Il nuovo Codice doganale dell'Unione: orientamenti giurisprudenziali e principi codificati

31 Luglio 2017

I tributi doganali (ivi compresi i diritti di confine costituiti dai dazi,dai prelievi e dalle altre imposizioni all'importazione o all'esportazione previsti dai Regolamenti comunitari) sono regolati in Italia dalla normativa base contenuta nel d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (TULD) i cui istituti sono stati riordinati con revisione delle procedure di accertamento e di controllo dal D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374 in attuazione di una serie di direttive comunitarie intervenute in materia.
Premessa legislativa

Tra i diritti di confine rientra pacificamente anche l'IVA assolta sulle importazioni (dai Paesi terzi) prevista all'art. 70 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 la cui riscossione è riconosciuta in capo all'Ufficio doganale.

Esiste – infatti – diversità nel sistema impositivo tra IVA all'importazione ed IVA interna: l'una – quale imposta d'atto – viene accertata e riscossa all'atto dell'importazione con riversamento di quota parte alla Comunità, l'altra è versata ed auto liquidata dal contribuente sulla massa di operazioni attive e passive inserite nella dichiarazione periodica.

I diritti di confine gravano esclusivamente sulle merci provenienti dagli Stati extra UE in base ad una tariffa doganale unificata a livello europeo che assicura un trattamento impositivo uniforme con trasferimento del gettito direttamente alla Comunità, di essa costituendo «risorsa propria».

La Comunità europea (oggi UE) è una unione doganale«perfetta» perché – oltre a vietare i dazi e le tasse ad effetto equivalente all'interno del mercato unico adottando una «tariffa comune» verso i Paesi terzi –consente la libera circolazione ai prodotti extracomunitari (immessi in c.d. «liberapratica»), applicando una regolamentazione unitaria (Codice doganale) soggetta a interpretazione uniforme tramite intervento della Corte di giustizia su rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE, e destinando le entrate ricavate al bilancio comunitario.

In evidenza

(L'Unione doganale si diversifica dalla «zona di libero scambio» che liberalizza solo gli scambi interni. Tale è la SEE (Spazio e conomico europeo) istituita il 10 gennaio 1994 in virtù dell'accordo stipulato tra UE ed EFTA (European FreeTrade Association) i cui paesi (oggi limitati a Norvegia, Islanda e Liechtestein con esclusione della Svizzera) partecipano alle quattro libertà fondamentali (libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali) senza essere membri dell'Unione).

(4) La presunzione di immissione al consumo della merce non viene meno in ipotesi di sottrazione di disponibilità della stessa per furto o per rapina ovvero per altri motivi illeciti (falso commesso da funzionari infedeli) che non fa venir meno la obbligazione doganale (Cass. civ. n. 1940/1989 e 9935/1993).

Il giudice tributario è dunque chiamato ad applicare – nel quadro delle disposizioni generali in materia doganale – oltre alla regolamentazione nazionale – anche quella comunitaria oggi unionale.

Questi gli atti via via succedutisi:

Regolamento CEE n. 2913/1992 del 12 ottobre 1992 istitutivo del «Codice doganale comunitario» (CDC);

la nuova versione di cui al Regolamento CEE 2700/2000 del 16 novembre 2000 nonché il Regolamento CEE n. 2454 del 2 luglio 1993 che contiene le pertinenti norme di attuazione (DAC).

La “modernizzazione” del CDC è stata affidata al Reg. 450/2008 del 23 aprile 2008, già destinato ad entrare in vigore non oltre il 24 giugno 2013, e rifuso, prima della sua scadenza prorogata, nel Reg. 952/2013 del 9 ottobre 2013 istitutivo del Codice Doganale dell'Unione (c.d “Codice di rifusione”).

Molte delle nuove regole sono entrate i vigore dal 1° maggio 2016 ma e' previsto un periodo transitorio di reassesment sino al 1° maggio 2019.

Il pacchetto si completa con il Regolamento delegato n. 2446/2015 del 28 luglio 2015 e con il Regolamento di esecuzione 2447/2015 del 24 novembre 2015 che si occupano delle modalità attuative ed applicative del CDU specificandone le disposizioni; il Regolamento delegato transitorio 341/2016 stabilisce invece le misure transitorie fino a quando non siano resi operativi i sistemi elettronici di scambio ed archiviazione dati.

Il CDU ha infatti affidato alla Commissione il potere di adottare gli atti delegati per singole tematiche in tempi prestabiliti (art. 284).

Il CDU sul piano tecnico operativo è rivolto a “semplificare” e “razionalizzare” il sistema doganale riducendo i tempi di sdoganamento attraverso meccanismi di digitalizzazione e di accentramento ma contiene anche formulazione di principi giuridici fondamentali derivati dall'evoluzione giurisprudenziale europea e quindi recepiti anche dal nostro ordinamento.

Vediamone i passaggi più significativi.

La codificazione del contradditorio

Premesso che qualsiasi atto dell'autorità doganale che delibera su un caso particolare e produce effetti giuridici sul destinatario è qualificabile come “decisione” (immediatamente applicabile) l'art. 225 del CDU stabilisce che prima di adottare una decisione sfavorevole (che - deve essere motivata e menzionare il diritto al ricorso ex art. 22.7) l'autorità doganale deve comunicarne le ragioni all'interessato perchè possa esprimere il proprio punto di vista entro un certo termine trascorso il quale gli può essere notificata la decisione assunta.

Il termine di risposta è fissato – salvo casi particolari – in 30 giorni in base al Reg. delegato 2446/2015 (artt. 8/9/10) mentre la procedura che regola il diritto ad essere sentiti è dettagliata nel Reg. di esecuzione 2447/2015 (artt. 8/9) a codificazione del principio del contradditorio c.d. endoprocedimentale trova fonte nella sentenza resa dalla Corte di Giustizia nel caso Sopropè (Corte di Giustizia, 18 dicembre 2008 C 349/07) la quale ha statuito che, prima di procedere al recupero “a posteriori” dei dazi doganali all'importazione, occorreva concedere sempre un congruo “termine” all'importatore sospettato di aver commesso l'infrazione affinchè fosse messo in grado di presentare osservazioni fornendo il proprio punto di vista affinchè fosse “effettivamente” esaminato dall'Autorità amministrativa.

Questa regola di matrice euro unitaria ha trovato ingresso anche nel nostro ordinamento.

Da tempo infatti la Corte di Cassazione –nell'affrontare il tema delle ingiunzioni doganali emesse per il recupero dei dazi evasi senza la preventiva audizione dell'importatore – aveva valorizzato il principio del contradditorio (anche) nella fase amministrativa dichiarando illegittime le ingiunzioni emesse sino a quel momento senza tale preventivo adempimento ritenuto “estrinsecazione” del diritto di difesa e principio generale dell'ordinamento comunitario che doveva trovare applicazione ogni qual volta l'Amministrazione si proponesse di adottare nei confronti di un soggetto un atto per lui lesivo, pena la nullità insanabile dell'atto medesimo (Cass. civ., n. 14105/2010).

Per la verità nelle procedure di contabilizzazionea posteriori concludenti il processo di revisione daziaria con emissione di avviso di rettifica e suppletivo, un interpello intermedio era già previsto dalla normativa doganale ma solo in via “facoltativa” rientrando nella discrezione dell'Ufficio attivare o meno la consultazione del contribuente (art. 11 D.Lgs. n. 374/1990, comma 2).

Va precisato che l'istituto della revisione dell'accertamento è lo strumento che consente di intervenire a posteriori sulla dichiarazione doganale e – quindi – successivamente allo svincolo delle merci, con adozione dei provvedimenti necessari alla regolarizzazione della dichiarazione stessa sulla base di nuovi elementi o di quelli non correttamente valutati ex ante.

La revisione dell'accertamento costituisce, pertanto, il mezzo attraverso il quale l'Amministrazione doganale di propria iniziativa o su istanza di parte, procede al “riesame” del procedimento di accertamento già concluso (resosi cioè “definitivo” con l'accettazione della dichiarazione previa verifica documentale e/o visita delle merci quando non basti la semplice registrazione) ponendovi rimedio allorche'contenga elementi inesatti ed incompleti.

Ora una risalente giurisprudenza riteneva indispensabile l'audizione dell'operatore solo nei casi in cui la nuova liquidazione fosse stata determinata da un diversa qualificazione delle merci importate in relazione alla loro intrinseca natura (questioni di fatto) e non invece quando la stessa originasse da una diversa qualificazione tariffaria o da un diverso regime daziario (questioni di diritto) (Cass. civ., n. 4892/1994) od ancora al cospetto di fatti penalmente rilevanti come il contrabbando (Cass. civ., n. 19540/2009).

Il consolidamento della regola del contradditorio anticipato non poteva peraltro non espandere i suoi effetti obbligatori anche su codeste procedure ancorchè l'Agenzia delle dogane ritenesse - inizialmente - che il “meccanismo partecipativo” doveva trovare applicazione solo nei procedimenti di revisione che imponevano una effettiva “ingerenza” nella sfera privata del contribuente tramite attività esterne (accessi, ispezioni, verifiche presso i locali dell'impresa secondo il complesso iter istruttorio disciplinato dall'art. 54 del d.P.R. n. 633/1972) ma non nel caso di attività interne di “ufficio” basate su informazioni già in possesso dei verificatori (c.d verifiche “a tavolino”) che rendevano superfluo assicurare “obbligatoriamente” un intervallo temporale intermedio per raccogliere le osservazioni dal destinatario.

L'esposizione ex post delle ragioni del contribuente veniva comunque considerata – in prosieguo – soluzione insoddisfacente a garantire il diritto al contradditorio "pieno ed incondizionato" specie a fronte del mutato quadro interpretativo secondo il quale il destinatario di una decisione a lui lesiva doveva essere messo in grado di far valere sempre il proprio punto di vista prima e non dopo l'adozione di tale decisione, non bastando ad assicurare un'adeguata partecipazione dell'operatore finalizzata ad una istruttoria “completa ed efficiente” la mera ”facoltà” offertagli – come si è detto – dall'art. 11 del D.Lgs. n. 574/1990 di contestare nella fase pre-giurisdizionale il provvedimento emesso.

Tanto alla fine induceva l'Agenzia delle Dogane ad estendere la garanzia partecipativa anche ai casi di revisione dell'accertamento su base”documentale”conattivita' integralmente posta in essere in ufficio (Nota 8 aprile 2011 n. 34631), tenuto soprattutto conto della annunciata entrata in vigore del CDC “aggiornato” (Reg. n. 450/2008) (poi sostituito dal CDU) espressamente stabilente – come si è visto – un'obbligo generale di “audizione” dell'interessato entro un dato termine per rispondere sulle motivazioni dell'adottando provvedimento prima di assumere qualsiasi decisioni a lui sfavorevole.

Il Decreto Liberalizzazioni istituiva dunque in via definitiva (con l'inserimento del comma 4-bis nell'art.11 del D.Lgs. n. 374/1990) (art. 92 D.L. n. 1/2012 convertito in L. n. 27/2012) il contradditorio preventivo con l'Agenzia delle Dogane entro 30 gg dalla consegna del pvc (termine dimezzato rispetto a quello di 60 gg previsto dallo Statuto dei diritti del contribuente ma da ritenersi congruo, visto che la sentenza Soprope' lo indicava tre gli 8 ed 15 gg ed i destinatari sono comunque imprese dotate di alta professionalità): tanto nella duplice ipotesi sia di revisioni d'ufficio sia di accessi, verifiche ed ispezioni.

Altrettanto non era invece contemplato per gli altri accertamenti fiscali dove l'art. 12 comma 7 dello Statuto prevede l'instaurazione del contradditorio solo dopo il rilascio del pvc ma non nelle ipotesi di controllo d'ufficio “a tavolino” per cui la questione circa la immanenza di un obbligo “generalizzato” di interpello preventivo veniva rimessa alle Sezioni Unite (Cass. civ., ord. n. 527/2014).

La Suprema Corte rispondendo negativamente al quesito – stabiliva come l'obbligo di attivare il contradditorio endoprocedimentale sussistesse solo con riferimento ai tributi “armonizzati” per i quali operava la diretta applicazione del diritto dell'Unione (la materia doganale e delle accise, appunto, dove l'istituto – come si è detto – era già stato normativamente codificato nella sua massima ampiezza) ma non allo stato della legislazione nazionale al di fuori dei casi espressamente previsti (Cass. civ., n. 24823/2015).

Veniva comunque sollevata questione di legittimità costituzionale della norma statutaria per disparità di trattamento rispetto ai contribuenti destinatari di accertamenti a tavolino e privati del diritto di evidenziare le propri ragioni in violazione dell'art. 24 Cost. (CTR Toscana n. 736/1/2015).

La questione per come posta veniva peraltro dichiarata inammissibile (al pari di altre) dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 187/2017).

Procedimentalizzato – dunque il contradditorio senza limitazioni di sorta nel settore doganale, è stata al contempo abolita la controversia doganale per effetto del Decreto semplificazioni fiscali (con soppressione dell'art. 11, 7° co. della L. n. 374/1990) (art. 12 D.L. n. 16/2012 convertito in L. n. 44/2012), cioè il rimedio utilizzato, tra l'altro, per contestare in via amministrativa (prima che giudiziale) l'avviso di accertamento suppletivo e di rettifica emesso ex post in sede di revisione doganale.

In evidenza:

La fase amministrativa preliminare è comunque destinata a sopravvivere per le controversie fino a 20.000 euro (oggi 50.000 ex art. 10 D.L. n. 50/2017) vista l'estensione dell'istituto del reclamo/mediazione anche al comparto delle dogane e delle accise (art. 17-bis del D.Lgs. n. 546/1992 come riformulato dal D.lgs. n. 156/2015) con esclusione peraltro delle “risorse proprie” tradizionali dell'UE salvi gli atti irrogatori di sanzioni (Circ. Agenzia Dogane, 23 dicembre 2015 n. 21/D9).

La stessa esclusione (comprensiva anche degli aiuti di Stato) è prevista dall'art. 9 D.L. n. 50/2017 sulla definizione agevolata delle controversie tributarie anche se talune aperture della giurisprudenza europea potrebbero indurre a conclusioni opposte.

Significativo il precedente in settore contiguo secondo cui ,nonostante l'intangibilità del debito IVA quale risorsa propria dell'UE come tale non soggetta a procedura di esdebitazione ma al massimo a dilazione di pagamento (Corte Cost. n. 225/2014)la Corte di Giustizia (sent. 7 aprile 2016 C-546/14 Degano Trasporti) abbia da ultimo stabilito che nell'ambito di procedura concordataria è possibile prevedere un pagamento parziale dell'IVA purchè un esperto indipendente attesti il trattamento deteriore che subirebbe il credito in caso di fallimento.

Va altresì rimarcato come l'invalidità assoluta del provvedimento impositivo emesso senza consentire all'operatore di interagire, si estende anche quando non venga rispettato il termine di legge in tutta la sua estensione per esercitare tale diritto.

La giurisprudenza di legittimità dopo aver espresso sul punto varie (e contrastanti) opinioni si è alla fine pronunziata a Sezioni Unite (Cass. civ., nn. 18184/2013) stabilendo che tale termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contradditorio procedimentale e dunque, salva la ricorrenza di specifici motivi di urgenza, la sua inosservanza determina ex se la nullità dell'avviso di accertamento: sanzione questa ritenuta ragionevole dallo stessso giudice delle leggi quale strumento efficace ed adeguato di garanzia della effettività del contradditorio (Corte Cost. n. 132/2015).

La giurisprudenza europea ha peraltro puntualizzato che la nullità dell'atto impositivo non deve costituire una mera conseguenza automatica e formale, spettando comunque al contribuente dimostrare concretamente che se il contradditorio fosse stato tempestivamente attivato il procedimento avrebbe comportato un risultato diverso (Corte Giustizia sent. 3 luglio 2014 C-129/13 Kamino): principi questi ribaditi dalla giurisprudenza nazionale e dettagliati nel settore delle imposte “armonizzate” dove è stato chiarito che la rilevanza della violazione dell'obbligo resta ancorata all'assolvimento dell'onere di enunciare in giudizio le ragioni che si sarebbero potute far valere nella fase procedimentale atteggiantesi non a mero simulacro ma quale tramite necessitato per addurre a difesa elementi oppositivi non puramente fittizi o strumentali (Cass. civ., n. 24823/2015 cit.).

È stato inoltre precisato che il diritto di audizione preventiva (che è da intendersi violato anche quando sia consentito una fase di reclamo amministrativo) potrebbe ritenersi ovviato solo se la normativa nazionale consentisse al destinatario dell'intimazione di ottenere la sospensione ”automatica” della esecuzione fino alla eventuale riiforma (Corte Giustizia Kamino cit.).

La sospensione quale conseguenza normale dell'impugnazione per il contribuente che non sia stato ascoltato non è prevista nel nostro ordinamento per cui è stata rimessa alla Corte di Giustizia la questione interpretativa (tuttora pendente) se tale sistema non contrasti con il principio generale del contradditorio (Cass. civ., n. 9278/2016).

Il luogo di insorgenza della obbligazione doganale

Il CDU stabilisce (art. 87) che il luogo dove sorge la dichiarazione doganale è quello:

1) dove è presentata la dichiarazione, in mancanza

2) dove si è verificato il fatto che la fa sorgere, in mancanza

3) dove avviene la constatazione.

L'art. 101 del CDU stabilisce poi che le Autorità doganali competenti a determinare l'importo dei dazi dovuti sono quelle del luogo ove è sorta l'obbligazione doganale.

E l'orientamento della giurisprudenza di legittimità è sempre stato orientato in questosenso, nel ritenere cioè competente per territorio, nella revisione dell'accertamento divenuto definitivo, la dogana presso la quale è sorta l'obbligazione doganale, ovvero l'ufficio doganale dove si sono svolte le operazioni di importazione (sdoganamento); non invece la dogana del luogo ove ha sede l'impresa importatrice fatta oggetto di verifiche a posteriori.

La nascita dell'obbligazione doganale coincide – infatti – con la destinazione al consumo nel territorio comunitario (altrimenti detta “immissione in libera pratica”) a seguito dello svincolo della merce su dichiarazione dell'importatore (art. 36 TULD).

La Cassazione era così pervenuta alla conclusione che gli esiti di tali controlli andavano riversati sull'Ufficio presso il quale si erano perfezionate le dichiarazioni di importazione, unico interlocutore del contribuente per tutte le correlate incombenze pena – in caso contrario – la nullità dell'accertamento trattandosi di competenza inderogabile ratione loci (Cass. civ., n. 14786/2011).

Questa impostazione è stata peraltro ribaltata dal decreto semplificazioni fiscali cit. che ha inserito nell'art. 11 della L. n. 374/1990 (ivi comma 9) la disposizione secondo la quale l'Ufficio doganale che effettua le verifiche generali o parziali con accesso presso l'operatore è competente alla revisione delle dichiarazioni doganali oggetto del controllo anche se accertate presso un altro ufficio doganale.

Quindi se non sono state svolte verifiche in loco la competenza ad emettere l'avviso di rettifica è dell'Ufficio che ha accettato le dichiarazioni doganali; altrimenti, in presenza di accessi, la competenza è della Dogana che li ha effettuati, mentre in passato gli accertamenti in entrambi i casi spettavano esclusivamente all'Ufficio di importazione.

Occorrerà dunque verificare la compatibilità di tale disposizione “agevolatrice” per l'Ufficio con la ricordata normativa del CDU (e prassi giurisprudenziale).

Si è anche dibattuto se il novellato articolo avesse valenza innovativa ovvero interpretativa posto che solo nel primo caso gli avvisi in allora emessi da dogane incompetenti sarebbero rimasti affetti da nullità insanabile.

La Suprema Corte ha seguito questa opzione stabilendo che si è al cospetto di uno ius superveniens che non ha carattere interpretativo per cui è privo di efficacia sanante per le rettifiche emesse prima dell'entrata in vigore della legge, trattandosi di norma innovativa che disciplina per il futuro le regole di competenza (Cass. civ., n. 8699/2013).

Il tempo di insorgenza dell'obbligazione doganale: i regimi doganali

Va premesso che il sorgere del rapporto di imposta presuppone:

a) l'attraversamento della linea doganale (elemento fattuale);

b) la dichiarazione di destinazione al consumo della merce nel mercato interno (determinazione di volontà) che si perfeziona con l'accettazione dell'Ufficio.

Entra qui in gioco la disciplina dei regimi doganali, che è stata più di ogni altra oggetto di ridesignazione in senso semplificativo da parte del CDU sul rilievo che la lotta antifrode richiede procedure semplici, rapide ed uniformi.

Sono stati così accorpati i precedenti regimi in tre categorie:

  1. immissione in libera pratica (merci non unionali) art. 201 CDU;
  2. esportazione (merci unionali) art. 263 CDU;
  3. regimi speciali (transito, deposito, perfezionamento, zone franche etc.) art. 210 CDU

La immissione in libera pratica e l'esportazione sono regimi doganali definitivi perchè determinano il cambiamento della merce da unionale a non unionale e viceversa.

I regimi speciali non sono invece funzionali alla riscossione perchè determinano sospensione differimento o riduzione degli oneri doganali in corrispondenza di movimentazioni alla frontiera.

Si considera non avverato il presupposto impositivo al cospetto di operazioni di importazione e di esportazione solo temporanee che non comportano una destinazione finale al consumo nel nostro Paese ma solo l'assoggettamento della mercea determinate fasi di lavorazione, riparazione o trasformazione in vista del successivo rientro nel Paese di provenienza.

Queste operazioni godono sostanzialmente di un regime di «sospensione d'imposta» destinato a venir meno (sin dall'origine) solo sel'importazione o l'esportazione si tramuta in definitiva.

Il regime di sospensione presuppone dunque che la manipolazione del prodotto sia «usuale» o «perfezionativa» e che venga comunque assicurata l'«identità» della merce.

La manipolazione non deve incidere – invece – sulle «caratteristiche essenziali» così come individuate in tema di «origine della merce» (riferibile al luogo in cui è avvenuta la lavorazione «sostanziale» dalla quale è stato ottenuto il prodotto nuovo) perché nel sistema doganale unionista i regimi speciali o comunque agevolati comportano la necessità che le merci siano sempre mantenute nello «stato» in cui si trovavano all'origine.

Parimenti restano esenti da imposizione tutte quelle operazioni di mero passaggio delle merci nel territorio doganale (c.d. operazionidi «transito» distinte in operazioni di transito esterno riguardanti merci non unionali circolanti da un punto all'altro del territorio dell'UE ed operazioni di transito interno riguardanti merci unionali attraversanti anche paesi non facenti parte dell'UE).

Il sistema delle garanzie

La garanzia per l'importo portato dall'obbligazione doganale trova articolata disciplina negli artt. 89-100 CDU e si estende innovativamente anche ai debiti potenziali quali quelli suscettibili di emergere dai controlli a posteriori; può essere obbligatoria come facoltativa ed è estendibile a tutti regimi doganali.

I regimi doganali assistiti da garanzia consentono all'Amministrazione, a fronte dell'inadempimento dell'obbligato principale, l'escussione diretta del garante quale coobbligato solidale con il soggetto garantito e sono tipici dei depositi e dei regimi di transito.

L'atto costitutivo di garanzia di regola obbliga il garante ad effettuare il pagamento fino alla concorrenza dell'importo massimo garantito “a prima richiesta scritta” delle autorità competenti, sicché resta preclusa l'opponibilità di eccezioni attinenti le vicende del rapporto garantito e le sue modalità di gestione, salvo l'exceptio doli qualora la richiesta di esazione appaia prima facie frutto di comportamento abusivo e/o fraudolento del beneficiario con derivato pregiudizio per il garante, non solo economico, ma anche giuridico nel senso di determinare la perdita del suo diritto di surrogazione o regresso (Cass. civ., n. 19194/2006, che ha escluso il diritto alla liberatoria od allo svincolo fatto valere dal garante – avendo l'obbligato principale compiuto operazioni in esubero rispetto all'ammontare di garanzia per mancata osservanza dell'obbligo di vigilanza periodica della dogana sulle operazioni di transito – sul rilevo che non competeva alla dogana ”monitorare” l'eventuale superamento del massimale nell'interesse del garante medesimo.

I soggetti passivi e la rappresentanza doganale

Le controversie aventi ad oggetto il recupero dei diritti doganali sono sovente caratterizzate da diversificazione soggettiva ancorché resti invariato il presupposto oggettivo stante la pluralità di obbligati “in solido” al pagamento dell'imposta: proprietario/importatore e tutti coloro per conto dei quali è stata importata od esportata la merce.

Essendo debitore d'imposta il dichiarante, la responsabilità avvince il rappresentante doganale che renda la dichiarazione per conto altrui ma in nome proprio.

Tale responsabilità si estende con vincolo di solidarietà anche al soggetto rappresentato (art. 77 CDU).

I rapporti tra rappresentante e rappresentato sono regolati dalla disciplina civilistica del mandato con diritto di regresso verso il mandante per il rimborso di quanto versato dal mandatario all'Agenzia delle Dogane.

L'art. 18 e segg. del CDU che disciplina l'istituto della rappresentanza doganale prevede oltre alla rappresentanza indiretta (dove appunto il rappresentante doganale agisce in nome proprio ma per conto di altra persona) anche la rappresentanza diretta (dove il rappresentante diretto agisce non solo per conto ma anche in nome altrui).

In questo caso dichiarante/responsabile resta solo l'importatore.

Soggetti automaticamente legittimati ad operare in regime di rappresentanza diretta sono gli spedizionieri doganali (oltre altri soggetti abilitati dalla legge).

Per risalire alla “responsabilità paritetica” dello spedizioniere/rappresentante per le operazioni doganali è necessario – peraltro – accertarne la colpevolezza, cioè la sua partecipazione dolosa o colposa.

L'art. 77 collega la coobbligazione delle persone diverse dall'importatore alla partecipazione dell'evento o alla consapevolezza dell'irregolarità (sapevano o dovevano sapere).

Lo spedizioniere va dunque considerato responsabile nella misura in cui risulti da lui conosciuta o conoscibile la situazione di apparenza coprente l'irregolare introduzione della merce nel territorio comunitario (Cass. civ., n. 24336/2009).

Lo spedizioniere – quand'anche agisca come rappresentante doganale indiretto (ad esempio nelle procedure di domiciliazione) non potrà essere automaticamente tenuto al pagamento dei dazi richiesti all'importatore, se non coscientemente coinvolto nell'errata o falsa dichiarazione doganale (pena la riviviscenza di una responsabilità oggettiva ormai espunta dall'ordinamento europeo) (CTP Milano n. 2585/2017).

La responsabilità può emergere dalle modalità con cui gli vengono impartite le istruzioni doganali o dalla fittizietà delle operazioni coeve ad ogni suo intervento ovvero da altri elementi anche presuntivi che escludano lo stato di sua buona fede (Cass. civ., n. 21226/2006).

Lo spedizioniere, anche per la sua preparazione professionale, è di regola in grado di valutare la veridicità dei documenti trasmessigli, e dunque consapevole (o inconsapevole per negligenza) di eventuali irregolarità dell'introduzione delle merci nel territorio Unionista (Cass. civ., n. 9773/2010 in tema di certificati d'origine poi accertati come contraffatti).

Obbligato al pagamento dei dazi è poi qualsiasi altro soggetto che – pur non dichiarando di agire a nome o per conto di un terzo (ovvero dichiari di agire in nome o per conto di un terzo senza disporre dei relativi poteri) – partecipi alle formalità doganali “cooperando” in qualsiasi modo al perfezionamento dell'operazione.

L'art. 77 u. co stabilisce (come già l'art. 201 del previgente CDC) che quando una dichiarazione è resa in base a dati che determinano la mancata riscossione dei dazi, le persone che li hanno forniti ed erano od avrebbero dovuto essere a conoscenza della loro erroneità, sono anche essi considerati debitori.

In base a questi principi la Suprema Corte ha riconosciuto la responsabilità in materia doganale in capo a soggetto qualificatosi nella dichiarazione doganale ”rappresentante fiscale, pur nella consapevolezza trattarsi di specifica figura contemplata in materia di IVA all'importazione (art. 17 d.P.R. n. 633/1972) e di accise (Art. 44 comma 3 L. n. 27/1993) e solo per tali tipologie di imposta formalmente responsabile, con esclusione di ogni altra operazione effettuata dal mandante estero (Cass. civ., n. 8122/2001).

La Corte ha, per contro, rilevato che siffatta soggettività passiva “parziale” va calata e modulata in concreto sugli effetti ed obblighi della dichiarazione doganale che vede sia la ”equivalenza” del presupposto materiale dell'IVA all'importazione a quello dei dazi doganali sia la “unicità” di prelievo (ancorché con separata liquidazione) effettuato sulla bolletta quale condizione per il rilascio della merce, riconoscendo così anche in capo al rappresentante fiscale la qualità di soggetto passivo dell'obbligazione doganale.

Insomma tutti coloro che si ingeriscono nell'operazione doganale cooperano al suo perfezionamento e ne risultano debitori a salvaguardia dell'interesse pubblicistico all'adempimento dell'obbligazione daziaria (salve le eccezioni su indicate) (Cass. civ., n. 1574/2012).

La determinazione del valore in dogana: tassazione degli intangibles e first sale price

La base imponibile della tassazione doganale è costituita dal prezzo della merce (o valore di transazione) al lordo di tutti i costi sopportati (mediazione, imballaggio, trasporto, carico-scarico, assicurazione) che costituisce uno dei quattro elementi su cui si articola l'obbligazione doganale (valore , quantità, qualità, origine).

Tra gli elementi che concorrono a determinare il valore di transazione, l'art. 71 del CDU (sub c) annovera i corrispettivi e diritti di licenza (royalties) ancorché non inclusi nel prezzo ove costituiscano condizione di venditadella merce.

Due sono i requisiti di base per individuare tale condizione (art. 136 Reg. esec):

  1. i diritti debbono riferirsi ai prodotti specifici per i quali sono dovuti (identità) (è stato peraltro ritenuto che non rientrano nelle condizioni di vendita le remunerazioni corrisposte per una pluralità di servizi (compreso l'utilizzo del marchio) svolti senza alcun concreto e specifico legame con i beni oggetto di importazione (CTR Lombardia n. 654/2015)).
  2. il venditore non deve essere disponibile a vendere la merce e di rimando l'acquirente non può acquistarla senza che vengano pagati i diritti stessi al licenziante.

Nel contratto di compravendita tra importatore e venditore/fabbricantese le parti del contratto coincidono con quelle dell'accordo di licenza il pagamento dei diritti normalmente costituisce condizione di vendita.

Nel c.d scenario a tre parti sempre più frequente nella prassi operativa dove il licenziante (di regola titolare di diritti di p.i) è un soggetto terzo, estraneo al rapporto di compravendita e destinatario delle royalties dovute dall'importatore/distributore (licenziatario), perchè si possa parlare di condizioni di vendita, il fornitore/esportatore deve risultare “legato” al licenziante.

Occorre dunque verificare il ”potere (e le modalità) che esercita il licenziante sul produttore.

Il Reg. esec. (con definizione più ampia e sfumata dalla precedente richiamando anche il “potere di orientamento”) individua singole fattispecie al cospetto delle quali il venditore e terzo licenziante possono ritenersi “legati” e così realizzata la condizione di vendita con inclusione dei diritti di licenza nel prezzo (test delle condiziono di vendita).

In evidenza:
Art. 127: 1. Due persone sono considerate legate se è soddisfatta una delle seguenti condizioni: a) l'una fa parte della direzione o del consiglio di amministrazione dell'impresa dell'altra e viceversa; b) hanno la veste giuridica di associati; c) l'una è il datore di lavoro dell'altra; d) un terzo possiede, controlla o detiene, direttamente o indirettamente, il 5 % o più delle azioni o quote con diritto di voto delle imprese dell'una e dell'altra; e) l'una controlla direttamente o indirettamente l'altra; f) l'una e l'altra sono direttamente o indirettamente controllate da una terza persona; g) esse controllano assieme, direttamente o indirettamente, una terza persona; h) sono membri della stessa famiglia. 2. Le persone associate in affari per il fatto che l'una è agente, distributore o concessionario esclusivo dell'altra, quale che sia la designazione utilizzata, si considerano legate solo se rientrano in una delle categorie di cui al paragrafo 1. 3. Ai fini del paragrafo 1, lettere e), f) e g), si ritiene che una parte controlli l'altra quando la prima è in grado, di diritto o di fatto, di imporre orientamenti alla seconda.

Di particolare importanza è la clausola”aperta” contenuta nella lett. e) che riconosce la sussistenza di un “legame” in tutti i casi in cui il terzo licenziante controlli direttamente od indirettamente il venditore esportatore, cioè quando il primo sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sul secondo.

Il controllo, dunque, non necessariamente deve essere di tipo societario (di diritto) ma può essere espressione anche di un potere negoziale dominante (di fatto) che consenta di fissare condizioni contrattuali eccedenti le normali condizioni come imporre dei veti all'attività del produttore o ingerirsi nella gestione controllandone i libri contabili (così i c.d. accordi del fabbricante stipulati dai titolari dei marchi con i fabbricanti terzisti extracomunitari dei quali si avvalga l'acquirente licenziatario ed allegati – come parte integrante – ai contratti di licenza).

Peraltro la mera verifica di qualità del prodotto con semplici ”approvazioni” o di sicurezza sul lavoro non costituisce espressione di un controllo del licenziante (non constano sull'argomento pronunzie della Corte di Giustizia o della Corte di Cassazione ma solo di Commissioni tributarie (nei casi più noti: Puma, Giochi Preziosi, Preca, Brummel)).

Essendo necessario verificare caso per caso le condizioni contrattuali intercorrenti tra i soggetti di tali rapporti trilaterali (licenziante, licenziatario, fabbricante) il Comitato del Codice doganale istituito in seno alla Commissione europea ha da tempo introdotto una serie di indicatori rivelatori della sussistenza di un controllo nel senso suindicato (c.d. Indicatori TAXUD) tra cui:

a) elementi relativi al prodotto (le caratteristiche del prodotto e la tecnologia utilizzata sono stabilite dal licenziante);

b) elementi relativi al produttore (il licenziante sceglie il produttore e lo impone all'acquirente);

c) elementi relativi al controllo (il licenziante esercita, direttamente od indirettamente, un controllo di fatto sui centri di produzione/o i metodi di produzione, sulla logistica e la consegna delle merci all'acquirente).

Ciascuno di questi elementi non costituisce di per sè una condizione di vendita ma dalla combinazione di taluni di essi è possibile valutare se il pagamento dei diritti di licenza costituisce effettivamente una condizione di vendita.

Quanto alla modalità di determinazione del valore in dogananon ci si potrà più avvalere della procedura di c.d. prima vendita (first sale rule) che consentiva di calcolare i dazi sulla base di prezzo di vendita anteriore all'ultima, nel senso che se la merce era ceduta più volte prima di entrare nell'UE poteva essere dichiarato il valore inferiore riferito alle precedenti operazioni purchè tutte finalizzate all'esportazione.

Si era anche discusso se alla libertà dell'operatore di scegliere per la determinazione del valore il prezzo pagato in una transazione precedente a quella sulla cui base è avvenuta la dichiarazione in dogana poteva contrapporsi un identico potere dell'Amministrazione doganale sulla base del medesimo criterio.

Sulla questione veniva proposto dalla Corte di Cassazione quesito pregiudiziale alla Corte di Giustizia (Cass. civ., n. 13313/2006) che forniva risposta positiva suanaloga facoltà spettante all'Autorità doganale a condizione che sorgessero fondati dubbi sulla veradicità del valore dichiarato e tali dubbi persistessero dopo che erano state richieste informazioni “complementari” con possibilità all'interessato di far valere il proprio punto di vista (nel rispetto del “principio del contradditorio” di cui si è detto sopra) (Corte di Giustizia, sent. 28 febbraio 2008, C-263/2006).

Tale regola è stata abrogata dal CDU anche se per i contratti conclusi prima dell'18 gennaio 2016 potrà continuare ad essere dichiarato in dogana il first sale price sino al 31 dicembre 2017.

Il trattamento tariffario: qualità ed origine

Va premesso che per la classificazione delle merci (dove entra in gioco l'elemento della "qualità" vige la Tariffa Doganale d'uso integrato comunitaria (TARIC) realizzata in forza di una “nomenclatura combinata” (NC) che tiene conto delle caratteristiche merceologiche del prodotto ma anche di altri elementi tariffari per renderla il più possibile uniforme in tutto il territorio dell'Unione europea.

La NC si basa sul sistema “armonizzato” di designazione e codificazione delle merci elaborato dal Consiglio di cooperazione doganale, attualmente Organizzazione mondiale delle dogane (le regole generali di interpretazione – che si rinvengono nella I^ parte della NC – dispongono che la classificazione doganale delle merci è determinata legalmente dal testo delle voci e delle note premesse alle sezioni o ai capitoli (oltre- occorrendo- dalle successive norme purche' non confliggenti con il testo suddetto).

Apposito Comitato – istituito all'interno del Consiglio – ha il compito di redigere note esplicative e pareri di classificazione (non vincolanti), spettando poi al legislatore europeo (Commissione) interpretare per via regolamentare e sotto il controllo della Corte di Giustizia la nomenclatura per come deve essere applicata (con valenza ex tunc) ovvero indicare requisiti “complementari” per l'inserimento del prodotto in una determinata voce (con valenza ex nunc).

In questa raccolta sistematica – per settori merceologici – di voci doganali trovano collocazione le merci oggetto di scambi commerciali internazionali che vanno classificate secondo proprietà oggettive quali definite secondo il testo doganale, non rilevando il fatto che il fabbricante metta in risalto talune caratteristiche rispetto ad altre (di regola prevale nella classificazione del prodotto con più funzioni quella prevalente ma nella legislazione – anche nazionale – entrano in gioco anche altre distinzioni. Così nei pannelli fotovoltaici, che scontano l'IVA all'importazione agevolata, non rientrano le cellule fotovoltaiche che sono solo componenti di base per la realizzazione dei primi (e scontano l'IVA ordinaria)).

La tipologia mercelogica (che influisce sulla tariffa daziaria applicabile) costituisce oggetto di frequente litigiosità giudiziaria che comporta il ricorso ad ausili tecnici tramite CTU.

Anche l'origine (unitamente alla quantità, alla qualità, al valore della merce dichiarata in dogana) concorre a costituire base di calcolo dell'imposizione daziaria.

Il CDU (art. 60) precisa che le merci interamente ottenute in un unico paese sono considerate originarie di tale paese; ove alla sua produzione contribuiscono più paesi l'origine è riferita al paese dove è stata effettuata l'ultima lavorazione o trasformazione sostanziale presso impresa attrezzata allo scopo che abbia portato alla fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.

L' “origine” della merce oggetto di importazione nel territorio dell'Unione europea ha influenza determinante ai fini del trattamento daziario.

Mentre l'origine non preferenziale comporta assoggettamento della merce all'aliquota daziaria così come prevista dalla tariffa doganale comune, l'origine preferenziale comporta l'applicazione di un'aliquota daziaria ridotta od addirittura l'esenzione.

L'origine può dunque giocare a favore come a sfavore dell'importatore: prodotti originari di Paesi terzi possono scontare dazi particolarmente consistenti (c.d. dazio antidumping) ovvero esserne esentati in tutto od in parte (è il caso dei prodotti dei Paesi in via di sviluppo).

Vi è una differenza sostanziale tra i due istituti.

Il dazio antidumping è misura protettiva a beneficio degli Stati appartenenti all'UE in relazione all'importazione di particolari prodotti provenienti da Paesi terzi (specie asiatici) ad un prezzo più basso di quello praticato sul mercato nazionale.

Le disposizioni dei vari provvedimenti regolamentari che istituiscono dazi antidumping considerano, infatti, oggetto di dumping un prodotto quando il suo prezzo all'esportazione verso l'Unione è inferiore al valore normale di un prodotto simile.

Il dazio antidumping non ha però natura sanzionatoria (non entrando in gioco irregolarità intenzionali o da negligenza, dunque violazioni del diritto dell'Unione) ma è “misura” (in analogia alle c.d. quote latte) di attuazione della politica comune destinata al “riequilibrio” delmercato evitandone turbative (Cass. civ., ss.uu., n. 20254/2004 e Cass. civ., n. 23381/2009).

Il sistema tariffario preferenziale trae fonte da accordi doganali di agevolazione daziaria riconosciuti ai Paesi in via di sviluppo dalla UE sulla base di elenchi di merci specifiche ed entro insuperabili limiti quantitativi (a contingente o a massimale) per evitare che esse – invadendo il mercato – danneggino i produttori locali.

La UE può unilateralmente accordare vantaggi daziari ad un certo gruppo di paesi (c.d. “Sistema delle Preferenze Generalizzate”) ovvero stipulare appositi accordi bilaterali identificando i prodotti che beneficiano della preferenza tariffaria.

La prova dell'origine da tali Paesi viene fornita alla dogana presso la quale è effettuata l'operazione di importazione mediante l'esibizione di appositi certificati che debbono scortare la merce e vengono emessi – su richiesta degli esportatori – dalle autorità competenti del Paese di origine del prodotto: l'EUR 1 per i Paesi con cui l'Unione europea ha sottoscritto appositi accordi; il FORM A per i Paesi che beneficiano di preferenze tariffarie generalizzate.

L'origine preferenziale – secondo il nuovo CDU – può essere certificata anche con dichiarazione in fattura da parte dell'esportatore quando il valore della spedizione non supera € 6.000.

Il concetto di origine attiene al fatto che una merce è stata realizzata in un certo luogo.

Pertanto, le regole che distinguono l'origine preferenziale per il trattamento daziario più favorevole che comportano sono più rigide delle altre e la loro applicazione costantemente monitorata dai servizi della Comunità.

L'autenticità e regolarità di questi certificati può essere fatto oggetto di riscontro a posteriori dalle autorità doganali per sondaggio quando vi sia motivo di dubitare sulla autenticità della relativa documentazione o l'esattezza delle informazioni, con eventuale sospensione del regime agevolativo.

Tale controllo è consentito nei tre anni successivi all'effettuazione dell'importazione mediante procedimenti di cooperazione amministrativa tra le autorità doganali dello Stato membro presso cui sono state effettuate le importazioni e quelle del Paese terzo emittente ovvero mediante missioni disposte degli organi esecutivi della Commissione per la lotta antifrode (OLAF).

Va ricordato che l'esenzione daziaria presuppone sempre la genuinità del certificato di origine, cioè la sua regolarità formale e sostanziale per cui non rileva – ai fini dell'insorgenza del diritto al recupero – accertarne la falsità materiale od ideologica, ove si tratti di certificato emesso da autorità diversa da quella deputata al suo rilascio (Cass. civ., n. 19195/2006).

Anche un certificato di origine ignota” perché mancante della documentazione a corredo da cui sia possibile accertare la provenienza della merce e dunque confermare l'origine dichiarata va considerato certificato inesatto” autorizzante il recupero a posteriori per indebita concessione del regime preferenziale.

Il “regime agevolativo” rende di regola irrilevante che il dichiarante abbia agito “in buona fede ed in modo diligente” ignorando l'irregolarità da cui è derivata la mancata riscossione dei dazi che avrebbe dovuto pagare se tale irregolarità non fosse stata commessa.

Come stabilito dalla Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, 17 luglio 1997, C-97/95, Pascoal&Filhos) la buona fede dell'importatore non lo esime dalla sua responsabilità per l'adempimernto dell'obbligazione doganale, essendo egli il dichiarante della merce importata quand'anche scortata da certificati inesatti o falsificati a sua insaputa.

La Comunità, infatti, non è tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini rientranti nel rischio dell'attività commerciale contro il quale gli operatori economici ben possono premunirsi nell'ambito dei loro rapporti negoziali.

Numerose sono le pronunzie della Corte di Cassazione che hanno seguito questo filo conduttore, in più occasioni ribadendo che i diritti doganali si rendono dovuti per il semplice fatto che non esiste un titolo valido per ottenere l'esenzione che presuppone – senza soluzione di continuità – la genuinità della documentazione che certifica la provenienza e destinazione della merce, restando “fattore neutro” il mancato coinvolgimento dell'importatore nel disegno criminoso posto in essere dall'esportatore-produttore (Cass. civ., n. 5007/2007).

Insomma – salvo le deroghe delle quali si dirà oltre – in materia doganale è di regola invertito il principio civilistico secondo cui la buona fede si presume (essendo la malafede a dover essere di volta in volta dimostrata).

È pacifico, del resto, che i trattamenti agevolativi – che si pongono come eccezione alla regola generale di imponibilità – vanno riconosciuti solo nella misura in cui soddisfino in concreto tutte le condizioni di forma e di sostanza, gravando sempre sul soggetto passivo che intenda avvalersi di disposizioni derogatorie del regime ordinario l'onere di dimostrare la sussistenza dei relativi presupposti (Cass. civ., n. 17638/2004, n. 14146/2003 e n. 4598/2002 in materia di agevolazioni fiscali nel settore del credito).

Si rammenta che le violazioni in materia di origine sono tra le più frequenti nell'ambito delle provenienze extracomunitarie e dei trattamenti tariffari agevolati su cui la giurisprudenza comunitaria ha costruito il concetto di abuso ed elusione connotanti operazioni volte ad ottenere indebite sovvenzioni (risparmi) a carico del bilancio comunitario.

In proposito è stata mantenuta la clausola antiabusiva nell'art. 33 del Reg. delegato per contrastare il c.d. origin shopping onde escludere dai benefici tariffari le lavorazioni o trasformazioni compiute in altro paese senza giustificazione economica ma solo per evitare l'applicazione delle misure daziarie.

La contabilizzazione a posteriori: le deroghe unioniste

La contabilizzazione a posteriori, procedura di calcolo o ricalcolo dei dazi esclusi od applicati in misura inferiore al momento dell'accettazione della merce in dogana, può essere soggetta a “deroghe” che si traducono in fattispecie di “esonero” dal recupero posticipato dei dazi al ricorre di determinate condizioni.

Queste deroghe trovano specificazione – come nei testi passati – nell'art. 119 del CDU (“errore delle autorità competenti”) e sono il frutto dell'elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia.

In pratica non è consentito procedere al recupero a posteriori dell'importo dei dazi qualora tali dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti che non poteva essere ragionevolmente scoperto dal debitore purché costui abbia, dal canto suo, agito in buona fede ed osservato tutte le disposizioni previste, per la sua dichiarazione in dogana, dalla regolamentazione vigente.

Il rilascio di un certificato inesatto non costituisce tuttavia un errore in tal senso, se il certificato si basa su di una situazione fattuale inesatta riferita dall'esportatore salvo che risulti che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate od avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale.

La buona fede del debitore in questo contesto può essere invocata solo qualora questi sia in grado di dimostrare che – per la durata delle operazioni commerciali in questione – ha agito con diligenza per assicurarsi che siano state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale.

Il debitore non può tuttavia invocare la buona fede qualora la Commissione europea abbia pubblicato nel G.U.U.E. un avviso in cui sono segnalati fondati dubbi circa la corretta applicazione del regime preferenziale da parte del paese beneficiario.

Va precisato che – ove sia riconosciuta efficacia esimente alla buona fede dell'importatore –, la liberatoria opererà sia rispetto all'esazione dei dazi sia con riferirimento alle sanzioni, l'ordinamento unionista nel concedere l'esonero dal pagamento del tributo differenziandosi dall'ordinamento nazionale dove – salvo talune eccezioni – tradizionalmente l'assenza di colpevolezza rileva esclusivamente sul piano sanzionatorio.

Tre restano dunque le condizioni – base che debbono ricorrere cumulativamente per impedire il recuperoa posteriori e che si rinvengono nella normativa fondamentale come specificata dalla giurisprudenza europea (Corte di Giustizia Sentenza Ilumitronica cit. che sul punto rimanda alla sentenza Pascoal&Filhos, cit.).

  • Occorre – innanzitutto – che i dazi non siano stati riscossi per un errore delle stesse autorità competenti.
  • L'errore da quest'ultime commesso deve essere di natura tale da non poter essere ragionevolmente riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza professionale e diligenza di cui è tenuto a dar prova.
  • Il debitore deve aver osservato tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente (da ultimo Corte di Giustizia, sentenza 16 marzo 2017 C-47/2016

    Veloserviss
    ).

Ulteriori pronunzie hanno meglio chiarito le nozioni di autorità competente, di errore riconoscibile e di diligenza (Corte di Giustizia, sent. 1° aprile 1993, C-250/91 Hewlett Packard France; 14 maggio 1996, C-153/94 e C-204/94, Fareoer; 27 gennaio 1991, C-348/89 Mecanarte; 19 ottobre 2000, C-15/99 Sommer; 12 dicembre 1996, C-38/95 Foods Import; 26 giugno 1990, C-64/89 DeutscheFernsprecher):

  • in ordine al concetto di autorità competente, in mancanza di una definizione precisa nella normativa europea, è considerata tale non soltanto l'autorità cui spetta procedere al recupero (di importazione) ma anche quella di rilascio del certificato preferenziale (di esportazione);
  • l'errore-nucleo essenziale della norma e ratio dell'istituto (non limitato a semplici refusi di calcolo o trascrizione ma ricomprendente qualsiasi tipo di vizio della decisione adottata quale anche una scorretta interpretazione delle disposizioni applicabili) deve essere imputabile alle Autorità che hanno posto in essere i presupposti su cui riposava il legittimo affidamento dell'operatore, deve essere cioè provocato da un comportamento “attivo” delle medesime.

Non vi rientra quindi l'errore indotto da “situazioni fattuali inesatte” dichiarate dall'esportatore di cui non si debba valutare o verificare la validità (la semplice astensione od omissione dell'Amministrazione preposta non può peraltro creare alcuna legittima aspettativa) salvo il caso che si sia riposto affidamento nella conoscenza da parte delle autorità di quel Paese dei dati di fatto occorrenti per il rilascio delle certificazioni ed esse autorità non abbiano sollevato alcuna obiezione sulle indicazioni contenute nella dichiarazione (ad esempio, l'irregolarità risulti nota e financo favorita dalle autorità di esportazione).

La “riconoscibilità” dell'errore deve essere valutata tenendo conto della precisa natura di esso, accertando di volta in volta se le circostanze peculiari del caso, sia di diritto che di fatto, consentano al debitore di rilevarlo considerata la complessità della normativa di settore, il lasso di tempo in cui le autorità hanno perseverato nonostante il numero e l'importanza delle operazioni poste in essere dal debitore medesimo, la mancata pubblicazione delle disposizioni sulla G.U.C.E. o l'omessa trasposizione nell'ordinamento del Paese di provenienza, l'esperienza professionale dell' operatore, la diligenza dimostrata dal dichiarante (quando nutra dei dubbi, nell'assumere i chiarimenti del caso), la sua buona fede nel fornire tutte le informazioni necessarie previste dalle norme nazionali e comunitarie alle competenti autorità doganali (ovviamente nei limiti dei dati e dei documenti che l'operatore può ragionevolmente conoscere ed ottenere).

Insomma, la regola che si ricava è che la responsabilità dell'operatore sussiste in via generale e può essere esclusa solo quando la mancata riscossione dei dazi ab origine sia stata causata da un errore delle autorità competenti che non poteva essere ragionevolmente scoperto dal debitore in buona fede e sempre che tale errore sia dipeso da un comportamento attivo dell'ufficio.

Il fatto doloso od un raggiro dell'esportatore – come già detto – non esime, invece, l'operatore dall'adempiere la sua obbligazione (Cass. civ., n. 21775/2005).

Vediamo taluni esempi:

1) la buona fede è stata ravvisata in un caso in cui l'inesattezza dei certificati (importazione di zeolite) risultava risalire alla Camera di commercio di Lubiana che aveva illegittimamente rilasciato, senza averne i poteri, i modelli Eur 1 che successivamente l'autorità amministrativa della Bosnia aveva invalidato in quanto emessi da soggetti non autorizzati.

Erano, dunque, non certificati falsi risalenti a condotta dell'esportatore ma certificati dichiarati non autentici per ragioni di carenza di potere dell'una autorità rispetto ad altra, stante la situazione di caos normativo esistente a causa dello stato di belligeranza interessante i Paesi balcanici.

Da questo peculiare contesto storico veniva desunta l'estraneità dell'importatore che aveva fruito del trattamento agevolato, non potendo quegli agevolmente scoprire – nonostante la sua esperienza professionale – l'errata attestazione, trattandosi di certificati in allora compilati dalla competente autorità amministrativa e dunque formalmente corretti anche per la dogana italiana che aveva accettato le relative dichiarazioni presentate secondo la vigente normativa, né risultando implicata la negligenza o l'artificio dell'operatore bensì un fenomeno di incertezza politico-amministrativa inavvertita dall'importatore e non causata da un'inesatta rappresentazione dei fatti da parte dell'esportatore che faceva dunque risorgere la clausola equitativa generale di tutela dell'affidamento incolpevole (Cass. civ., n. 22141/2006 e – negli stessi termini –Cass. civ., n. 13065/2006).

2) Diversamente è stato invece argomentato in base a contenuto di rapporto comunitario con l'esito delle indagini ivi riportate da cui risultava che la ditta esportatrice di Macao (autoradio) era stata appositamente costituita con capitale della casa madre di Hong Kong al fine di eludere il dazio antidumping in allora imposto dalla CEE sulla merce di provenienza cinese mentre le autorità di quel Paese non erano state in grado di comprovare l'origine dei prodotti, sicché legittimo si appalesava il recupero a posteriori non potendo essere in tale situazione goduto il trattamento daziario agevolativo.

Risolutiva è stata considerata nella fattispecie la circostanza del controllo economico-societario realizzato tra imprese con trasferimento di produzione in periodo sospetto, avendo il giudice fatto implicita adesione alla presunzione di elusione sancita dalla clausola antiabusiva (ripresa nell'art. 33 cit. del Reg. delegato) che contempla l'eventualità che la lavorazione o trasformazione di merci sia stata effettuata al solo scopo di eludere le disposizioni applicate dall'UE alle merci provenienti da determinati Paesi (Cass. civ., n. 20380/2006).

3) È stata ritenuta legittima la contabilizzazione a posteriori disposta nei casi di importazioni di silicio certificato come proveniente dall'India – paese ad esenzione daziaria – dove era sottoposto a lavorazioni che non ne comportavano un mutamento “sostanziale” (frantumazione) mentre si era scoperto provenire dalla Cina dove era avvenuta la “estrazione”del materiale (Cass. civ. n. 23985/2008 e n. 4997/2009 cit.).

4) È stata esclusa la buona fede (in termini di diligenza) dell'importatore (Eridania) sul rilievo all'avvenuta pubblicazione sul GUCE da parte della Commissione di avvisi con i quali venivano segnalati dubbi sulla corretta applicazione degli accordi preferenziali con paesi della ex Jugoslavia e sulla validità dei certificati di origine EUR 1 emessi a fronte di esportazioni di zucchero dichiarate originarie della Serbia-Montenegro (Cass. civ., n. 5388/2012).

Il ruling e l'interpello doganale: le informazioni vincolanti

Nell'ambito delle consultazioni preventive tra contribuente e fisco, l'istituto dell'interpello (c.d. “ruling” ) è stato riordinato con il D.Lgs. n. 156/2015 in vigore dal 1° ge nnaio 2016 che trova applicazione – a seconda dei casi – anche per i tributi amministrati dall'Agenzia delle Dogane.

Dettagliate istruzioni sono state impartite agli Uffici doganali (Circ. Agenzia Dogane 29 gennaio 2016 n. 2/D) sulla gestione delle 4 tipologie previste dal riformulato art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente: interpello ordinario, (per risolvere situazioni di incertezza applicativa di determinate disposizioni tributarie); probatorio (per ottenere parere sull'idoneità degli elementi probatori occorrenti per l'adozione di specifici regimi fiscali), antiabuso (per conoscere se le operazioni da realizzare sono suscettibili di costituire abuso del diritto) disapplicativo (per ottenere un parere sulle condizioni legittimanti la disapplicazione di norme tributarie di contrasto all'elusione).

Caratteristiche salienti sono la vincolatività della risposta sull'istanza con esclusivo riferimento alla questione oggetto della richiesta e limitatamente alla parte richiedente, la non impugnabilità (salvo nel caso di interpello disapplicativo, dove è ammesso ricorso contro la risposta unitamente all'atto impositivo), la invalidità di tutti gli atti a contenuto impositivo o sanzionatorio emessi in difformità al parere, il silenzio assenso sulla mancata evasione dell'istanza nel termine prescritto (rispettivamente 90 gg per l'interpello ordinario e 120 gg per gli altri) con pari invalidità, sempre, limitatamente alla questione oggetto di interpello degli atti difformi alla soluzione prospettata dal contribuente.

Questa articolata a disciplina non si applica alle c.d. ”risorse proprie” dell'UE stante la prevalenza e la peculiarità della fonti normative unionali e degli istituti che esse regolano (a meno che non facciano espresso rinvio alle disposizioni nazionali).

Viene nel settore invece utilizzato un istituto autonomo che consente agli degli operatori di chiedere all'Agenzia delle dogane un parere preventivo in ordine al corretto inquadramento di una operazione doganale sotto il profilo della classificazione tariffaria (ITV) e/o dell'origine (IVO).

Si tratta di un interpello specifico già previsto nel CDC e conservato nel Codice doganale dell'Unione (artt. 33 e segg.) a beneficio degli operatori economici che intendano conoscere – per il calcolo dei dazi – la voce doganale pertinente alla merce da importare od esportare ovvero la sua origine, all'uopo richiedendo all'autorità doganale una informazione tariffaria vincolante (ITV) o una informazione vincolante in materia di origine (IVO), destinata, appunto, a rimanere vincolante nei confronti del richiedente per un periodo di 3 anni così come la ITV (o la IVO) resterà impegnativa nei confronti di quello stesso richiedente da parte delle autorità di tutti gli Stati membri.

Lo strumento europeo non presenta molti punti di contatto con i pareri degli interpelli nazionali se non per la sua efficacia inter partes della quale non potrà perciò giovarsi il terzo nonostante la identità di merce (anche se la informativa rilasciata potrà sempre costituire un punto di riferimento generale nelle eventuali controversie giudiziali).

A differenza del passato l'informazione si estende anche a merci che presentano caratteristiche simili a quelle esaminate.

L'informazione viene comunicata alla Commissione per l'aggiornamento della banca dati.

Se vi sono informazioni divergenti sulla classificazione di una stessa merce, la questione – ove non venga risolta tra gli Stati membri interessati – viene portata all'esame del Comitato per la classificazione delle merci: classificazione che deve rimanere il più possibile omogenea e non può variare da uno Stato all'altro secondo valutazioni discrezionali divergenti delle singole autorità con il rischio di determinare trattamenti discriminatori tra gli operatori economici interessati.

Il parere doganale assume la veste di decisione ricorribile (nella prospettiva europea per decisione dell'autorità doganale deve intendersi qualsiasi determinazione amministrativa in campo doganale e dunque qualsiasi atto impositivo e/o provvedimentale quale sia il nomeniuris utilizzato) davanti alla Autorità giudiziaria (CTP di Roma in via diretta o CTP territorialmente competente sull'accertamento ,incidenter) contribuendo cosi' il giudice tributario a dichiarare la corretta classificazione e cooperando alla applicazione uniforme anche sotto questo aspetto tecnico del diritto UE (Corte di Giustizia, 19 gennaio 2005, C-206/03 Smithkline. Nell'occasione la Corte, su rinvio pregiudiziale dell'High Court of Justice – in tema di classificazione di cerotti alla nicotina –, stabiliva che, se una autorità competente fornisce una erronea informazione tariffaria vincolante, il giudice nazionale è tenuto, a sensi dell'art. 10 del Trattato, ad adottare, nell'ambito delle sue competenze, tutte le misure necessarie affinché detta informazione sia annullata e venga fornita una nuova ITV conforme al diritto comunitario.

Il regime sanzionatorio

Il nuovo CDU (art. 42) detta solo disposizioni di principio per l'applicazione delle sanzioni amministrative previste nella forma dell'onere pecuniario o della revoca/sospensione/modifica di qualsiasi autorizzazione prevista dall'interessato, con richiamo ai canoni stabiliti dalla giurisprudenza europea in materia di effettività, proporzionalità, dissuasività della misura.

Per quanto concerne l'impianto sanzionatorio nazionale, l'art. 11, 4° comma del decreto semplificazioni fiscali, ha modificato l'art. 303 del TULD individuando tra le condotte sanzionate le violazioni che riguardano la qualità, la quantità, il valore delle merce e distinguendole tra (I° comma) violazioni “formali” (difformità tra dichiarato ed accertato non comportante rideterminazione dei diritti di confine oltre una certa soglia) punite con lieve sanzione amministrativa e violazioni “sostanziali” (III° comma che costituisce aggravante del I°) quando i diritti di confine complessivamente dovuti secondo l'accertamento portino una differenza rispetto all'accertato di oltre il 5%.

Le sanzioni amministrative non sono più proporzionali – come in passato – all'entità dell'accertato (da una a 10 volte) ma parametrate a scaglioni secondo i diritti pretesi dall'Ufficio.

L'aggravio – pur alla luce delle indicazioni della relazione tecnica illustrativa miranti a reprimere ogni condotta violativa che arrechi pregiudizio alla scorrevolezza dei traffici ed alla efficienza dei controlli – si presenta così scarsamente compatibile con il principio di proporzionalità delle sanzioni amministrative rispetto al disvalore dell'illecito come suggerito dal CDU.

La severità della sanzione amministrativa che accompagna la violazione potrebbe poi rivelarsi così afflittiva da essere equiparata nella sostanza ad una sanzione penale con la conseguenza di impedire l'eventuale avvio di procedimento penale per la medesima condotta onde non contravvenire al principio del “ne bis in idem” come prospettato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo (CEDU 4 marzo 2014 Grande Stevens e-più specificamente - CEDU sent. 22 novembre 2014 Lucy dav che ha escluso il cumulo di sanzioni amministrative e penali per le violazioni finanziarie solo al cospetto di idem factum inteso come insieme naturalistico (e non giuridico)) sia pur con recenti temperamenti indotti dal principio di proporzionalità e di stretta connessione temporale/sostanziale dei procedimenti (penale ed amministrativo) (CEDU 15 Novembre 2016 AB v/Norvegia).

Del resto la stessa norma del CDU prevede espressamente che l'onere pecuniario imposto dalle autorità doganali possa se del caso essere applicato in sostituzione di una sanzione penale.

Il nuovo art. 303 tra le condotte sanzionate continua a non menzionare le violazioni in materia di origine.

La dottrina e parte della giurisprudenza di merito ha richiamato al riguardo il principio di tassatività con divieto di analogia in malam partem ritenendo che siffatta ribadita scelta legislativa (di ricomprendere, cioè, tra le condotte sanzionate solo tre dei quattro fattori principali dell'obbligazione doganale che concorrono a costituire la base di calcolo dell'imposizione daziaria) confermasse la volontà del legislatore di escludere dal regime sanzionatorio gli errore dichiarativi inerenti l'individuazione della corretta origine doganale della merce.

Questa impostazione non è stata peraltro accolta dalla giurisprudenza di legittimità (ancorché formatasi in vigenza del vecchio testo) che ha stabilito che la norma in questione va interpretata secondo intrinseci criteri di logicità e ragionevolezza ex art. 3 Cost. che escludono una voluta legis intesa a giustificare la sottrazione, dalla fattispecie illecita, della inesattezza della dichiarazione sulla origine dei prodotti.

Tratterebbesi, infatti, di ipotesi “implicitamente” contenuta nella formulazione normativa avuto riguardo alla identità dell'interesse pubblico che il legislatore intende perseguire (esazione del tributo armonizzato) ed alla identica rilevanza che le “inesattezze” (a qualunque tipologia appartengano) rivestono ai fini dell'accertamento e liquidazione dei diritti doganali (ex multis Cass. civ., n. 14030/2012 e Cass. civ., n. 15779/2012).

Termini di rettifica ed azione penale

L'avviso di rettifica nell'ordinamento doganale italiano deve essere notificato a pena di decadenza entro tre anni da quando l'accertamento è diventato definitivo (art. 11, comma 5, D.Lgs. n. 374/1990).

Tre anni è anche il termine di prescrizione dell'azione per la riscossione dei diritti doganali (art. 84 TULD).

La disposizione trovava parallelo nell'art. 103.1 CDU in tema di contabilizzazione e recupero dei dazi a posteriori laddove è stabilito che nessuna obbligazione doganale può essere notificata dopo la scadenza di un termine di tre anni dalla data in cui è sorta l'obbligazione doganale.

Secondo il diritto nazionale quando le autorità competenti accertano che i dazi all'importazione o all'esportazione legalmente dovuti per la merce dichiarata per un regime doganale comportante l'obbligo di effettuarne il pagamento non sono richiesti in tutto od in parte al debitore, esse iniziano una azione di recupero dei dazi non riscossi; ma tale azione non può essere più avviata dopo la scadenza del termine di 3 anni a decorrere dalla data di contabilizzazione dell'importo originariamente richiesto o – se non vi è stata contabilizzazione – a decorrere dalla data in cui è sorto il debito doganale relativo alla merce in questione.

Qualora il mancato pagamento – totale o parziale dei diritti – abbia causa da un reato (di regola truffa ai danni dello Stato e/o falso continuato), l'anzidetto termine viene spostato – per così dire – in avanti iniziando a decorrere dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunziati nel procedimento penale, sono diventati irrevocabili (art.84 TULD).

Il CDU, per eliminare incertezze nel computo del periodo per l'azione di recupero ed individuare un arco temporale più stabile, ha previsto (art. 103.2) che quando l'obbligazione doganale sorge in seguito a un atto che nel momento in cui è stato commesso era perseguibile penalmente, il termine di tre anni è esteso da un minimo di 5 anni e ad un massimo di dieci anni conformemente al diritto nazionale.

Occorrerà perciò un adeguamento legislativo e l'Agenzia delle dogane ha già proposto un allungamento dei termini di accertamento fino ad 8 anni (a valere, ovviamente, per le violazioni successive).

L'individuazione del momento in cui debba scattare la postergazione dell'azione di recupero dei diritti evasi ha suscitato perplessità in giurisprudenza.

Secondo un criterio di specialità gerarchica delle fonti normative che vede la prevalenza del dettato europeo (Cass. civ., n. 8044/1995) per “atto perseguibile penalmente” non può assolutamente farsi riferimento all'inizio dell'azione penale (art. 405 del codice di procedura penale) nelle forme tassative e vincolanti previste dal nostro ordinamento (artt. 416 e seguenti del codice di procedura penale).

L'espressione utilizzata – sempre secondo le indicazioni fornite dal giudice europeo (Corte di Giustizia, 27 novembre 1991, C-273/90, Meico-Fell.) sulle quali ha fatto leva parte della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n. 7751/1997 e n. 11499/1997) – sarebbe piuttosto da riferirsi a qualsiasi atto che, obbiettivamente considerato, integra una fattispecie astrattamente prevista come reato dal diritto penale nazionale senza che sia necessario verificare anche se per esso sia iniziata o possa essere iniziata l'azione penale.

La stessa Corte di Giustizia ha del resto stabilito che la “qualificazione” di un atto come passabile di azione giudiziaria repressiva non costituisce una constatazione che è stata effettivamente commessa una infrazione al diritto penale ma un mezzo impiegato nell'ambito ed ai fini di un procedimento di natura amministrativa che ha lo scopo esclusivo di consentire all'autorità doganale di rimediare ad una percezione scorretta od insufficiente dei dazi il cui importo esatto spetta ad essa autorità determinare (Corte di Giustizia, 18 dicembre 2007, C-26/06, Fazenda Publica).

Ciò nondimeno questo approccio interpretativo ha subito discostamenti nelle più recenti pronunzie della Cassazione in quanto ritenuto troppo ampio ed indeterminato, con il rischio di consentire al giudice dell'opposizione alla pretesa fiscale di sanare in ogni tempo – attraverso una valutazione incidenter tantum della fattispecie astratta di reato – la mancata attivazione da parte dell'Amministrazione nel trasmettere la denunzia di reati di cui venga a conoscenza nel corso della sua attività accertativa; attività che va circoscritta ad un preciso periodo (3 anni), finendosi – diversamente – per legittimare un'azione di recupero senza limiti temporali a discapito della certezza dei rapporti giuridici.

È stato perciò stabilito che ciò che va posto in evidenza ai fini prescrizionali è l'ipotesi delittuosa che sta alla base della notitia criminis, primo atto “esterno” che prefigura il nodo di commistione tra fatto reato e presupposto di imposta destinato ad essere sciolto all'esito del giudizio penale.

È questo – in sostanza – l'evento procedimentale che deve intervenire nell'arco temporale stabilito per il recupero a posteriori al fine di prolungarne la durata senza conseguenze caducatorie dalla sua inosservanza (Cass. civ., n. 21377/2006).

Il prolungamento del termine prescrizionale quando uno stesso fatto costituisca al tempo stesso fonte di un obbligazione doganale e fatto-reato va dunque raccordato all'apertura delle indagini che deve – ovviamente – avvenire “prima” e non “dopo” lo spirare deltermine di legge (ex multis Cass. civ., n. 19193/2006; Cass. civ., n. 22014/2006. Ibidem da ultimo Cass. civ. n. 24336/2009 - 9773/2010 - 7569/2015).

Invero se lo spostamento in avanti della decorrenza del termine triennale di prescrizione non fosse correlato alla trasmissione della notitia criminis dall'Amministrazione all'Autorità giudiziaria, il termine di recupero dei dazi sarebbe privo di riferimenti temporali e dilatabile all'infinito (Cass. civ., nn. 30710/2011 e Cass. civ., 14016/2012)

Anche in tema di imposte sui redditi ed IVA è previsto un prolungamento temporale mediante il raddoppio dei termini di accertamento brevi in presenza di violazioni tributarie per le quali vi e' obbligo di denunzia penale (così il decreto Bersani (D.L. n. 223/2006 convertito in L. n. 248/2006) intervenuto sull' art. 57 d.P.R. n. 633/1972 e 43 d.P.R. n. 600/1973).

Secondo la Corte Costituzionale tale raddoppio opererebbe indipendentemente dall'effettiva presentazione della denunzia quando siano obbiettivamente riscontrabili nella fattispecie gli elementi richiesti dall'art. 331 c.p. con una valutazione ora per allora (prognosi postuma) della loro ricorrenza rimessa al giudice tributario (Corte Cost. n. 247/2011).

Opportunamente l'art. 2 del D.Lgs. n. 128/2015 (disposizioni sulla certezza del diritto) ha introdotto al par. 2 - in conformità alle direttive della delega fiscale (Legge delega 11 marzo 2014 n. 23, ivi art. 8 (revisione del sistema sanzionatorio)) - una ridefinizione della portata applicativa della disciplina del raddoppio dei termini precisando che il raddoppio non opera se la denunzia penale è stata trasmessa oltre la scadenza dei termini ordinari.

Su questo punto vi è stato dunque totale “riallineamento” e l'intervento legislativo è andato nella stessa direzione della giurisprudenza formatasi in ambito doganale.

Diritto al ricorso, sospensione cautelare ed esecutività

Delle azioni giudiziarie si occupano le disposizioni unionali degli artt. 44 e 45.

Secondo il Codice doganale dell'Unione, il ricorso amministrativo non costituisce uno stadio “necessitato” per l'introduzione del ricorso giurisdizionale.

La stessa giurisprudenza europea da tempo aveva messo in luce come tale normativa si distinguesse dalle passate proposte di regolamento sul codice doganale comunitario che esplicitamente subordinavano il ricorso alle Autorità giudiziarie ad un previo ricorso innanzi alle autorità doganali.

Dunque il legislatore europeo non esclude che il diritto nazionale possa consentire all'operatore di rivolgersi ad saltum direttamente ad una istanza indipendente qual è l'Autorità giudiziaria (Corte di Giustizia, sent. 11 gennaio 2001, C-1799, Kofisa).

Il diritto al ricorso resta connotato da “alternatività” e la regola è ripresa nel CDU che enuncia come esso sia esercitabile in duplice fase giudiziaria (primo e secondo grado) con possibilità di concorso in primo grado dell'autorità doganale-amministrativa.

Le “decisioni” delle autorità doganali sono immediatamente applicabili” anche in presenza di ricorso ma devono comunque – al pari di ogni altro atto impositivo – essere azionabili in executivis per poter essere fatte oggetto di sospensiva quale titolo di riscossione.

Per snellire il procedimento di esazione delle imposte, come è noto, la legge competitività del 2010 (art. 29 L. n. 122/2010 di conversione del D.L. n. 78/2010 con le successive interpolazioni del decreto sviluppo 2011) ha previsto (per i tributi erariali) la concentrazione della riscossione nell'accertamento (accertamento c.d. impoesattivo) con conferimento ad esso di esecutività ex lege dopo 60 gg dalla notifica senza necessità di emissione della cartella (eliminata) e affidamento del carico ad Equitalia nei 30 gg. successivi previa iscrizione provvisoria a ruolo (da metà) a 1/3, salva in ogni caso la sospensione legale per 180 gg dall'affidamento in carico all'esattore.

Questa tipologia di accertamento è stata estesa anche al settore doganale dal decreto semplificazioni fiscali (ivi art. 9 comma 3-bis) che ha attribuito esecutività (anticipata) all'avviso di rettifica con intimazione ad adempiere entro 10 gg dalla notifica trascorsi i quali è attivata la procedura di riscossione senza possibilità alcuna di “sospensione legale”, salvo il ricorso alla sospensione amministrativa od – eventualmente – giudiziaria.

Esigenze di recupero no limits hanno poi portato il legislatore nazionale con la legge europea 2013 bis (art. 10 L. n. 161 del 30 ottobre 2014) a modificare anche la tempistica della riscossione aggiungendo nell'art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992 il comma 3-bis che sottrae il pagamento delle risorse proprie in pendenza di processo alla disciplina nazionale, assogettandolo alle disposizioni del CDU ed alle altre disposizioni dell'Unione con la conseguenza che anche gli avvisi di accertamento annullati con sentenza non definitiva andranno pagati o comunque garantiti con fideiussione.

La novella legislativa presenta punti di criticità perchè contravviene al principio di effettività della tutela giurisdizionale e reintroduce una sorta di clausola di solve et repete da tempo espunta per incostituzionalità dal nostro ordinamento.

Anche la sospensione in materia doganale risentedella esigenza di celerità ed efficienza che debbono contrassegnare il recupero delle risorse proprie dell'Unione.

Va premesso che mentre i requisiti del fumus e del periculum debbono sussistere congiuntamente per l'accoglimento della cautela a sensi dell'art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992, la normativa europea contiene la presenza della disgiunzione “o” in luogo della congiunzione “e” tra i due presupposti applicativi per cui sarà bastevole uno dei due requisiti, alternativamente all'altro (fumus boni iuris evidenziato dalla incompatibilita' della decisione alla normativa doganale e periculum in mora costituito dal danno irreparabile per l'interessato) per ottenere la sospensione (Corte di Giustizia, 17 luglio 1997, C-130/95, Giloy).

Peraltro – ove siano in discussione dazi doganali(all'importazione o all'esportazione) – la sospensione dovrà essere sempre condizionata alla costituzione di una garanzianell'interesse dell'autorità doganale, sacrificabile a favore del debitore d'imposta –in base ad una valutazione documentata-solo allorché la prestazione si riveli pregiudizievole per le sue condizioni economiche e sociali.

Quanto al meccanismo dei rimedi “concorrenti” (amministrativo e giurisdizionale) il sistema nazionale è venuto in parte ad incrinarsi per effetto della istituita “unitarietà” della giurisdizione tributaria realizzata con l'ampliamento delle materie di competenza delle Commissioni tributarie in virtù del disposto dell'art. 12, comma 2, della L. n. 448/2001 (in vigore dal 1° gennaio 2002) che ha riformulato l'art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992.

La tutela giustiziale amministrativa prevista per taluni tributi minori e soprattutto nel settore doganale ed in quello collegato delle accise (ricorso gerarchico ex art. 1 del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199) è stata, infatti, ritenuta implicitamente abrogata poiché la riconduzione delle relative controversie all'intera disciplina del contenzioso tributario quale delineata dal D.Lgs. n. 546/1992 avrebbe reso incompatibili le previgenti disposizioni che prevedevano la proponibilità del ricorso amministrativo avverso i relativi atti di imposizione e/o irrogazione di sanzioni, vista la mancanza di disposizioni di raccordo temporale con il ricorso avanti alle Commissioni da proporsi nel prescritto termine di decadenza (60 giorni) dalla notificazione dell'atto.

Il gravame amministrativo e' stato preservato solo nei procedimenti rivolti alla risoluzione delle controversie doganali disciplinate dagli artt. 65 e seguenti del TULD (con possibilità impugnatoria avanti al giudice tributario delle “determinazioni di vertice”), fase peraltro oggi soppressa nei procedimenti di revisione e rettifica (ex post) richiamati dall'art. 11 D.Lgs. n. 374/1990 (la controversia doganale è una procedura di natura prevalentemente “fattuale e tecnica” rientrante, come sub procedimento, nell'ambito dell'attività amministrativa di accertamento, cui già era stata apportata l'ulteriore semplificazione della eliminazione della “seconda istanza” - che consentiva impugnazione al Ministro delle finanze della decisione adottata dal Direttore compartimentale-, seguita dalla soppressione dei Collegi consultivi dei periti (stante il loro mancato riordino) che erano chiamati per la loro competenza tecnica a fornire un parere obbligatorio ancorché non vincolante al Direttore della dogana)).

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