anche in caso di accostamento allusivo di fatti ed opinioni tale da non consentire di distinguere gli uni dalle altre e da alterare la portata ed il significato dei primi al fine di corroborare surrettiziamente le seconde.

Danno da vacanza rovinata

Cass. civ., sent. n. 12143/2016

L'acquirente di biglietto aereo che chieda la condanna dell'agente di viaggi al risarcimento del danno non patrimoniale da "vacanza rovinata" ha l'onere di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l'esistenza e l'entità del pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.

Cass. civ., sent. n. 14662/2015

In una fattispecie in cui l'attore era giunto a destinazione con sei ore di ritardo, la Cassazione ha statuito che, il conseguente danno non patrimoniale richiede la verifica della gravità della lesione e della serietà del pregiudizio patito dall'istante, al fine di accertarne la compatibilità col principio di tolleranza delle lesioni minime (precipitato, a propria volta, del dovere di solidarietà sociale previsto dall'art. 2 Cost.), e si traduce in un'operazione di bilanciamento demandata al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale, dalla constatazione della violazione della norma di legge che contempla il diritto oggetto di lesione, attribuisce rilievo solo a quelle condotte che offendono in modo sensibile la portata effettiva dello stesso.

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