Ne bis in idem contro le doppie sanzioni tributarie. Natura e soluzioni al test del giudice nazionale

Stefano Loconte
29 Marzo 2017

La verifica della natura penale delle sanzioni formalmente amministrative e la conseguente chiusura dei procedimenti penali che abbiano originato una violazione del diritto di cui all'art. 4, prot. 7, CEDU, permetterebbe al giudice nazionale di sanare le ipotesi di lesione del principio del ne bis in idem sostanziale e procedurale. È quanto emerge dalle conclusioni depositate il 12 gennaio scorso dall'Avvocato generale nei procedimenti C-217/15 e C-350/15 in omaggio agli indirizzi ormai consolidati delle Alte Corti europee.
Inquadramento

Il divieto di bis in idem è sancito nell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea rubricato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato» e nell'art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) rubricato «Diritto a non essere giudicato o punito due volte».

Il suddetto principio di matrice Europea è stato più volte declinato dalle Alte Corti che con le proprie sentenze interpretative ne hanno delimitato l'estensione (9 marzo 2006, C-436/04; 26 febbraio 2013, C-617/10Caso Fransson”; 5 giugno 2014, C-398/12) e le modalità applicative (4 marzo 2014 “Caso Grande Stevens”; 20 maggio 2014, “Caso Nikanen”; 20 maggio 2014 “Caso Glantz”; 20 maggio 2014 “Caso Hakka”; 27 novembre 2014 “Caso Lucky Dev”; 27 gennaio 2015 “Caso Rinas”).

Riconoscendo garanzie sempre più avanzate sul tema, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che l'operatività del suddetto divieto in ciascuno degli Stati membri non deve intendersi limitata ai processi penali ma a tutti quei procedimenti che diano luogo a sanzioni sostanzialmente penali.

A tal fine la Corte EDU, prescindendo dalla classificazione giuridica delle sanzioni offerta da ciascuno Stato membro, ha elaborato fin dagli anni '70 una serie di criteri – per la prima volta definiti nel “Caso Engel” e progressivamente affinati da ultimo con la celeberrima sentenza “Grande Stevens" – volti a definire il carattere penale dei procedimenti e delle sanzioni nazionali e conseguentemente estendere le garanzie convenzionali del giusto Processo.

Da ciò deriva che l'applicazione del ne bis in idem implica secondo la Corte di Strasburgo due tipi di accertamento: quello dell'identità del fatto materiale, intesa come sovrapponibilità delle condotte nello spazio e nel tempo, su cui si fondano i distinti procedimenti giurisdizionali e quello della natura (penale) dell'illecito su cui detti procedimenti vertono. Verificata la sussistenza di tali presupposti, deve considerarsi vietata la duplicazione delle sanzioni (cd. ne bis in idem sostanziale) e/o la duplicazione dei procedimenti (cd. ne bis in idem processuale) atteso che la perseguibilità dell'idem factum sia come illecito amministrativo sia come reato comporterebbe la violazione del principio in esame.

Contrariamente all'interpretazione granitica espressa dalla giurisprudenza della Corte EDU, nell'ordinamento italiano il divieto di bis in idem è sancito esclusivamente nell'ambito della giurisdizione penale, precisamente nell'art. 649 c.p.p. rubricato «Divieto di un secondo giudizio». Di conseguenza, posto che tutti i reati cd. tributari, contemplati dal D.Lgs. n. 74/2000, presuppongono condotte sanzionate anche ai sensi del D.Lgs. n. 471/1997, non di rado si assiste al cumulo di norme punitive di natura formalmente amministrativa e penale a carico del medesimo soggetto.

Come noto, il D.Lgs. n. 74/2000, nel disciplinare organicamente i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, appare orientato al principio del cd. “doppio binario” sanzionatorio. L'art. 13 del citato decreto, infatti, prevede espressamente la possibilità di cumulare (seppur con le eccezioni che si illustreranno in seguito) la sanzione penale e quella amministrativa irrogata ai sensi dei decreti legislativi n. 471/1997 e n. 472/1997, non ravvisando il Legislatore alcuna violazione del divieto di bis in idem né in caso d'irrogazione cumulativa di sanzioni aventi natura penale e formalmente amministrativa né nel caso di contemporanea pendenza di procedimenti penali e amministrativi oggetto di diversa giurisdizione a fronte dell'idem factum.

Il sistema sanzionatorio tributario italiano non sembra neppure in linea con l'orientamento espresso più di recente dalla Corte EDU che, nella sentenza 15 novembre 2016 “Caso A e B. v. Norvegia”, in un apparente cambio di rotta, ha escluso la violazione del divieto di bis in idem nel caso in cui vi sia collaborazione tra gli organi inquirenti che presiedono ogni fase dei singoli procedimenti, penale e amministrativo, e laddove la risposta sanzionatoria, complessivamente intesa, risponda ai canoni di proporzionalità e preventiva conoscibilità da parte del contribuente.

Ebbene, il principio del doppio binario sanzionatorio che regola il sistema nazionale comporta di fatto il rischio sempre più frequente che il contribuente sia assoggettato a due diversi procedimenti che, non essendo strettamente connessi, concorrono all'irrogazione di due diverse sanzioni, la seconda delle quali tuttavia non viene graduata in funzione di quella già inflitta, con evidente grave lesione dei principi di ne bis in idem e di proporzionalità della pena.

La questione del doppio binario sanzionatorio nazionale

La questione attinente il cumulo sanzionatorio e la sovrapposizione dei processi nell'ordinamento nazionale ha generato negli anni un aspro dibattito in dottrina e giurisprudenza. Il principio del doppio binario previsto dalla legislazione italiana per gli illeciti tributari e l'applicabilità cumulativa in relazione allo stesso fatto delle sanzioni previste dall'art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 sembrano, infatti, violare il parametro costituzionale di cui all'art. 117, primo comma, della Costituzione in relazione all'art. 4 del Protocollo 7 alla CEDU in forza del quale «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

Il conflitto tra la normativa interna e il principio del Diritto Europeo appare negli anni sempre più radicalizzatosi, posto che né la Corte Costituzionale, né la Cassazione e neppure la Corte di Giustizia, pur chiamate a pronunciarsi in materia, sono riuscite ad offrire soluzione al problema della duplicità del sistema sanzionatorio tributario nell'ordinamento nazionale.

In un primo momento la questione del cumulo delle sanzioni sembrava poter essere risolto dal Legislatore nazionale mediante l'introduzione nel nostro ordinamento, con specifico riferimento alla materia tributaria, del principio di specialità di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 74/2000, in base alla quale «quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II del decreto in esame e da una che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale».

Disegnando il rapporto tra i due procedimenti, penale e amministrativo, e prevedendo la prevalenza della norma speciale laddove la medesima fattispecie fosse punita sia dalla disciplina sanzionatoria penale che da quella formalmente amministrativa, la norma avrebbe dovuto prevenire la violazione del ne bis in idem sanzionatorio.

Il Legislatore del 2000, tuttavia, non aveva fatto i conti con la frequente complessità dell'individuazione del carattere di specialità della norma, idonea a garantire l'applicazione della sola sanzione penale in luogo di quella amministrativa, con la conseguenza che – di fatto – l'art. 19 del citato decreto non si è dimostrato in grado di garantire l'auspicato rispetto del principio del ne bis in idem.

Nel segno del superamento di quella controversa e contestata duplicazione delle sanzioni tributaria deve leggersi pure l'introduzione del successivo art. 21 del D.Lgs. n. 74/2000 che, pur disponendo che le sanzioni amministrative per le violazioni penalmente rilevanti sono irrogate dall'Ufficio e sono oggetto di esame nel processo tributario, ha previsto la sospensione della loro riscossione fino alla fine del processo penale.

Anche in questo caso la cautela prevista dal Legislatore del 2000, pur pensata per evitare il bis in idem sostanziale, non è risultata idonea a contrastare la duplicazione dei processi.

Con specifico riferimento agli illeciti commessi in violazione della disciplina IVA, dirimente ma discusso è apparso nel 2013 l'intervenuto della Suprema Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 37424. I giudici di legittimità, infatti, chiamati a sciogliere il contrasto insorto in relazione al rapporto tra l'illecito amministrativo di cui all'art. 13 del D.Lgs.n. 471/1997 e quello penale di cui all'art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000, hanno escluso che tra le due norme sussista un rapporto di specialità e hanno invece ritenuto configurabile un rapporto di progressione criminosa.

In particolare, la Suprema Corte ha affermato che il reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto (art. 10-ter, D.Lgs. n. 74/2000), che si consuma con il mancato pagamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore ad euro cinquantamila, entro la scadenza del termine per il pagamento dell'acconto relativo al periodo di imposta dell'anno successivo, non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con l'art. 13, comma primo, D.Lgs. n. 471/1997, che punisce con la sanzione amministrativa l'omesso versamento periodico dell'imposta entro il mese successivo a quello di maturazione del debito mensile IVA, con la conseguenza che è legittimo applicare al trasgressore entrambe le sanzioni.

La soluzione offerta dal decreto "Sanzioni"

Con le recenti modifiche normative contenute nel D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (cd. decreto "Sanzioni") avente ad oggetto la "Revisione del sistema sanzionatorio" in attuazione dell'art. 8, comma 1, della Legge delega 11 marzo 2014, n. 23”, il Legislatore italiano, nel ridisegnare il sistema delle sanzioni penali-tributarie, con effetto dal 22 ottobre 2015, sembra aver previsto un meccanismo potenzialmente idoneo ad evitare il cumulo della sanzione amministrativa con quella penale in capo al responsabile di condotte illecite connesse agli obblighi di versamento.

La scelta è stata quella di prevedere l'estinzione del debito tributario come una causa di non punibilità.

In particolare, il novellato art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000 prevede che il pagamento del dovuto, comprensivo di interessi e sanzioni amministrative, entro specifici termini, comporta l'esclusione della punibilità (in luogo della previgente mera riduzione di pena) per i reati di omesso versamento di IVA (art. 10-ter D.Lgs. n. 74/2000), di ritenute (art. 10-bis, D.Lgs. n. 74/2000) e di indebita compensazione (art. 10-quater comma 1 D.Lgs. n. 74/2000) se esso avviene prima dell'apertura del dibattimento di primo grado.

Inoltre la norma prevede l'irrilevanza penale dei reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5 del D.Lgs. n. 74/2000 se il ravvedimento operoso o la presentazione della dichiarazione omessa intervengano prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.

Per tutti gli altri reati disciplinati dal D.Lgs. n. 74/2000, invece, il pagamento del debito comporta la riduzione della pena.

Il meccanismo di non punibilità e la riduzione della pena in funzione della piena soddisfazione dell'erario diventano così un incentivo per il contribuente a regolarizzare la propria posizione fiscale per godere di un alleggerimento della risposta sanzionatoria prevista dall'ordinamento che, in tal modo, appare più coerente ai canoni di proporzionalità e al principio del ne bis in idem sostanziale.

Il test del giudice nazionale sulla natura penale della sanzione

Eppure, al di là delle circoscritte ipotesi contenute nel novellato art.13 del D.Lgs. n. 74/2000, in omaggio agli indirizzi ormai consolidati delle Alte Corti europee, la soluzione all'annosa questione dell'incompatibilità tra l'ordinamento italiano e il principio comunitario del ne bis in idem potrebbe risiedere nel carattere sostanzialmente penale dell'intero impianto sanzionatorio amministrativo penal-tributario nazionale delineato dal D.Lgs. n. 471/1997 e dal D.Lgs. n. 472/1997.

Invero, la metodologia di determinazione delle sanzioni formalmente amministrative in funzione della responsabilità, della condotta e della personalità (dolosa o colposa) del contribuente, ed il carattere oggettivamente afflittivo e repressivo delle stesse rivelano gli evidenti connotati penalistici di un sistema che per volontà del Legislatore del '97 ha da molti anni ormai perso quel carattere risarcitorio nei confronti dell'Erario che aveva in precedenza.

Nel Caso Nykanen la Corte ha affermato chiaramente la natura sostanzialmente penale degli illeciti formalmente classificati “amministrativi” secondo la legge nazionale in quanto devono essere qualificate come “penali”, a prescindere dal nomen iuris, tutte quelle sanzioni che:

  • sono previste da una norma di legge generale applicabile a tutti i contribuenti;
  • non hanno una funzione compensativa del danno erariale arrecato;
  • realizzano una chiara funzione punitiva e deterrente al pari di quelle formalmente definite “penali”.

In questo senso sono orientate le conclusioni depositate il 12 gennaio scorso dall'Avvocato generale nei procedimenti C-217/15 e C-350/15 che - pur esprimendosi con riferimento alle previsioni sanzionatorie di cui agli art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 e art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 in tema di omesso versamento IVA - sembrano destinate ad assumere portata generale e, dunque, a riflettere importati ricadute sul sistema del doppio binario.

Richiamando le esperienze delle Corti sovranazionali, invero, l'Avvocato generale non solo ha ricordato quanto ormai pacifico, ovvero che l'operatività del principio di ne bis in idem implica l'identità dei destinatari delle sanzioni e del fatto materiale colpito dalla previsione tributaria e incriminatrice, ma ha altresì precisato che l'esclusione della doppia punibilità IVA, amministrativa e penale, può aversi allorquando la sanzione fiscale abbia nella sostanza natura penale, prescindendo dal nomen iuris attribuitole.

Risultato evidente di una corretta applicazione dei principi declinati dalla Corte EDU, le conclusioni dell'Avvocato generale sembrano ripercorrono i contenuti della sentenza Nykanen e Grande Stevens nella parte in cui, rilevata l'esistenza nell'ordinamento nazionale di alcune sanzioni che, pur formalmente definite “non penali”, manifestano un contenuto e una funzione essenzialmente afflittiva e punitiva, escludono che lo stesso fatto materiale possa essere legittimamente punito anche con l'irrogazione di una sanzione qualificata “penale”, salvo che tra le due sanzioni non sia operativo un criterio di alternatività, idoneo ad evitare il bis in idem.

In altri termini, proprio in virtù dei principi convenzionali declinati dalla Corte EDU, l'autore del reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, che già abbia subito una sentenza definitiva di condanna al pagamento della sanzione amministrativa (rectius, “penale”) pecuniaria in favore dell'erario, sarebbe immune dalla pena reclusiva atteso che l'ordinamento nazionale non può permettere che il medesimo soggetto, per lo stesso fatto, sia sottoposto anche ad un procedimento penale per l'irrogazione di un'altra sanzione “penale”.

Il compito di valutare nel caso concreto se la sanzione amministrativa – al di là della sua qualificazione giuridica – assuma natura intrinsecamente penale o meno, é rimesso al giudice nazionale.

Il vaglio richiesto potrà essere operato proprio alla luce dei cd. «criteri Engel», elaborati dalla Corte EDU per la prima volta nel Caso Engel (sentenza 8 giugno 1976), progressivamente corretti e perfezionati dalla Corte EDU e fatti propri prima dalla Corte di Giustizia (nel Caso Fransson) e poi dalla giustizia nazionale (v. Tribunale Penale di Asti, sent. n. 717/2015).

Essi attengono essenzialmente all'enucleazione di tre fattori:

(i) la qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale;

(ii) la natura dell'illecito;

(iii) il grado di severità della sanzione che rischia di essere irrogata.

Il primo criterio rappresenta il punto di partenza dell'analisi posto che, se l'ordinamento qualifica la sanzione in esame come “penale” non sarà necessario valutare anche gli elementi sostanziali dell'illecito.

Il secondo criterio mira invece a verificare se:

(i) la norma che prevede la sanzione è posta a tutela del funzionamento di una determinata formazione sociale oppure è diretta erga omnes a garanzia dei beni giuridici della collettività;

(ii) la sanzione viene irrogata da un'autorità pubblica a cui lo Stato conferisce poteri sanzionatori;

(iii) la norma sanzionatoria ha funzione deterrente e repressiva e non risarcitoria del danno arrecato dall'illecito;

(iv) l'irrogazione della sanzione è subordinata alla responsabilità personale dell'autore dell'illecito.

Il terzo criterio, infine, attiene alla valutazione della gravità della sanzione irrogabile in rapporto al suo massimo edittale.

Sulla base dei criteri Engel, appurate anche le caratteristiche penali dell'illecito pur formalmente “catalogato” amministrativo, sarebbe dunque possibile qualificare le sanzioni tributarie di cui al D.Lgs. n. 471/1997 e al D.Lgs. n. 472/1997 come sanzioni sostanzialmente penali, per questo motivo non cumulabili con quelle “penali” previste dal D.Lgs. n. 74/2000 in omaggio al principio del ne bis in idem.

In conclusione

Accertata la natura penale della sanzione formalmente amministrativa e la definitività del procedimento tributario che ha dato origine alla condanna al pagamento del debito erariale, il giudice italiano sarà chiamato ad individuare anche lo strumento processuale più idoneo a porre fine al processo penale in corso onde evitare che la lesione del principio del ne bis in idem prosegua.

L'adeguamento agli obblighi enunciati dalla Corte EDU potrebbe essere ricercato attraverso il ricorso alla Corte Costituzionale mediante la proposizione di una questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.c. per contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione in riferimento all'art. 4, prot. 7, CEDU, nella parte in cui la disposizione impugnata non prevede che il giudice debba pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere anche nell'ipotesi in cui l'imputato sia già stato giudicato per la medesima condotta, con provvedimento irrevocabile, in un procedimento che – seppur formalmente amministrativo – debba ritenersi sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea e dei suoi protocolli.

A tale strumento, tuttavia, si ritiene preferibile – anche per snellire la procedura e garantire il rispetto dei principi convenzionale in tempi più brevi – la pronuncia di una sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere in applicazione dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che, in quanto norma di diritto primario dell'Unione, è idonea a produrre effetti diretti e privilegiati nell'ordinamento dello Stato membro anche laddove in contrasto con la normativa nazionale.

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