Trasferimento di ramo d’azienda: le recenti evoluzioni della giurisprudenza

28 Settembre 2017

Poche materie vivono di costante incertezza applicativa come quella del trasferimento d'azienda. A fronte di una disciplina legale apparentemente chiara (l'art. 2112 c.c. definisce la nozione di ramo di azienda e individua le conseguenze dell'operazione traslativa che lo riguarda), sono molti i risvolti concreti che danno luogo a costanti contrasti giurisprudenziali: alcuni di essi sono presentati dall'Autore per analizzare, in particolare, il concetto di ramo d'azienda, l'autonomia funzionale di questo, il collegamento tra cessione di azienda e licenziamenti collettivi, per poi concludere con la disciplina della successione di appalti.
Elementi del ramo di azienda

Poche materie vivono di costante incertezza applicativa come quella del trasferimento d'azienda.

A fronte di una disciplina legale apparentemente chiara (l'art. 2112 c.c. definisce la nozione di ramo di azienda e individua le conseguenze dell'operazione traslativa che lo riguarda), sono molti i risvolti concreti che danno luogo a costanti contrasti giurisprudenziali.

Il primo nodo sempre molto controverso riguarda la nozione stessa di ramo di azienda.

Secondo i canoni tradizionali elaborati dalla giurisprudenza, esiste un ramo di azienda solo quando la vicenda traslativa riguarda un complesso organizzato di beni e servizi capace di operare, autonomamente, come attività economica. Sulla base dell'interpretazione dominante, l'azienda si compone di beni materiali organizzati in funzione dell'esercizio dell'impresa, organizzazione di fatto impraticabile in caso di strutture fisiche di trascurabile entità.

La rapida trasformazione digitale di molte attività economica accentua la difficoltà di individuare quali soni i beni e gli strumenti che fanno parte dell'azienda, tanto che si è affermata una lettura secondo la quale (Cass. sez. lav. n. 5678/2013) l'azienda può essere composta anche solo da un gruppo di dipendenti stabilente coordinati e organizzati tra loro, quando la loro autonoma capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how.

La difficoltà di applicare in concreto tali principi è tuttavia notevole, come emerge dall'analisi della vicenda decisa dalla sentenza della Corte di Cassazione, sez. lav., n. 1316 del 19 gennaio 2017, relativa alla cessione di un call center.

La consistenza di tale complesso come effettivo ramo di azienda era stata messa in discussione di lavoratori interessati, ma nelle precedenti fasi di merito tanti il Tribunale di Monza quanto la Corte d'Appello di Milano avevano rigettato tali censure.

Secondo i giudici di merito, l'attività di call center oggetto della cessione era già svolta dal cedente in forma funzionalmente autonoma e debitamente strutturata; il ramo, pertanto, già costitutiva un insieme di elementi patrimoniali e personali idonei al raggiungimento di un fine economico e produttivo, secondo i canoni richiesti dalla giurisprudenza.

Questa valutazione è stata rovesciata dalla sentenza in commento, che, senza modificare formalmente i tradizionali canoni di riconoscimento dell'autonomia funzionale, ha dato una lettura molto particolare alla nozione di ramo di azienda.

La Suprema Corte, in particolare, rileva che l'autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto può non coincidere con la materialità del ramo medesima, ma comunque l'autonomia dell'entità ceduta deve essere obiettivamente apprezzabile (autonomia che, ricorda la Corte, non viene meno se sono necessari specifici interventi integrativi ad opera del cessionario).

Tale autonomia, precisa la Corte, richiamando decisioni precedenti (tra le molte, Cass. sez. lav., 13 ottobre 2009, n. 21697; Cass. sez. lav., 3 ottobre 2012, n. 20422) deve preesistere al trasferimento, con la conseguenza che non risponde alla nozione una struttura creata ad hoc al momento del trasferimento. La logica di questa lettura, che ha notevolmente ridimensionato la portata della modifica apportata dalla riforma Biagi, nel 2003, al testo dell'art. 2112 c.c., è quella di evitare che due imprese possano creare, in occasione della cessione, strutture produttive al solo scopo di espellere “frazioni non coordinate tra loro” dell'azienda.

Nel caso oggetto della pronuncia, la Corte ritiene che non possa rinvenirsi l'effettiva consistenza di un ramo di azienda, in quanto parte delle attività svolte in precedenza dal call center sono rimaste in capo alla cedente, circostanza questa che dimostra che la struttura produttiva ceduta era stata creata ad hoc al momento della cessione.

Autonomia funzionale

Un altro elemento considerato rilevante dai giudici di legittimità consiste nell'autonomia funzionale del ramo; l'azienda trasferita deve essere in condizione di svolgere da sola l'attività imprenditoriale. Tale autonomia manca, secondo i giudici, se l'attività non può svolgersi senza la continua interazione con il committente e i programmi informatici messi a disposizione dal medesimo. Questa ipotesi, secondo i giudici, configura una “mera esternalizzazione di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate solo dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza dei rapporti di lavoro a un ramo di azienda già costituito”.

Questa lettura riporta molto indietro le lancette dell'interpretazione giurisprudenziale, ancorando le nozioni di ramo di azienda e della sua autonomia funzionale a modelli organizzativi e imprenditoriali sempre più difficili da rinvenire in un contesto economico dove la materialità dell'impresa risulta sempre più sfuggente.

Licenziamenti collettivi e cessione di azienda

Un altro tema che ritorna periodicamente alla ribalta giurisprudenziale è collegamento tra cessione di azienda e licenziamenti collettivi.

Con una sentenza del Tribunale di Roma del 15 gennaio 2016, è stata riletta in chiave restrittiva la facoltà, prevista dall'art. 47 co. 4-bis della L. n. 428/1990, per le imprese di cui sia stato accertato lo stato di crisi aziendale (ai sensi dell'art. 2, co. 5, lett c), della L. n. 675/1996), di derogare all'art. 2112 mediante la stipula di un accordo con le rappresentanze sindacali.

Secondo l'interpretazione del Tribunale di Roma, tale norma non può consentire di escludere dal trasferimento alcuni lavoratori, qualora l'obiettivo finale dell'esclusione sia il licenziamento dei lavoratori esclusi. In tale ipotesi, osserva il Tribunale, si verrebbe a concretizzare un aggiramento del divieto (posto dall'art. 5 della Direttiva 2001/23) di motivare il licenziamento con il trasferimento di azienda: in altre parole, secondo la sentenza, la facoltà riconosciuta agli accordi collettivi di derogare all'art. 2112 c.c. trova un limite implicito costituito dalle norme della Direttiva 2001/23 e, in particolare, dalla disposizione della stessa che vieta il licenziamento in vista del trasferimento d'azienda.

Considerato che la Corte di Giustizia ha escluso che uno stato di semplice crisi aziendale possa giustificare una deroga al divieto, gli accordi sindacali che consentono di licenziare uno o più lavoratori preventivamente esclusi dalla cessione del ramo si considerano contrari alla legge e al diritto dell'Unione Europea.

Tale lettura, molto restrittiva, è tuttavia ancora minoritaria; la giurisprudenza di merito, in larga maggioranza, ritiene invece legittimi gli accordi collettivi che, in situazioni di crisi aziendale, individuano il trasferimento di un ramo dell'azienda come una delle misure adottabili per risolvere lo stato di difficoltà, con la conseguenza che il licenziamento del personale escluso dal passaggio non può certamente considerarsi motivato dal trasferimento ma, piuttosto, è una conseguenza della situazione economica difficile in cui versa l'azienda (v. Trib. Civitavecchia, 26 aprile 2017, n. 1828).

Successione di appalti

Un altro tema emerso di recente in sede giurisprudenziale è quello della configurazione giuridica della successione negli appalti.

La Corte di Cassazione ha avuto moto di evidenziare che, nel caso in cui si verifichi una successione di appalti, in virtù della quale i dipendenti del vecchio appaltatore passano alle dipendenze dell'imprenditore che subentra, non si verifica un'automatica applicazione delle norme sul trasferimento di azienda, ma è necessario verificare, di volta in volta, se al passaggio si accompagna il trasferimento di “non trascurabili strutture materiali organizzate o, almeno, di know how o di altri caratteri idonei a conferire autonoma capacità operativa a maestranze stabilmente coordinate e organizzate tra loro” (Cass. sez. lav., 6 dicembre 2016, n. 24972).

Tale pronuncia, riferita a una vicenda disciplinata dalla vecchia formulazione dell'art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003, che escludeva in radice la possibilità di applicare l'art. 2112 c.c. nei casi di successione di appalti, sembra applicabile anche a seguito della modifica legislativa operata dalla L. 7 luglio 2016, n. 122.

La nuova formulazione dell'art. 29 sembra proprio andare nella direzione di rendere maggiormente selettivo il concetto di “successione di appalti”, riservandone le conseguenze ai soli casi nei quali manchino gli elementi del ramo di azienda.

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