Estraneità alla gestione societaria e presunzione di distribuzione degli utili extracontabili

05 Aprile 2016

In tema di accertamento delle imposte sui redditi la Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 1932/2016, ha affermato come la dimostrazione da parte del socio della estraneità alla gestione societaria consenta di superare la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili accertati in capo alla società a ristretta base azionaria.
Massima

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, il principio rinvenibile nell'art. 39 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo il quale, nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, non postula necessariamente l'esistenza, tra i soci, di rapporti di parentela o coniugio, in quanto deriva dalla regola di comune esperienza secondo la quale dalla ristrettezza della base sociale discende un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi. È, pertanto, legittima, fino a prova contraria, la presunzione che detti soci, anche quando non siano legati da rapporti di parentela o coniugio, siano edotti degli affari sociali e consapevoli dell'esistenza di utili extrabilancio e se li distribuiscano in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al capitale.

Il caso

L'Agenzia delle Entrate ricorreva per Cassazione avverso una sentenza della CTR Puglia che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva annullato un avviso di accertamento Irpef emesso a carico di un contribuente nei cui confronti l'Ufficio aveva applicato la presunzione di distribuzione degli utili extrabilancio già accertati in capo ad una s.r.l. a ristretta base azionaria.

Secondo i giudici di appello il contribuente aveva vinto la predetta presunzione dimostrando la propria estraneità alla gestione societaria.

Con l'unico motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate denunciava la violazione dell'art. 39, D.P.R. n. 600/1963 e art. 2697 c.c., in quanto la CTR aveva disatteso il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui nelle società di capitali a ristretta base partecipativa, si presume, fino a prova contraria, che gli utili extracontabili vengano distribuiti tra i soci. In particolare la parte pubblica contestava la qualità della prova fornita, dovendo la stessa consistere non nella dimostrazione della estraneità alla gestione societaria, come erroneamente avallato dai giudici di merito, bensì nella destinazione degli utili diversa dalla distribuzione tra i soci (come ad esempio il reinvestimento nella società).

I giudici di legittimità, nel rigettare il ricorso, hanno innanzitutto ricordato l'esistenza della presunzione per cui la distribuzione degli utili extracontabili in capo ai soci di piccole società di capitali, prescinde dall'esistenza di un rapporto di parentela o di coniugio tra gli stessi, derivando da una regola di comune esperienza secondo cui la ristrettezza della base societaria è sintomo (salvo prova contraria da fornirsi ad opera del contribuente) di “un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi” (cfr. Cass. civ. n. 19680/2012 e n. 24572/2014).

Nel caso di specie la sentenza impugnata si era attenuta a tali principi in quanto aveva accertato l'estraneità del contribuente alla gestione e conduzione societaria, desumendo da tale dato l'impossibilità di applicare la suindicata massima di comune esperienza, basata sulla consapevolezza dell'esistenza di utili extrabilancio e della relativa distribuzione tra i soci.

La questione

La questione fondamentale che emerge dalla pronuncia in commento riguarda la presunzione di distribuzione tra i soci degli utili extracontabili accertati in capo alla società di capitali a ristretta base partecipativa e sul contenuto della relativa prova contraria.

Le soluzioni giuridiche

In materia di società a ristretta base azionaria, la Cassazione ha affermato che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria ovvero a base familiare, pur non sussistendo a differenza di una società di persone – una presunzione legale di distribuzione degli utili ai soci, non può considerarsi illogica – tenuto conto della complicità che normalmente avvince un gruppo così composto – la presunzione (semplice) di distribuzione degli utili extracontabili ai soci” (Corte di cassazione, 29 gennaio 2008, n. 1906).

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, nella fattispecie in esame “la prova della distribuzione, o no, degli utili … non potendo essere tratta dai criteri della normalità della gestione sociale (proprio perché l'utile occulto è un indice della situazione di anormalità della gestione rispetto agli esatti criteri determinati dalla legge), può ben darsi, nei casi indicati, mediante elementi presuntivi. Ne consegue, quindi, l'ammissibilità della prova presuntiva della distribuzione di utili sociali extrabilancio, secondo l'insegnamento di questa Corte … restando a carico dei soci, soprattutto se amministratori, la prova della destinazione di detti utili a finalità diversa dalla distribuzione” (Corte di cassazione, 7 ottobre 1992, n. 10941).

In altri termini, la ristretta compagine sociale fonda già da sé la presunzione semplice della distribuzione di utili non contabilizzati, salva la prova contraria a carico dello stesso socio. E ciò in quanto lo scarso numero dei soci “si converte nel dato qualitativo della maggiore conoscibilità degli affari societari e nell'onere per il socio di conoscere tali affari; il socio può però fornire la prova dei fatti impeditivi dell'attribuibilità...” (ex multis, tra le pronunce più recenti, Cass. civ. n. 8473/2014, n. 18032/2013 ecc.).

Sotto il profilo dell'onere probatorio la Corte di cassazione ha inoltre affermato la necessità che il contribuente, per vincere la presunzione, provi che gli utili che si presumono distribuiti siano stati in realtà reinvestiti o accantonati, non risultando sufficiente “la mera deduzione del profilo per cui l'esercizio sociale ufficiale si fosse concluso eventualmente con perdite contabili” (tra le tante, Corte di cassazione, 9 luglio 2010, n. 16234, 17 aprile 2009, n. 9130 e 16 marzo 2007, n. 6197).

Ne discende che, in assenza di documentazione contabile e di una valida delibera assembleare, la distribuzione dei maggiori utili accertati in capo ai soci “deve presumersi avvenuta nello stesso periodo d'imposta in cui gli utili sono stati conseguiti” (per tutte, Corte di cassazione, 9 giugno 2009, n. 13223).

Sul punto va ricordato anche l'orientamento minoritario espresso dalla pronuncia della CTP di Reggio Emilia n. 186/3/14 dello scorso 22 aprile secondo cui la ristretta base azionaria non può essere considerata ex se una presunzione grave, precisa e concordante, essendo necessario il supporto di altri elementi indiziari, quali le movimentazioni finanziarie o altri documenti di pertinenza della società o dei soci (sul punto si veda anche Cass. n. 20806 del 2013 e n. 14046 del 2009) che dimostrino la distribuzione effettiva degli utili accertati a carico della società.

In particolare, secondo la pronuncia del 2013, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva qui si aggiunge la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non risultando tuttavia a tal fine sufficiente nè la mera deduzione che l'esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili, nè il definitivo accertamento di una perdita contabile, circostanza che non esclude che i ricavi contabilizzati, non risultando nè accantonati nè investiti, siano stati distribuiti ai soci.

In alcune circostanze il maggior imponibile recuperato a tassazione dall'amministrazione finanziaria può essere rappresentato sia da ricavi considerati evasi dalla società e sia da costi ritenuti indeducibili. Nell'emettere l'avviso nei confronti dei soci, l'ufficio non esclude la ripresa fondata sull'indeducibilità di alcuni costi ma considera il rilievo nel suo complesso. L'accertamento sul socio per dividendi non dichiarati comprende così anche somme che non possono essere state incassate. In realtà, però, non si può evitare di sottolineare un aspetto rilevante: un costo sostenuto dalla società – anche se ritenuto fiscalmente indeducibile – rappresenta pur sempre un esborso di denaro e quindi tali somme mai potrebbero essere distribuite tra i soci perché già destinate al soggetto fornitore del bene o del servizio.

Sul punto, a tutela dei contribuenti si può sostenere che la presunzione di distribuzione trovi applicazione solo se il maggior reddito accertato derivi dalla contestazione di costi non sostenuti effettivamente e non anche quando il costo sia solo ritenuto indeducibile. Gli uffici, invece, ritengono legittima l'imputazione ai soci anche dei costi indeducibili anche sulla scorta di due pronunce di legittimità (la 17959 e 17960/2012), secondo le quali «i costi costituiscono un elemento importante ai fini della determinazione del reddito d'impresa, sicché, allorquando essi siano fittizi o indeducibili, scatta la presunzione che il medesimo è maggiore di quanto dichiarato, con la conseguenza che non si può riscontrare alcuna differenza tra la percezione di maggiori ricavi e l'indeducibilità o inesistenza di costi».

Il principio può essere valido in presenza di costi inesistenti: in tale ipotesi è plausibile ritenere che il costo fittizio sia stato imputato per nascondere maggiori redditi. Quando invece il costo è realmente sostenuto, le somme pagate a terzi è inverosimile che costituiscano utili per il socio. A tal proposito, la sentenza n. 574/2010 della CTR Lazio ha ritenuto che la presunzione di distribuzione può essere legittima qualora sia fondata sull'esistenza di ricavi non contabilizzati e/o costi inesistenti, in quanto sono le uniche ipotesi in cui è «logicamente presumibile» ritenere che i soci abbiano incassato somme in nero. In senso conforme a tale arresto si segnala anche la sentenza n. 20721/2010 con cui la Cassazione ha stabilito che essendo l'utile il risultato del conto economico, si influisce direttamente sulla misura dell'utile e cioè sul reddito tassabile in capo alla società. Conseguentemente, l'indeducibilità di un costo, perché relativo a un'operazione inesistente, “viene a modificare il risultato del conto economico e dunque si ottiene un maggior utile, che costituisce reddito d'impresa tassabile”. In sintesi, “i costi non riconosciuti si convertono automaticamente in ricavi”.

In merito alla violazione del divieto della doppia presunzione, la Corte di cassazione ha da tempo escluso che la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili violi il divieto di presunzione di secondo grado. Ciò in quanto il fatto noto da cui discende la presunzione semplice della distribuzione degli utili sociali ai soci è costituito dal dato oggettivo della ristretta compagine sociale e non dall'accertamento – sia esso condotto con metodo analitico o induttivo – dei maggiori utili sociali che, al contrario, ne costituisce solo il presupposto logico. Più specificamente, la Corte di cassazione ha ritenuto che in dette fattispecie “il fatto noto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale” (cfr. ex plurimis, Cass. civ., n. 7418/2011, n. 26428/2010, n. 25337 e 25338/2010 ecc.).

Quanto al rapporto tra accertamento dei maggiori utili in capo alla società e accertamento dei redditi contestati ai soci, la Corte di cassazione, pur escludendo che il primo costituisca il fatto noto su cui fondare la presunzione semplice di cui all'art. 38, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973, ha ritenuto che “affinché tale presunzione possa operare occorre, pur sempre, sia che la ristretta base sociale e/o familiare – cioè il fatto noto alla base della presunzione – abbia formato oggetto di specifico accertamento probatorio … - sia che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine (nel casodi specie) ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l‟accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi” (cfr. Cass. civ., 31 marzo 2011, n. 7418).

In evidenza: Cass. civ., 17 aprile 2009, n. 9130, id. 15 maggio 2003, n. 7564, 22 aprile 2009, n. 9519, 16 maggio 2002, n. 7174

Circa la nozione di “valido accertamento”, si sottolinea che secondo la S.C. la stessa non presuppone la definitività dell'atto: si veda, per tutte, la sentenza 31 marzo 2011, n. 7335 nella quale si legge che “l'avviso di accertamento deve intendersi sufficientemente motivato e, quindi, valido se è idoneo a rendere noti al contribuente i termini della questione ed a delimitare il thema decidendum in una eventuale controversia... poiché l'effettiva e compiuta prova della pretesa fiscale si deve compiere in giudizio”.

Infine, sempre in relazione ai rapporti tra società a ristretta base e relativi soci, la giurisprudenza consolidata non ammette la possibilità che il condono proposto dalla società abbia effetto anche sulla posizione fiscale dei soci.

Si ricorda, a tal proposito, l'ordinanza n. 10270/2011 con cui la Suprema Corte ha ribadito il principio per cui, nelle società di capitali a ristretta base azionaria, la presunzione di attribuzione pro-quota ai soci degli utili extra bilancio prodotti dalla società “non viene meno in ipotesi di presentazione di domanda integrativa di condono da parte della società, essendo questa ed il socio titolari di posizioni fiscali distinte e indipendenti”.

La Corte di cassazione, del resto, aveva già evidenziato, con la sentenza 28 maggio 2001, n. 7218, come l'efficacia della dichiarazione integrativa presentata dalla società ai sensi dell'articolo 57, Legge 30 dicembre 1991, n. 413, per la definizione dei rapporti giuridici pendenti debba intendersi limitata alla sola società e non possa essere estesa ai soci. Secondo la Suprema Corte “La differente soggettività giuridica e la diversità del presupposto e della base impositiva dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche e di quella gravante sui dividendi non comportano, infatti, una unitarietà dei relativi accertamenti tributari …”.

Come logica conseguenza della diversa soggettività giuridica attribuita alla società di capitali e ai soci, i giudici di legittimità hanno escluso “l'ipotizzabilità di un automatico ed immediato riferimento ai soci delle rettifiche che alla dichiarazione presentata da una società di capitali possano avere apportato l'ufficio finanziario o la contribuente stessa” anche “nel caso in cui le variazioni (…) possano legittimare (…) la presunzione di una attribuzione ai soci di accertati utili extrabilancio” (cfr.

Cass. civ., n. 20851/2005

).

A differenza del trattamento fiscale riservato ai redditi delle società di persone che porta ad escludere in capo alle stesse la soggettività tributaria, nel caso di società di capitali, il sistema prevede a regime una doppia soggettività e quindi un'autonoma tassazione che si realizza sia in capo alla società sia in capo ai soci.

È evidente pertanto come la soggettività tributaria dei soci percettori di dividendi, autonoma rispetto a quella delle società di capitali, non consenta di attribuire effetti automatici alla definizione fatta valere dalla società.

Si conclude quindi che, nel caso si società di capitali a ristretta base azionaria, non esiste alcun rapporto di pregiudizialità/dipendenza tra l'accertamento a carico della società e quello a carico del socio: di conseguenza è legittimo l'avviso di accertamento emesso nei confronti del socio (in conseguenza della presunzione di distribuzione degli utili occulti), quand'anche la società abbia aderito al condono “tombale”, i cui effetti preclusivi non si estendono ai soci, titolari di una posizione fiscale autonoma.

Lo ha stabilito ultimamente anche la sentenza della Cassazione n. 386/2016.

Osservazioni

L'importanza della pronuncia in commento sta non tanto nell'aver ribadito principi ormai consolidati in materia di società a ristretta base azionaria ma soprattutto nell'aver precisato i confini della prova contraria che i contribuenti raggiunti da accertamento sono chiamati a fornire per superare la presunzione. Gli stessi, infatti, possono alternativamente dimostrare l'estraneità alla gestione societaria o comunque la mancata distribuzione degli utili accertati (ad esempio perché reinvestiti nella società).

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