Il procedimento disciplinare ed il licenziamento dei pubblici dipendentiFonte: D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165
06 Settembre 2017
I principi generali della materia disciplinare
Il rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione è stato caratterizzato per lungo tempo da un sistema autonomo rispetto a quello del rapporto di lavoro privato.
Di conseguenza, anche i tipici poteri datoriali, in primis quello disciplinare, hanno avuto un fondamento e una natura giuridica peculiari.
La “privatizzazione” del pubblico impiego, avviata dalla Legge delega n. 421 del 1992 e proseguita con le successive riforme del 1997 e del 2001, ha radicalmente mutato il regime giuridico dell'intero rapporto con estensione delle norme proprie del rapporto di lavoro privato anche al pubblico impiego.
Nel D.Lgs. n. 165 del 2001, anche detto Testo Unico del Pubblico Impiego (T.U.P.I.), ritroviamo espressamente statuito che il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche è disciplinato, ove in esso non diversamente statuito, dalle disposizioni di cui al capo I, titolo II, libro V del c.c., dalle leggi sull'impiego privato, dal contratto individuale e dalla Legge 20 maggio 1970, n. 300 la quale trova applicazione a prescindere dal numero di dipendenti (vd. art. 2 e art. 51 T.U.P.I.).
Da ciò ne è conseguito il riconoscimento, anche in capo al datore di lavoro pubblico, del potere di comminare sanzioni (vd. artt. 51 e ss. del T.U.P.I.)
Nel settore pubblico, come in quello privato, l'esercizio di detto potere è ancorato al rispetto di principi generali della predeterminazione delle infrazioni e delle sanzioni comminabili, della proporzionalità, della gradualità e della tempestività.
Ritroviamo, però, un ulteriore principio generale, sconosciuto al lavoro privato, che è quello dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare.
Tale principio, anche se non espressamente normato, è divenuto chiaramente desumibile con l'introduzione, ad opera del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, dell'art. 55-sexies, comma 3 (oggi modificato dall'art. 17, D.Lgs. n. 75/2017).
La norma prevede il sorgere di una specifica responsabilità disciplinare in capo al responsabile del procedimento laddove, per condotte colpose o dolose a lui imputabili, si verifichi l'ipotesi di mancato esercizio o decadenza dall'azione disciplinare.
Del resto il prevedere l'azione disciplinare come obbligatoria risponde al principio costituzionale di buon andamento dell'azione amministrativa ai sensi dell'art. 97 Cost., rispetto al quale viene ritenuta non ammissibile la tolleranza di alcun fenomeno di illegalità all'interno dell'apparato pubblico. Le fonti del potere disciplinare nella pubblica amministrazione – il difficile contemperamento tra legge e contrattazione collettiva
Per quanto attiene specificatamente le fonti del potere disciplinare queste sono da individuarsi, anche nel settore pubblico, nella legge e nel contratto collettivo.
Il processo di contemperamento tra le fonti non è stato, però, sempre di facile gestione.
Con l'emanazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, il legislatore aveva posto in essere un sistema basato sulla coesistenza della fonte negoziale con quella legale con ampio margine di discrezionalità in capo alla contrattazione collettiva per la determinazione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni.
Con la Legge delega n. 15 del 2009 e il successivo D.Lgs. n. 150 del 2009 (c.d. riforma Brunetta) il sistema delle fonti del potere disciplinare è stato profondamente modificato.
Anche per la materia disciplinare si è assistito ad un processo di ri-legificazione con ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva.
La legge, infatti, è tornata ad essere lo strumento per la disciplina non solo degli aspetti formali della materia disciplinare (fasi e termini del procedimento disciplinare), ma anche quelli sostanziali (infrazioni disciplinari e conseguenti sanzioni).
Il legislatore del 2009 ha, di fatto, riconosciuto alla contrattazione collettiva un ruolo meramente residuale anche nell'individuazione delle infrazioni e delle sanzioni.
Pur essendo rimasta sempre in vigore la disposizione di cui all'art. 55, comma 2, secondo cui “salvo quanto previsto dal presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”, tale facoltà è stata consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme imperative di legge (art. 40, co. 1, ultimo periodo) senza facoltà di deroga alcuna, salvo casi espressamente previsti.
Bisogna attendere l'ultima riforma del T.U., attuata con il D.Lgs. n. 75/2017 per assistere ad una parziale ri-espansione dello spazio negoziale anche nell'ambito disciplinare.
Il Decreto ha introdotto, modificando l'art. 2, co. 2, la possibilità per i contratti collettivi nazionali di derogare alle disposizioni di legge (e di regolamenti e statuti) anche se solo nelle materie già affidate alla contrattazione collettiva a norma dell'art. 40, comma 1 del medesimo testo di legge, tra cui quella delle sanzioni disciplinari.
Si può, quindi, ritenere che il sistema delle fonti del potere disciplinare, pur essendo ancora molto sbilanciato a favore della legge vede una nuova apertura nei confronti della fonte negoziale.
Ad oggi, però, in assenza di specifiche disposizioni negoziali, abbiamo che sono espressamente disciplinate dalla legge una molteplicità di infrazioni e sanzioni tra cui:
Oltre alle ipotesi esaminate, tutte comportanti l'applicazione di sanzioni conservative salvo il caso di recidiva o di particolare gravità della condotta, il legislatore ha previsto espressamente anche ipotesi in cui la sanzione è quella del licenziamento (art. 55-quater, si rinvia al par. 5).
Stante, come detto, la previsione per cui i contratti collettivi possono, pro futuro, derogare alle disposizioni di legge (art. 2, comma 2) occorrerà attendere i primi rinnovi contrattuali per verificare come la fonte negoziale, con riferimento a tali ipotesi sanzionatorie, interverrà sull'impianto normativo.
Da ultimo si fa rilevare che nell'impiego pubblico sussiste una fonte “atipica” di responsabilità disciplinari, ovvero il codice di comportamento.
Con la riforma del 2009, il legislatore ha, infatti, espressamente previsto che “la violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento (…) è fonte di responsabilità disciplinare” (art. 54).
Il codice di comportamento è, quindi, fonte di infrazioni disciplinari per le quali la determinazione delle sanzioni è rimessa alla contrattazione collettiva.
Per tutte queste infrazioni e sanzioni è prevista, anche nel settore pubblico, la preventiva necessaria “affissione” del codice.
Ai sensi dell'art. 55 T.U. la pubblicazione del codice disciplinare sul sito istituzionale dell'amministrazione equivale all'affissione all'ingresso della sede di lavoro. La titolarità del potere disciplinare e l'iter del procedimento: contestazione dell'addebito, istruttoria e archiviazione o adozione della sanzione
La commissione di un'infrazione da parte di un lavoratore determina l'attivazione di un procedimento disciplinare.
L'iter disciplinare trova la sua fonte nell'art. 55-bis del D.Lgs. n. 165/2001.
Tale articolo è stato profondamente modificato dal D.Lgs. n. 75/2017.
Nell'attuale formulazione il legislatore è giunto a prevedere due iter disciplinari a seconda del tipo di sanzione edittale applicabile.
È stato, pertanto, statuito che per le infrazioni per le quali è previsto il rimprovero verbale, l'iter disciplinare è quello disciplinato dal contratto collettivo, mentre per tutte le altre infrazioni l'iter disciplinare è quello previsto per legge.
Con riferimento al primo dei due procedimenti, come detto, il rinvio è alla contrattazione collettiva e alle procedure da questa previste.
Tale devoluzione determina la facoltà per i contratti collettivi di decidere termini per l'irrogazione della sanzione differenti da quelli previsti per legge sempre all'art. 55-bis.
La possibilità di individuare termini diversi nell'ambito del procedimento disciplinare sembrerebbe concessa nei soli casi di procedimenti aventi ad oggetto fatti punibili con il rimprovero verbale.
Ciò in quanto l'art. 55-bis, comma 9-bis, vieta espressamente alla contrattazione collettiva qualsiasi modifica procedurale al regime disciplinato delineato dal D.Lgs. n. 165/2001.
Con riferimento a tale iter disciplinare l'unica previsione legislativa attiene al soggetto “responsabile del procedimento” che viene individuato nel “responsabile della struttura” presso cui opera il dipendente.
Posto che il responsabile della struttura è il soggetto responsabile del procedimento, è possibile ritenere che ove l'illecito determinante l'applicazione della sanzione del rimprovero verbale sia stato compiuto proprio nei suoi confronti, si ritiene che, onde evitare la potenziale annullabilità del provvedimento per “conflitto di interessi” sia possibile per quest'ultimo, anziché promuovere direttamente ed esclusivamente l'azione disciplinare, dare inizio alla stessa segnalando l'avvio della vicenda disciplinarmente rilevante all'ufficio per i procedimenti disciplinari così che lo stesso possa proseguire l'istruttoria garantendo la necessaria terzietà.
Pur non riscontrandosi precedenti giurisprudenziali in termini, neppure con riferimento al vecchio testo (in cui la competenza del responsabile della struttura era estesa dal rimprovero verbale alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione sino a dieci giorni), deve infatti considerarsi che sia il TAR che il Consiglio di Stato hanno in passato ritenuto illegittime sanzioni irrogate da collegi disciplinari nei quali era presente il soggetto che era stato vittima della manchevolezza sanzionata perché in contrasto con il principio di imparzialità ex art. 97 Costituzione. (T.A.R. Campobasso, sez. I, 24 settembre 2008, n.718; Consiglio di Stato, sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3136 (incompatibilità come membro del collegio di soggetto che aveva redatto la contestazione disciplinare esprimendosi per la colpevolezza del pubblico dipendente); T.A.R. Torino, sez. I, 09 gennaio 2015, n. 24 (secondo il quale soltanto il diretto interessamento nell'infrazione comporta l'incompatibilità del membro del collegio, ma non l'avere partecipato all'istruttoria).
Con riguardo ai procedimenti aventi ad oggetto fatti puniti con sanzioni superiori al richiamo verbale, invece, il novellato art. 55-bis co. 4 ha previsto che responsabile del procedimento sia l'ufficio per i procedimenti disciplinari.
La legge prevede altresì i termini del procedimento, termini che, con la riforma apportata dal D.Lgs n. 75/2017, sono stati in parte modificati. Segnatamente abbiamo che:
Il procedimento descritto non trova applicazione nelle ipotesi disciplinare dall'art. 55-quater, co. 3, ovvero quelle in cui vi sia l'accertamento di condotte disciplinarmente rilevanti in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o registrazione degli accessi o delle presenze della falsa attestazione delle presenze in servizio.
Al ricorrere di dette infrazioni il procedimento disciplinare prevede: 48 ore per la contestazione, da effettuare con il medesimo atto che predispone la sospensione cautelare, 30 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare (art. 55-quater, commi 3-bis e 3-ter come introdotto dal D. Lgs. n. 116/2016).
Il legislatore ha altresì provveduto a disciplinare due ipotesi particolari, ovvero quella del trasferimento o della cessazione del rapporto intervenute prima della conclusione dell'iter disciplinare.
Per quanto attiene il trasferimento, all'art. 55-bis, co. 8, viene stabilito che l'UPD di provenienza, che ha in carico gli atti, deve tempestivamente trasmetterli all'UPD dell'amministrazione presso cui il dipendente è stato trasferito.
Il trasferimento interrompe il procedimento disciplinare e determina la decorrenza dalla ricezione degli atti da parte del nuovo ufficio, di nuovi termini per la contestazione dell'addebito o per la conclusione del procedimento.
Laddove, invece, il rapporto dovesse cessare ai sensi dell'art. 55-bis, comma 8, il procedimento disciplinare si estingue salvo che per la violazione oggetto di contestazione la sanzione prevista sia quella del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio. In tal caso il procedimento disciplinare dovrà comunque giungere a conclusione nel rispetto dei termini dettati al co. 4 del medesimo articolo.
L'importanza del rispetto dei termini procedurali è sottolineata dalla disposizione di cui al nuovo co. 9-bis introdotto dal D.Lgs. n. 75/2017.
Con tale nuova previsione il legislatore ha espressamente previsto la nullità di disposizioni contenute in regolamenti, contratti o disposizioni interne agli uffici che individuino “requisiti formali o procedurali ulteriori rispetto a quelli indicati nel presente articolo o che comunque aggravino il procedimento disciplinare”.
È qui evidente l'intento di ridurre la produzione normativa interna circoscrivendone l'ambito di intervento in special modo in una materia che, come la responsabilità disciplinare, necessita di certezza e chiarezza, al fine di garantire un effettivo diritto di difesa al dipendente, rendendo al contempo efficaci e certi i termini dell'iter procedurale.
Con il D.Lgs. n. 75/2017 il legislatore ha, però, voluto prevedere una clausola definita da alcuni commentatori di “salvaguardia” e ciò al fine di evitare che il mancato rispetto dei termini intermedi del procedimento potesse portare all'impossibilità di comminare la sanzione per vizio procedurale.
E' stato, quindi, inserito un nuovo co. 9-ter, il quale prevede che “la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare né l'invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell'azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell'addebito e il termine per la conclusione del procedimento”.
Viene, così, consolidato a livello normativo l'orientamento della Suprema Corte secondo il quale la natura dei termini previsti per lo svolgimento del procedimento disciplinare deve essere definita con riguardo allo scopo che essi perseguono nel procedimento, nella prospettiva di un'inderogabile garanzia della necessaria legittimità di tutto il relativo procedimento.
Con la conseguenza che il carattere della perentorietà non è generalmente rinvenibile in tutti i termini volti a cadenzarne l'andamento, ma deve essere riconosciuto solo a quello stabilito per la sua conclusione (sul punto si vedano tra le tante Cass., sez. lav., n. 7601/2005, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 26 settembre 2001, n. 5049; in senso analogo anche Cass. sez. lav., n. 6091/2010; Cass. sez. lav., n. 5637/2009 e n. 20654/2007, nonché Cass. sez. lav., 11 settembre 2014, n. 19216 secondo cui “in tema di sanzioni disciplinari, qualora siano previsti termini volti a scandire le fasi del procedimento disciplinare e un termine per la conclusione di tale procedimento, solo quest'ultimo è perentorio, con conseguente nullità della sanzione in caso di inosservanza, mentre i termini interni sono ordinatori e la violazione di essi comporta la nullità della sanzione solo nel caso in cui l'incolpato denunci, con concreto fondamento, l'impossibilità o l'eccessiva difficoltà della sua difesa”).
La ratio della norma è, evidentemente, quella di assicurare l'effettività del diritto di difesa del dipendente. E ciò in quanto una contestazione che avvenga a ridosso dei fatti consente all'incolpato di poter contrastare più efficacemente il contenuto delle accuse rivoltegli dal datore di lavoro, potendo questi incontrare difficoltà nel preparare il materiale difensivo (eventuali testimonianze e documentazione) a notevole distanza di tempo dall'accaduto.
Stante la specifica individuazione dei termini da considerarsi perentori, quindi, è evidente che tali non siano i 20 giorni di preavviso previsti per la convocazione del dipendente a sua difesa, né l'audizione dell'interessato, atto che era ritenuto indefettibile a pena di nullità della sanzione nella vecchia versione dell'art. 55-bis.
Dalla complessiva impostazione della riforma e degli interventi da questa operata sull'art. 55-bis, è possibile intuire una ratio volta alla “salvezza dello scopo”, anche nel caso di mancata audizione del dipendente o del mancato rispetto del preavviso di 20 giorni, qualora si sia realizzata, ad esempio, una compiuta difesa attraverso deposito di memorie, dimostrando il dipendente di aver ben compreso le contestazioni mossegli, per avvalorare il fatto che il contraddittorio è stato comunque preservato e la tempestività della contestazione osservata.
Tale interpretazione sembrerebbe in linea con un recente indirizzo giurisprudenziale (Cass. sez. lav., n. 14106/2016), che ha superato l'indefettibilità dell'audizione del dipendente il quale, nelle proprie difese scritte, abbia addirittura riconosciuto la fondatezza dell'addebito mossogli, agendo in giudizio avverso il provvedimento datoriale solo per censure formali.
Tuttavia, anche considerando la lettera della norma, che si riferisce alla grave compromissione dei diritti di difesa del dipendente, sembrerebbe coerente ritenere che, per il computo dei termini a difesa, che precede l'audizione dell'interessato, e la cui contrazione da parte della PA non dovrebbe comportare automaticamente l'invalidazione della sanzione, occorra avere riguardo al momento in cui il lavoratore abbia avuto conoscenza degli addebiti mossi e, dunque, alla data di ricevimento della contestazione, elemento fondamentale per poter predisporre una difesa circostanziata in relazione ai fatti oggetto di addebito. Le possibili interferenze del procedimento penale su quello disciplinare
Fino al 2009, nel caso in cui l'infrazione commessa dal lavoratore avesse determinato anche l'instaurazione di un giudizio in sede penale, vi era un obbligo di sospensione dell'iter disciplinare sino alla definitiva pronuncia dell'organo giurisdizionale.
Con l'art. 55-ter, inserito nel T.U.P.I. dal D.Lgs. n. 150/2009, fa ingresso nell'ordinamento la regola della non sospensione dell'azione disciplinare per la pendenza di procedimento penale che abbia ad oggetto, anche parzialmente, gli stessi fatti addebitati al dipendente.
Tale impostazione è stata confermata anche dal D.Lgs. n. 75/2017, il quale ha altresì introdotto alcune modifiche al testo dell'art. 55-ter.
Ad oggi, il sistema prevede che, ferma la prosecuzione del procedimento disciplinare, è facoltà del responsabile del procedimento optare per la sospensione per le infrazioni per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a 10 giorni.
La sospensione dura fino al termine del procedimento penale, ovvero sino al momento in cui diviene definitivo il provvedimento giurisdizionale.
Il legislatore, però, ha disciplinato anche i casi in cui, essendo proseguito il procedimento disciplinare, ci si ritrovi con una sentenza penale di segno opposto rispetto alle conclusioni disciplinari.
È sempre possibile per la PA riaprire il procedimento disciplinare precedentemente concluso o archiviato in caso di sentenza irrevocabile di condanna per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale, ed eventualmente aggravando la sanzione già comminata, procedendo anche con il licenziamento.
La riattivazione del procedimento disciplinare deve avvenire entro 60 giorni con nuova contestazione degli addebiti.
Il procedimento deve concludersi entro 120 giorni.
Questa soluzione permette alla PA di operare legittimamente anche sforando i ridotti termini procedimentali, soprattutto ove sia intervenuto un giudicato penale complesso, o, al contrario, particolarmente lacunoso, tale da necessitare più approfonditi riscontri istruttori.
Tale facoltà, riconosciuta per legge, ha fatto sorgere problemi in merito alla possibilità di modificare l'originaria contestazione disciplinare all'esito del giudizio penale.
Con la sentenza del 9 giugno 2016 n. 11868, la Corte di Cassazione (sezione lavoro) ha ammesso una possibile modifica così motivando “il principio della immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all'atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l'addebito, ricompreso in quello originario, purchè ciò avvenga nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione”. Il licenziamento disciplinare
Al termine dell'iter disciplinare il responsabile del procedimento procede, ove venga accertata la responsabilità del lavoratore, con la comminazione della sanzione in applicazione del principio della proporzionalità.
Tra le sanzioni applicabili vi è quella del licenziamento disciplinare.
Come rilevato nei paragrafi che precedono il legislatore ha provveduto ad introdurre delle specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare.
Esaminando il testo di legge rileviamo che si prevede la comminazione del licenziamento al ricorrere delle seguenti condotte:
Tale tipizzazione, però, non esaurisce il novero delle condotte idonee a determinare l'irrogazione della sanzione del licenziamento.
Sia in dottrina che in giurisprudenza si ritiene che le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, che integrano gli aspetti sostanziali del licenziamento disciplinare in chiave “ontologica”, sono sicuramente utilizzabili nel lavoro pubblico in virtù dell'art. 2, co. 2 del D.Lgs. n. 165/2001
Al fine di comprendere la differenza tra licenziamento per giusta causa e licenziamento per giustificato motivo soggettivo non possiamo che rifarci, ancora una volta, agli arresti giurisprudenziali elaborati per il settore privato.
Sul punto la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente (ex plurimis Cass. sez. lav., n. 19742/2005, Cass. sez. lav., n. 1475/2004) che tra la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo non esistono differenze qualitative ma solo quantitative, differenziandosi tali figure soltanto per la differente gravità delle mancanze poste in essere dal prestatore di lavoro e dovendo comunque il giudice valutare se il comportamento del lavoratore, che ha dato origine al provvedimento di recesso, sia idoneo a far venir meno l'elemento della fiducia che deve necessariamente sussistere tra le parti.
Anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva o di legge preveda un determinato comportamento quale giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento, il giudice investito della legittimità di tale recesso deve comunque valutare alla stregua dei parametri di cui all'art. 3 della L. n. 604/1966, la proporzionalità, rispetto alla gravità del fatto addebitato al lavoratore e dallo stesso commesso, della sanzione del licenziamento alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.
È stato altresì precisato che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (art. 3 L. n. 604/1966) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).
Anche la previsione da parte della legge del licenziamento (disciplinare) come conseguenza ad una determinata infrazione non esclude il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati ai fini dell'accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva.
Tale giudizio è rimesso al giudice di merito la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione, dovendo ritenersi al riguardo che spetta al giudice di merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.
È, dunque, possibile concludere che, oltre che nei casi espressamente previsti dal legislatore, è possibile aversi un licenziamento disciplinare tutte le volte in cui la condotta sia tale da integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo.
La valutazione della proporzionalità della sanzione è, anche nel settore pubblico, rimessa al giudice. È facoltà del lavoratore colpito dalla sanzione del licenziamento quella di impugnare il provvedimento espulsivo innanzi all'autorità giudiziaria.
Stante tale facoltà, sia in dottrina che in giurisprudenza si è a lungo dibattuto circa l'applicabilità anche nel pubblico impiego dell'art. 18 nella sua versione originaria (ante riforma Fornero, entrata in vigore il 18 luglio del 2012), piuttosto che nella sua attuale versione.
Sul punto è intervenuta anche la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza del 9 giugno 2016, n. 11868.
Con tale pronuncia la Suprema Corte ha negato l'applicabilità dell'art. 18, per come modificato dalla Legge n. 92/2012, mancando un esplicito riferimento, nelle norme, al licenziamento nel pubblico impiego.
Il legislatore ha fatto proprio l'orientamento della Suprema Corte con il D.Lgs. n. 75/2017.
Con l'art. 21 di detto Decreto, il legislatore è intervenuto apportando una modifica all'art. 63, comma 2.
A fronte di tale modifica può ritenersi ad oggi che, per il dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo, opera l'ipotesi della reintegrazione in servizio.
La norma prevede altresì una tutela indennitaria improntata alla logica del “contenimento” del risarcimento relativo al danno arrecato al lavoratore per il c.d. periodo “pre-sentenza”.
La retribuzione utilizzata quale base di calcolo per il numero delle mensilità da riconoscere al dipendente illegittimamente licenziato, è, infatti, quella utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
In ogni caso viene dedotto “l'aliunde perceptum”, ossia quanto il lavoratore ha percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative e la pubblica amministrazione è condannata, per il medesimo periodo, al versamento di contributi previdenziali ed assistenziali.
È, quindi, evidente che sono coperte da tutela reale tutte le ipotesi, sia quelle sorrette da giusta causa che da giustificato motivo (appunto annullabili), sia quelle che comportano la “nullità” del provvedimento espulsivo della pubblica amministrazione (ipotesi di licenziamento discriminatorio, ritorsivo o per motivo illecito determinante, ipotesi tassative di licenziamento nullo).
Ciò appare conforme a quanto rilevato dal giudice delle leggi, secondo cui, a differenza di quanto accade nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere dell'amministrazione di esonerare un dirigente o un dipendente dall'incarico e di risolvere il relativo rapporto è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. 24 ottobre 2008, n. 351).
Sembra quindi potersi affermare che la tutela reale del pubblico dipendente risulti garantita anche rispetto alla violazione di regole formali e procedimentali nel procedimento disciplinare, a differenza di quanto è previsto per il lavoratore privato che vede riconosciuta in questa ipotesi, solo una indennità onnicomprensiva da sei mesi ad un anno determinata ai sensi del novellato art. 18 Stat. Lav. Conclusioni
Anche se caratterizzato da una forte incidenza della fonte legislativa, il sistema disciplinare oggi vigente appare in grado di garantire lo scopo della punibilità delle infrazioni commesse.
Si è, però, ancora lontani dall'obiettivo della completa devoluzione della disciplina del procedimento disciplinare e delle sue sanzioni alle leggi del rapporto di lavoro privato.
Ad oggi, pertanto, permane un regime “speciale” che, per quanto attiene alla sanzione del licenziamento, permette ai dipendenti pubblici di continuare a godere di una tutela, quella reintegratoria, ormai venuta meno nel rapporto di lavoro privato in numerose occasioni e fattispecie, progressivamente dalla riforma del 2012 e poi con il Jobs Act del 2015.
|