Licenziamento per GMO: la legittimità della scelta datoriale ed i limiti costituzionali al sindacato giurisdizionale
16 Dicembre 2016
Massime
Il controllo giurisdizionale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per non sconfinare in valutazioni di merito che si sovrappongano a quelle dell'imprenditore (la cui autonomia è garantita ex art. 41 Cost., comma 1, deve limitarsi a verificare che il recesso sia dipeso da genuine scelte organizzative di natura tecnico-produttiva e non da pretestuose ragioni atte a nasconderne altre concernenti esclusivamente la persona del lavoratore licenziato.
Il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati poi distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta. Il caso
Nella fattispecie la lavoratrice era stata licenziata per ragioni oggettive a seguito di riorganizzazione aziendale che aveva portato alla soppressione delle mansioni di addetta alle pubbliche relazioni cui la stessa era adibita.
Dopo aver visto accolte le sue doglianze avanti al Tribunale di Messina, la Corte d'Appello le aveva invece respinte, ritenendo legittimo l'intervenuto licenziamento.
Avverso detta statuizione la ricorrente agiva avanti la Corte di Legittimità sostenendo che il datore di lavoro avrebbe dovuto provare l'indispensabilità della riduzione dei costi e adducendo l'omesso controllo giudiziale sulla reale sussistenza del motivo di licenziamento. Le questioni
Le questioni trattate ineriscono, sotto vari profili, alcune delle tematiche derivanti dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Le questioni in esame sono:
Le soluzioni giuridiche
I limiti posti dall'art. 41 Cost. al sindacato del Giudice in caso di licenziamento per GMO
Con riguardo alla prima questione va detto che la Corte ribadisce il principio per cui, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al Giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. – il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro.
In caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro, al quale l'art. 41 Cost. - nei limiti di cui al comma 2 - lascia la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell'incremento della produttività aziendale, non è tenuto a dimostrare l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall'art. 3, L. n. 604/1966 e dovendosi altrimenti ammettere la legittimità del licenziamento soltanto laddove esso tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività (conformi, in linea di principio: Cass. sez. lav., 21 novembre 2011, n. 24502; Cass. sez. lav., 10 maggio 2007, n. 10672 e altre).
In altre parole, quel che è vietato non è la ricerca del profitto mediante riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi (nell'ottica dell'art. 41, comma 1, Cost., la libertà di iniziativa economica è finalizzata alla ricerca del profitto), ma il perseguire il profitto (o il contenimento delle perdite) soltanto mediante un abbattimento del costo del lavoro realizzato con il puro e semplice licenziamento d'un dipendente che, a sua volta, non sia dovuto ad un effettivo mutamento dell'organizzazione tecnico-produttiva, ma esclusivamente al bisogno di sostituirlo con un altro da retribuire di meno, malgrado l'identità (o la sostanziale equivalenza) delle mansioni.
Va peraltro evidenziato che esiste anche un orientamento difforme secondo cui le ragioni che integrano il giustificato motivo sono solo quelle dirette a fronteggiare situazioni sfavorevoli che incidono negativamente sulla normale attività produttiva ed impongono la riduzione dei costi al fine di salvaguardare gli equilibri economici dell'impresa. Pertanto, non sono riconducibili alla previsione normativa il ridimensionamento dell'attività che non sia volto a fronteggiare situazioni sfavorevoli consolidate, i riassetti organizzativi che non siano richiesti dalla crisi economica dell'azienda o dalla necessità di sostenere notevoli spese di carattere straordinario, le soppressioni del posto aventi una finalità meramente strumentale all'incremento del profitto (Cass. sez. lav., 16 marzo 2015, n. 5173, e altre).
Le legittime situazioni di soppressione di una postazione lavorativa
Con la seconda questione la Corte approfondisce le tematiche relative alla nozione di licenziamento per ragioni oggettive, in particolare per soppressione del posto.
Al riguardo prende le mosse dal principio per cui rientra nella nozione di giustificato motivo oggettivo la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, senza che sia necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuitegli, ben potendo le stesse essere anche solo diversamente ripartite (in tal senso anche Cass. sez. lav., 28 settembre 2016, n. 19185).
Si tratta di una scelta insindacabile nei suoi profili di opportunità ed efficacia, fermo restando che al Giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore, nel senso che ne risulti l'effettività (la non transitorietà) e la non pretestuosità.
Per cui, in presenza di tali requisiti la soppressione d'una data posizione lavorativa potrebbe derivare:
In tale ultima evenienza, il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non fa venir meno la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati poi distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta (cfr. in tal senso anche Cass. sez. lav., 28 settembre 2016, n. 19185). Osservazioni
La sentenza in esame offre lo spunto per alcune riflessioni sul tema del repechage.
Secondo una prima consolidata opzione interpretativa, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, compete al Giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale quest'ultimo ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage, mediante allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e, conseguendo a tale allegazionem, l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti (Cass. sez. lav., 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. sez. lav., 9 luglio 2013, n. 16979; Cass. sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3040, e altre).
Tale orientamento è stato recentemente rimeditato nel senso che spettano al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione a carico del secondo, perché contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi gravanti sulla parte deducente (Cass. sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. sez. lav., 11 ottobre 2016, n. 20436).
Inoltre, il datore di lavoro ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. sez. lav., 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. sez. lav., 9 novembre 2016, n. 22798).
Tale principio è stato temperato da altre pronunce secondo cui la prova del repechage in mansioni inferiori era necessaria solo qualora il lavoratore avesse dato la propria disponibilità anteriormente al licenziamento (Cass. sez. lav., 18 marzo 2009, n. 6552; Cass. sez. lav., 12 febbraio 2014, n. 3224).
La prova dell'impossibilità del repechage deve investire l'intera struttura aziendale, estendersi, quindi, a tutte le unità produttive in cui l'impresa si articola sul territorio nazionale (Cass. sez. lav., 23 giugno 2010, n. 7381) ed anche alle sedi estere (Cass. sez. lav., 15 luglio 2010, n. 15679), a meno che il lavoratore non abbia manifestato l'intenzione di non trasferirsi altrove, situazione nella quale la prova è dovuta limitatamente alle sedi escluse dal non gradimento (Cass. sez. lav., 16 maggio 2003, n. 7717).
Infine, con riferimento alla novella dell'art. 18 apportata dalla Legge n. 92/2012, è stato chiarito che il caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo accertato come illegittimo per violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore da licenziare nell'ambito di posizioni lavorative omogenee e fungibili, non rientra nell'alveo delle ipotesi residuali che per legge posso dare ingresso alla tutela reintegratoria. In tale ipotesi non possono, infatti, dirsi manifestamente insussistenti le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, di cui all'art. 3, L. n. 604/1966; anzi, tale ipotesi è riconducibile non a quella peculiare che postula un connotato di particolare evidenza nell'insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso, bensì a quella di portata generale per la quale è sufficiente che non ricorrano gli estremi del predetto giustificato motivo oggettivo, con conseguente applicazione della tutela indennitaria di cui al comma 5 dell'art. 18 modificato (Cass. sez. lav., 8 luglio 2016, n. 14021). |