Mobbing: presupposti di configurabilità, oneri di allegazione e prova del danno
19 Novembre 2015
Massime
Per mobbing deve intendersi comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità; ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Il danno alla professionalità non può essere considerato in re ipsa nel semplice demansionamento, essendo invece onere del dipendente provare tale danno dimostrando, ad esempio, un ostacolo alla progressione di carriera. Il caso
Una lavoratrice adiva il Tribunale di Milano domandando la condanna della società ex datrice di lavoro, tra l'altro, al pagamento di una somma a titolo di indennità sostitutiva del preavviso (sul presupposto dell'asserita sussistenza di una giusta causa di dimissioni), alla restituzione dell'indennità sostitutiva del preavviso (illegittimamente trattenuta dal datore di lavoro in occasione della cessazione del rapporto di lavoro), nonché, infine, al pagamento di una separata somma a titolo di risarcimento del danno alla salute (sul presupposto dell'asserita sussistenza di una situazione di mobbing).
La Corte di Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, da un lato ha accolto le predette domande, ma, dall'altro lato, ha rigettato le ulteriori domande formulate dalla lavoratrice a titolo di risarcimento del danno morale, all'immagine ed alla professionalità, non essendo state adeguatamente provate tali voci di danno. Sia la società sia la lavoratrice hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza resa dal Giudice di gravame. Le questioni
Due sono le questioni sottoposte all'esame della Suprema Corte:
Le soluzioni giuridiche
In ordine alla prima questione sopra evidenziata, un arresto giurisprudenziale ormai consolidato ha ritenuto configurabile il mobbing nelle ipotesi di comprovata condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (ex multis, T.A.R. Torino, Sez. I, 10 luglio 2015, n. 1168).
Come efficacemente affermato da una recente pronuncia di legittimità, che ha focalizzato la propria indagine sulla identificazione dei singoli elementi costitutivi della fattispecie del mobbing, i parametri che il Giudice deve prendere in considerazione ai fini della sua decisione sono «sette […] l'ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l'andamento secondo fasi successive, l'intento persecutorio» (Cass. sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037, v. il commento di Danise).
Il lavoratore che invochi in giudizio la sussistenza del mobbing, dunque, dovrà specificamente allegare e provare i fatti relativi a tutti i citati parametri, altrimenti esponendosi al rischio del rigetto del proprio ricorso. Nell'ambito di tale attività probatoria possono assumere rilievo non solo comportamenti illeciti, ma anche comportamenti intrinsecamente leciti, i quali, tuttavia, nella loro progressione storica, denotino un intento persecutorio del datore di lavoro.
Applicando questi principi la Corte di Cassazione ha confermato la tesi della Corte di Milano in merito alla sussistenza del mobbing,essendo stata coerentemente accertata, appunto, la storica verificazione di svariate circostanze dalle quali poteva evincersi, nella relativa concatenazione, l'intento vessatorio del datore di lavoro. A tale stregua era emerso in sede d'Appello, tra l'altro, che il superiore gerarchico della ricorrente aveva tenuto un comportamento tendente a provocarne le dimissioni (con frasi offensive e minacce) e che il datore di lavoro, in seguito, non avendo ottenuto le dimissioni, aveva proposto alla lavoratrice un nuovo incarico di product support manager, nel quale, benché astrattamente compatibile con la professionalità acquisita, la dipendente non era stata posta nelle condizioni di potere adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni lavorative, né era stata in alcun modo supportata in un produttivo e proficuo inserimento nei nuovi incarichi.
In relazione alla seconda questione, la Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Milano che, da un lato, aveva ritenuto sussistente il danno biologico patito dalla ricorrente (quale conseguenza della accertata condotta mobbizzante), ma, dall'altro lato, non ha ritenuto provato l'invocato danno alla professionalità. Merita osservare, a tale proposito, che la giurisprudenza assolutamente prevalente, contrapponendosi ad un più risalente indirizzo, ritiene ammissibile l'offerta di prova del danno non patrimoniale mediante qualsivoglia mezzo (ivi incluse le presunzioni), ma è allo stesso tempo rigorosa nel rimarcare che il danno non è in re ipsa, essendo necessario che il lavoratore alleghi e precisi ogni circostanza idonea a sorreggere la richiesta dei danni subiti, non essendo a tale scopo sufficiente l'allegazione della mera potenzialità lesiva della condotta (ex plurimis, Cass. 8 gennaio 2014, n. 172).
Il danno alla professionalità può consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Nel primo caso, il lavoratore può dedurre ad esempio l'esercizio di una attività soggetta ad una continua evoluzione, caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo; nel secondo caso, invece, il lavoratore deve dare prova concreta di quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state, frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività (Tribunale di Milano, 10 ottobre 2015, est. Greco).
Nel caso sottoposto alla Suprema Corte il risarcimento del danno alla professionalità non è stato accordato in quanto la lavoratrice, dopo le dimissioni, si era collocata dapprima in una posizione lavorativa poco soddisfacente, ma, in un secondo momento, era riuscita ad intraprendere un'esperienza professionale con trattamento economico e livello di inquadramento non deteriore rispetto a quello goduto presso l'ex datore di lavoro. Osservazioni
Il caso esaminato offre lo spunto per l'analisi delle attività necessarie e funzionali ad azionare in maniera corretta una ipotetica azione risarcitoria nel caso di mobbing.
Nel ricorso introduttivo, in particolare, devono essere specificamente indicati, sulla scorta dei generali principi civilistici in materia di risarcimento del danno:
Quanto al primo profilo, devono essere precisamente descritte ed adeguatamente contestualizzate nel tempo e nello spazio tutte le condotte del datore di lavoro aventi natura vessatoria. A tale stregua potranno assumere rilievo, ad esempio, eventuali frasi denigratorie; ripetuti comportamenti diretti ad ottenere le dimissioni del lavoratore; procedimenti disciplinari ravvicinati nel tempo per addebiti di modesta gravità.
Quanto al secondo profilo, invece, particolare attenzione deve essere prestata nella attività di allegazione dei danni patiti dal lavoratore, evitando di duplicare richieste risarcitorie in relazione alla medesima lesione. In questo senso, accanto alle ipotesi di aggressione alla professionalità esaminate nel precedente paragrafo, le voci di danno ascrivibili alla categoria di danno non patrimoniale eziologicamente collegato al mobbing possono consistere nel danno biologico (il quale si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile e non può prescindere da uno specifico accertamento medico-legale) ed il danno all'immagine o alla vita di relazione (con il quale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul cd. fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno).
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