Contro l'agente della riscossione il litisconsorzio facoltativo è soggetto a termine perentorio

Mauro Tortorelli
26 Ottobre 2015

L'esercizio della facoltà di chiamare in causa il terzo deve avvenire entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione del ricorso introduttivo del processo; l'eventuale ritardo ne comporta la decadenza.
Massima

L'esercizio della facoltà di instare per la chiamata in causa del terzo deve avvenire, ad opera della parte resistente, nel termine di sessanta giorni dalla ricezione del ricorso introduttivo del processo, come previsto dall'art. 23, D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Il ritardo ne comporta la decadenza, senza tuttavia comportare l'ulteriore pregiudizio del mancato riconoscimento del diritto alla contestazione dei fatti costitutivi della pretesa della parte attrice in senso formale, di contestare l'applicabilità delle norme di diritto invocate dalla controparte e di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32, D. Lgs. n. 546/92.

Il caso

Avverso la pretesa portata dalla cartella di pagamento, il contribuente produceva ricorso alla competente CTP eccependo il vizio di notifica della cartella, imputabile all'agente della riscossione, e vizi propri del ruolo incorporato nella cartella medesima, imputabili all'ente impositore. Il ricorso veniva notificato all'Agente della riscossione che chiamava in causa l'Agenzia delle Entrate, quale litisconsorte facoltativo. La costituzione in giudizio dell'Agente della riscossione avveniva oltre il termine di sessanta giorni previsto dall'art. 23 del D. Lgs. n. 546/1992.

Seguiva, infine, ai sensi dell'art. 14 del D. Lgs. n. 546/92, la costituzione in giudizio della Agenzia delle Entrate che contestava i motivi di illegittimità del ruolo sollevati dalla parte ricorrente.

La questione

In relazione ai rapporti tra Agente della riscossione e Agenzia delle Entrate, la chiamata in causa del terzo è disciplinata dall'art. 39, D. Lgs. 13 aprile 1999, n. 112, secondo cui “il concessionario, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, deve chiamare in causa l'ente creditore interessato, in mancanza, risponde delle conseguenze della lite”.

La chiamata in causa si attua con la richiesta specifica rivolta al giudice tributario presso cui è incardinata la causa che, dopo aver accertato l'esistenza di una comunanza della causa al terzo cui si chiede l'ingresso e l'opportunità della chiamata stessa, dispone con ordinanza il rinvio della trattazione della causa assegnando un termine alla parte per consentire gli adempimenti necessari.

Le soluzioni giuridiche

La disciplinata dei rapporti tra l'Agente della riscossione, incaricato dell'attività di riscossione, e l'ente impositore, titolare del credito, di cui al predetto art. 39, è stata oggetto di un intervento della Corte di cassazione, nella sua massima composizione, di rilievo assoluto perché chiarificatore di principi vincolanti nell'ordinamento giuridico, a norma dell'art. 374 c.p.c.

In particolare, i Massimi Giudici hanno statuito che nel caso in cui l'impugnazione riguardi un atto proveniente dall'Agente della riscossione, ma che abbia ad oggetto anche violazioni imputabili all'ente titolare del diritto di credito: "l'aver il contribuente individuato nell'uno o nell'altro il legittimato passivo nei cui confronti dirigere la propria impugnazione non determina l'inammissibilità della domanda, ma può comportare la chiamata in causa dell'ente creditore nell'ipotesi di azione svolta avverso il concessionario, onere che, tuttavia, grava su quest'ultimo, senza che il giudice adito debba ordinare l'integrazione del contraddittorio … concessionario il quale, se fatto destinatario dell'impugnazione, dovrà chiamare in giudizio il predetto ente, se non vuole rispondere dell'esito della lite, … l'enunciato principio di responsabilità esclude, come già detto, che il giudice debba ordinare ex officio l'integrazione del contraddittorio, in quanto non sussiste tra ente creditore e concessionario una fattispecie di litisconsorzio necessario, anche in ragione dell'estraneità del contribuente al rapporto (di responsabilità) tra l'esattore e l'ente impositore. … L'azione può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell'ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l'ente creditore”. (cfr. Cass., sez. un. 25 luglio 2007, n. 16412; Cass.sez. VI-T 14 aprile 2014, n. 8701; Cass.29 maggio 2013, n. 13311; Cass.18 dicembre 2013, n. 28298).

Ciò premesso, sulla base del diritto positivo e dei fermi giurisprudenziali di legittimità deve concludersi che è onere esclusivo dell'Agente della riscossione, avendone interesse, quello di costituirsi in giudizio ed instare per la chiamata di terzi in causa, ex art. 23, comma 3, D. Lgs. n. 546/1992, al fine di essere autorizzato dal giudice all'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'Agenzia delle Entrate, così come previsto dall'art. 39, D. Lgs. n. 112/99 (cfr. Cass. civ., sez. un., 25 luglio 2015, n. 16412).

A tale proposito, nel processo tributario la chiamata in causa del terzo è regolata dall'art. 23, D. Lgs. n. 546/92, sul quale si sono formati principi di diritto oramai consolidati nella giurisprudenza di legittimità.

In tale ambito, in primo luogo rileva la circostanza che l'Agente della riscossione, parte resistente, non ha il potere di chiamata diretta del litisconsorte facoltativo perché gravato dell'onere di preventiva richiesta al giudice di autorizzazione alla chiamata. Solo a seguito di verifica positiva, da parte del giudice, dei presupposti di legge, ovverosia comunanza della causa con il terzo e opportunità della chiamata stessa, l'Agente della riscossione avrebbe la facoltà, posto che nessun obbligo sussisterebbe comunque in tal senso, di chiamare in causa l'ente titolare del credito.

In secondo luogo, rileva il termine di decadenza della richiesta al giudice. A tale proposito, in via generale, a causa della sua natura ordinatoria, il termine previsto dall'art. 23, D. Lgs. n. 546/92, come più volte interpretato dai Giudici di legittimità, non impone alla parte resistente l'obbligo della tempestiva costituzione in giudizio. Nondimeno, la costituzione in giudizio della parte resistente oltre i sessanta giorni dalla notifica del ricorso non è improduttiva di effetti giuridici. La tardiva, seppur valida, costituzione in giudizio comporta, infatti, la preclusione di alcune attività processuali tra cui, per quanto qui rileva, quella di instare per la chiamata in causa di terzi. In tal senso, invero, la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che “in tema di contenzioso tributario la costituzione in giudizio della parte resistente deve avvenire, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, entro sessanta giorni dalla notifica del ricorso, a pena di decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi”. (cfr. Cass. civ. 10 giugno 2009, n. 13331, nonché Cass. civ. 2 aprile 2015, n. 6734; Cass. civ.n. 24457/2008; Cass. civ. n. 2008/8039; Cass. n. 21059/2007; Cass.n. 6381/2006).

Sotto tale profilo, del resto, la stessa Agenzia delle Entrate ha esortato le sedi periferiche a instare per la chiamata in causa del terzo (o a produrre la richiesta di integrazione del contraddittorio che produce lo stesso effetto della chiamata in causa) con l'atto di controdeduzioni da produrre entro il termine di sessanta giorni dalla notifica del ricorso (cfr. Agenzia delle Entrate, Circolare 17 luglio 2008, n. 51; Agenzia delle Entrate, Circolare 12 aprile 2012, n. 12).

Conseguenza dell'intempestivo adempimento processuale è l'illegittimità dell'eventuale successivo ingresso nel processo dell'Agenzia delle Entrate chiamata in causa. Cui consegue, ulteriormente, l'estromissione dal giudizio e lo stralcio della documentazione prodotta a supporto della legittimità e della fondatezza nel merito del credito erariale.

In conclusione, l'Agente della riscossione che non voglia incorrere in decadenze e/o preclusioni processuali pregiudizievoli per la propria difesa, ricevuto il ricorso, deve provvedere alla costituzione in giudizio nel termine di sessanta giorni previsti dall'art. 23.

Osservazioni

Alla luce di tali principi di diritto, consolidatisi nella giurisprudenza di legittimità, la decisione assunta dai giudici foggiani nella sentenza in commento appare condivisibile, seppure necessiti di una precisazione.

Nel processo tributario, per la parte costituitasi in giudizio oltre il termine di sessanta giorni, l'art. 23 non prevede l'espressa preclusione del potere di chiedere l'integrazione del contraddittorio con il litisconsorte facoltativo (sul principio di tassatività delle cause di nullità degli atti processuali, v. art. 156 c.p.c.). Deve osservarsi, tuttavia, che per quanto non previsto dalle norme del rito tributario, purché con esse compatibili, trovano applicazione le norme del codice di procedura civile (v. art. 1, comma 2, D. Lgs. n. 546/92). La dottrina ritiene, quindi, che vadano applicate le norme del processo tributario quando esse prevedono espressamente termini preclusivi dei poteri difensivi delle parti. Viceversa, laddove nel D. Lgs. n. 546/92 manchi una previsione espressa, trovano applicazione le disposizioni previste dal processo civile ordinario.

La preclusione di taluni poteri difensivi della parte resistente costituitasi oltre il termine di legge previsto dall'art. 23 rinviene, pertanto, dall'applicazione dell'art. 167, comma 2, c.p.c., sulla disciplina dell'esercizio di facoltà processuali, sul correlato termine di decadenza per la comparsa di risposta del convenuto e sulle conseguenze del suo inutile decorso.

Quanto alla compatibilità della previsione normativa dell'art. 167 c.p.c. con il sistema processuale tributario, deve rilevarsi che la parte resistente, operando oltre il termine di legge di sessanta giorni, al pari di quanto avverrebbe nel rito civile ordinario, finirebbe con il “ … compromettere il sistema delle preclusioni sul quale quel rito si fonda, ed in particolare la sua funzione di affidare alla fase degli atti introduttivi del giudizio la cristallizzazione dei temi controversi e delle relative istanze istruttorie" (così la fondamentale decisione pronunciata da Cass. civ., sez. un., 03 febbraio 1998, n. 1099; Cass civ. sez. lav., 28 novembre 2003, n. 18263; id. n. 13467/2003; id. n. 18194/2002; id. n. 11252/1999). Questi principi sono stati ripetutamente affermati anche da questa sezione, in particolare con la decisione pronunciata dalla Corte di Cassazione, sez. III, 22 giugno 2007, n. 14581, secondo cui … Ne consegue che è vietato al giudice porre alla base della propria decisione fatti che non rispondano ad una tempestiva allegazione delle parti, il che è quanto dire che il giudice non può basare la propria decisione su un fatto, ritenuto estintivo, modificativo o impeditivo, che non sia mai stato dedotto o allegato dalla parte: allegazione che deve ovviamente essere anche tempestiva, ovvero deve avvenire al massimo entro il termine ultimo entro il quale nel processo di primo grado si determina definitivamente il thema decidendum ed il thema probandum, ovvero entro il termine perentorio eventualmente fissato dal giudice ex art. 183 c.p.c..” (Cass. civ. sez. III, 14 marzo 2014, n. 5952).

Proseguendo nell'analisi, restando nell'ottica del processo tributario, da un lato, deve altresì rilevarsi che in caso di tardiva chiamata in causa dell'ente creditore e di soccombenza del contribuente, gli interessi di mora nel frattempo maturati graverebbero ingiustificatamente su quest'ultimo, rendendo più oneroso l'esercizio del diritto di difesa in danno alla norma costituzionale che ne garantisce il libero esercizio. Dall'altro lato, deve rilevarsi che la tardiva chiamata in causa del litisconsorte graverebbe sul sistema processuale, in termini di ragionevole durata del processo, perché verrebbe ingiustificatamente disatteso il principio sancito dall'art. 111 Cost. che impone la concentrazione del tempo della lite. Sotto tale profilo, in termini comparativi, è utile osservare che la giurisprudenza di legittimità, riferita all'art. 32 del D.Lgs. n. 546/92, ha affermato il principio di diritto secondo cui i documenti prodotti oltre i venti giorni liberi prima dell'udienza di merito non possono essere utilizzati dal giudice (anche se il termine previsto dall'art. 32 non è espressamente qualificato di decadenza, cfr. Cass. civ. 8 febbraio 2006, n. 2787; id. n. 26345/2006).

Altrettanto condivisile, infine, è la parte della sentenza in commento laddove nega la legittimità della “chiamata in garanzia” dell'Agenzia delle Entrate avallata dall'Agente della riscossione resistente del proprio atto di controdeduzione.

Premesso che l'istituto della “chiamata in garanzia” non trova alcuna disciplina nel D. Lgs. n. 546/92, esso è invece disciplinato dall'art. 106 c.p.c., rubricato “Intervento su istanza di parte”.

Ciò premesso, deve ritenersi, tuttavia, che tale forma di intervento non sia compatibile con il processo tributario. L'art. 106, citato, prevede, infatti, che “Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo … dal quale pretende essere garantita”. A tale riguardo, in primo luogo deve rilevarsi che in ambito tributario nessun titolo normativamente disciplinato dalla legge configura il soggetto terzo chiamato “in garanzia” (ente impositore) quale “garante” della parte evocata in giudizio (agente della riscossione).

Non solo, come già evidenziato, l'art. 39, D. Lgs. n. 112/99, è chiaro nel prevedere che “il concessionario, nelle liti promosse contro di lui … , deve chiamare in causa l'ente creditore interessato, in mancanza, risponde delle conseguenze della lite”.

In secondo luogo, deve rilevarsi che nel processo tributario l'intervento del “chiamato per garanzia” sarebbe inammissibile perché darebbe luogo all'introduzione di una controversia di natura privatistica, sottratta alla giurisdizione delle commissioni tributarie. Nella chiamata in garanzia, infatti, il garantito propone nei confronti del garante una domanda volta ad ottenere la condanna a tenerlo indenne dalla soccombenza nei confronti della controparte.

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