Agenti e rappresentanti

Alberto Venezia
06 Marzo 2024

L'agente di commercio è colui che, nell'ambito di un rapporto stabile e continuo, si impegna a promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente (produttore o distributore di beni o servizi) in una zona determinata. Caratteristiche fondamentali dell'agente, pur nell'ambito di un rapporto stabile, continuo e di durata con il preponente, sono l'autonomia e l'indipendenza, che lo differenziano nettamente dal lavoro subordinato.

Inquadramento

Il contratto di agenzia è un rapporto tipico di diritto civile, caratterizzato da una disciplina normativa complessa, che vede accanto alle disposizioni del codice civile (artt. 1742 – 1753 c.c. oggetto di svariate modifiche in forza dei decreti legislativi attuativi della direttiva comunitaria n. 653/1986) le articolate previsioni degli accordi economici collettivi di diritto comune (aec) oltre agli aec erga omnes (questi ultimi peraltro di applicazione residuale).

L'agente di commercio è colui che, nell'ambito di un rapporto stabile e continuo, si impegna a promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente (produttore o distributore di beni o servizi) in una zona determinata.

Caratteristiche fondamentali dell'agente, pur nell'ambito di un rapporto stabile, continuo e di durata con il preponente, sono l'autonomia e l'indipendenza, che lo differenziano nettamente dal lavoro subordinato.

La zona può essere con o senza esclusiva, che sorge tuttavia automaticamente per entrambe le parti in forza del disposto di cui all'art. 1743 c.c., salvo deroga espressa o implicita.

Il contratto è oneroso e fa sorgere il diritto dell'agente ad un compenso a fronte dell'effettiva conclusione da parte del preponente dei contratti promossi.

Diritti ed obblighi delle parti sono disciplinati dagli artt. 1746,1747,1748 e 1749 c.c., mentre l'art. 1750 c.c. prevede la possibilità per entrambe le parti di recedere dal contratto a tempo indeterminato in qualsiasi momento, salva la concessione di un periodo di preavviso minimo, variabile in funzione della durata del rapporto.

Ulteriore aspetto fondamentale connesso alla cessazione del rapporto di agenzia e che incide in maniera significativa sui costi connessi all'adozione della formula contrattuale, è l'indennità di fine rapporto così come prevista dall'art. 1751 c.c., che può raggiungere cifre rilevanti.

L'agente può essere munito del potere di rappresentanza del preponente, anche se ciò non costituisce un elemento caratteristico del contratto.

È infine prevista una disciplina specifica per il patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto (art. 1751 bis c.c.) e una disposizione ad hoc (art. 1753 c.c.) per l'agente di assicurazione.

Le fonti del contratto

La disciplina del contratto di agenzia è caratterizzata da una notevole complessità e può dirsi caratterizzata da un doppio binario di regolamentazione: codice civile da una parte (artt. 1742 – 1753 c.c.) e accordi economici collettivi di diritto comune dall'altra (si segnalano in proposito l'aec 16/2/2009 per il settore commercio, 30/7/2014 per il settore industria e 17/9/2014 per la piccola e media industria). La contemporanea presenza di queste due fonti ha creato non pochi problemi di coordinamento, stante la non completa omogeneità tra le soluzioni accolte per problematiche identiche. I contrasti esistenti tra aec e codice civile sono peraltro di norma agevolmente risolvibili in base ai principi generali in tema di gerarchia delle fonti, tenendo presente che gli aec altro non sono se non convenzioni di natura privatistica ma su base allargata, in quanto stipulati dalle associazioni degli agenti da una parte e dei preponenti dall'altra (nei vari settori dell'industria, commercio, artigianato e piccola e media industria). Per questo motivo gli aec potranno ritenersi applicabili solo qualora entrambe le parti del singolo contratto siano membri delle associazioni stipulanti o qualora gli aec siano espressamente o implicitamente richiamati nel contratto (cfr. Cass., sez. lav., ord. 13/1/2022, n. 935, Cass. 10/05/2019, n. 12544 (in motivazione) e Cass. 18/12/2014, n. 2622; cfr. nella giurisprudenza di merito per l'insufficienza dell'accantonamento del FIRR per l'applicabilità dell'aec laddove non vi sia prova che la preponente sia iscritta a un'organizzazione sindacale stipulante, App. Brescia 22 dicembre 2021, n. 305).

Pertanto le disposizioni degli aec, laddove in contrasto con quelle del codice civile, in tanto potranno ritenersi applicabili in quanto risultino in contrasto con norme derogabili, mentre laddove sussista incompatibilità e/o vero e proprio contrasto con norme imperative, saranno necessariamente da considerarsi prevalenti le disposizioni imperative di legge del codice civile. Anche su questo principio di carattere generale si fonda l'acceso dibattito in dottrina e giurisprudenza sul tema fondamentale dei criteri di quantificazione dell'indennità di fine rapporto.

Discorso a parte va fatto poi per i cosiddetti aec erga omnes e cioè per quegli aec risalenti nel tempo del 20 giugno 1956 e 17 luglio 1957 per il settore industriale (annessi al D.P.R. 16 gennaio 1961, n. 145) e del 13 ottobre 1958 per il settore commerciale (recepito dal D.P.R. 26 dicembre 1960, n. 1842) , che costituiscono una sorta di trattamento minimo per tutti coloro che svolgano in Italia attività di agenti di commercio laddove i relativi contratti di agenzia siano sottoposti al diritto italiano. Trattasi tuttavia di un'applicazione meramente residuale, stante la completezza della disciplina contenuta nel codice civile, anche a seguito delle modifiche effettuate in applicazione della direttiva 18 dicembre 1986, n. 653 e delle leggi comunitarie 1999 e 2000.

Le disposizioni del codice civile sono state oggetto di svariate modifiche in forza dei decreti legislativi emessi a seguito dell'entrata in vigore della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986, n. 653 sugli agenti di commercio, che va quindi considerata a tutti gli effetti come una delle fonti della disciplina normativa del rapporto di agenzia. Il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva n. 86/653, in un primo tempo tramite il decreto legislativo 10 settembre 1991, n. 303, che ha inciso direttamente sulla disciplina del contratto di agenzia contenuta nel codice civile, apportando una serie di modifiche. Tuttavia, nonostante le rilevanti modifiche apportate, la normativa italiana non si è uniformata esattamente al contenuto della direttiva, creando diversi problemi di carattere interpretativo e applicativo. Il parziale contrasto è stato rilevato dalla Commissione che, in data 24 settembre 1996, ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia per l'incompleta attuazione della direttiva, invitandola ad adottare le misure necessarie per uniformarsi al testo della stessa. Il legislatore italiano ha quindi emesso il d.lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, apportando ulteriori modifiche agli articoli 1742,1746,1748,1749 e 1751 del codice civile. Nonostante ciò si sono rilevati e sono tuttora presenti alcuni non secondari problemi di coordinamento con la disciplina della direttiva, che impongono di affrontare il tema dell'efficacia delle direttive comunitarie nell'ambito degli ordinamenti nazionali.

È opportuno segnalare i due ulteriori significativi interventi attuati dal legislatore italiano con lo strumento della legge comunitaria (nel 1999 e 2000). La legge 21 dicembre 1999, n. 526 (art. 28) e la legge 29 dicembre 2000, n. 422 hanno comportato rispettivamente la modifica dell'art. 1746 c.c., con la sostanziale eliminazione dello star del credere (quale clausola di carattere generale) e l'introduzione di un nuovo secondo comma nell'art. 1751 bis c.c., con la previsione del diritto dell'agente a un'indennità a fronte dell'assunzione dell'obbligo di non concorrenza dopo la cessazione del contratto.

In evidenza: Cassazione

Cass., sez. lav., ord. 13 gennaio 2022, n. 935 e Cass. 10 maggio 2019, n. 12544 hanno precisato che gli aec di diritto comune si applicano anche ai non iscritti alle associazioni stipulanti a condizione che gli stessi vi abbiano aderito espressamente, ovvero li abbiano anche implicitamente recepiti nei contratti, per il tramite della uniforme e costante applicazione delle relative disposizioni. Cass., 18 dicembre 2014 n. 2622, in tema di lavoro subordinato, ha confermato il principio secondo il quale la contrattazione collettiva di diritto comune ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiamo prestato adesione. Pertanto, nell'ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell'attività svolta dall'imprenditore, il lavoratore non può aspirare all'applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato.

Zona ed esclusiva: l'obbligo di monomandato

La zona affidata all'agente è un elemento contrattuale di grande rilevanza, come confermato dalla sua menzione nella definizione stessa di agente ex art. 1742 c.c., così come in altre disposizioni del codice civile (artt. 1743 e 1746 c.c.).

La zona, che delimita l'ambito di operatività dell'attività promozionale dell'agente, è di norma precisata in forma scritta nel contratto ma può altresì essere dedotta implicitamente dalle concrete modalità di svolgimento dell'attività in costanza di rapporto ed è direttamente collegata al concetto di esclusiva, individuandone di norma i limiti minimi spaziali di applicazione.

La zona, di regola, è costituita da una determinata area geografica, ma può anche essere convenzionalmente limitata a una particolare categoria di potenziali clienti, a un determinato gruppo di persone, o risultare da una combinazione tra un criterio geografico e un criterio riferito a suddivisioni per categorie di potenziali clienti (canali): è tuttavia essenziale che la sua individuazione sia concordata da entrambi i contraenti, sia direttamente con un'esplicita clausola contrattuale, sia indirettamente attraverso le concrete modalità di svolgimento del rapporto, o con riferimento all'ambito territoriale nel quale le parti operano al momento della conclusione del contratto.

Il concetto di zona è quindi caratterizzato da una notevole elasticità.

Il diritto di esclusiva nel contratto di agenzia è disciplinato espressamente dall'art. 1743 c.c., ritenuta per costante e consolidato orientamento della dottrina e della giurisprudenza come una norma meramente dispositiva e come tale derogabile dalle parti, sia direttamente attraverso un'espressa clausola contrattuale (soluzione certamente preferibile), sia indirettamente sulla base delle concrete modalità di svolgimento del rapporto. L'esclusiva è un elemento rilevante nella disciplina del contratto di agenzia, che si caratterizza rispetto a qualunque altro rapporto di distribuzione poiché sorge automaticamente con la semplice conclusione del contratto, anche laddove le parti nulla abbiano disposto in proposito. Trattasi, nel suo regime bilaterale perfetto, di un reciproco obbligo di non assumere né conferire altri mandati per analoghi prodotti nella stessa zona, con il diritto per l'agente alle provvigioni su tutti gli affari che il preponente concluda, anche direttamente, nella zona stessa. L'inserimento automatico è previsto dall'art. 1743 c.c. in favore di entrambi i contraenti che, come detto, possono tuttavia prevedere nel contratto anche clausole con contenuti differenti.

La disciplina dell'esclusiva non ha subito variazioni anche a seguito dei vari interventi di attuazione della direttiva comunitaria n. 653/1986. Anche gli accordi economici collettivi (sin dal 1938) contengono una disciplina dell'esclusiva sostanzialmente analoga a quella dell'art. 1743 c.c., che si presenta però più completa, in quanto oltre alla definizione del diritto di esclusiva ne disciplina ulteriori aspetti. Innanzitutto si conferma la derogabilità dell'esclusiva ed è inoltre disciplinata la figura dell'agente monomandatario, da intendersi come colui che si impegna contrattualmente a svolgere la propria attività in favore di un unico preponente, indipendentemente dalle caratteristiche dei prodotti. Scopo del divieto non è infatti quello di evitare che l'agente effettui nella medesima zona attività di promozione per prodotti in concorrenza, ma esclusivamente di far sì che quest'ultimo impieghi tutte le proprie energie per la promozione dei prodotti del preponente. Pertanto, mentre potranno riscontrarsi nella prassi fattispecie in cui un agente (cosiddetto plurimandatario) conclude, in relazione alla medesima zona, più contratti in esclusiva per prodotti tra loro non in concorrenza, l'agente monomandatario, per definizione non potrà che avere un unico preponente, indipendentemente dal tipo di prodotti e dalla zona di riferimento.

La giurisprudenza ha subito un'evoluzione in tema di requisiti necessari per poter ritenere esistente un vincolo di monomandato e si è passati da un orientamento tradizionale e consolidato che prevedeva la necessaria presenza di un espresso obbligo contrattuale a un orientamento innovativo, che valorizzava le concrete modalità di svolgimento del rapporto (con specifico riferimento agli obblighi contributivi). L'orientamento innovativo è stato poi fortunatamente abbandonando per tornare a quello precedente, suscettibile di garantire maggiore certezza nella qualificazione del rapporto.

In evidenza: Cassazione

Cass. 6 novembre 2000, n. 14444 ha confermato l'orientamento maggioritario che ritiene necessaria per la sussistenza di un vincolo di monomandato una specifica obbligazione contrattuale, non risultando sufficiente il semplice svolgimento di fatto di attività in favore di un unico preponente, come in precedenza affermato da Cass. 14 aprile 2000, n. 4877.

La disciplina prevista dagli accordi economici per gli agenti monomandatari, in relazione alle limitazioni connaturali a questa figura, è più favorevole per quanto attiene ai termini di preavviso, alle aliquote per la determinazione dell'indennità di fine rapporto e alla quantificazione dell'indennità dovuta (in applicazione dell'art. 1751 bis c.c. II comma) per il patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto.

Gli aec precisano poi cosa debba intendersi per attività in concorrenza, stabilendo che quando l'incarico conferito all'agente riguardi generi di prodotti che per foggia, destinazione e valore d'uso siano diversi e infungibili rispetto a quelli del contratto originario, va esclusa la possibilità di concorrenza.

Il diritto al compenso

Il contratto di agenzia è oneroso, con il diritto dell'agente a un compenso in funzione della conclusione da parte del preponente degli affari promossi. Il codice civile disciplina il compenso nell'art. 1748, che ha subito notevoli modifiche con il secondo intervento legislativo in attuazione della direttiva n. 653/1986 (d.lgs. n. 65/1999), uniformandosi al testo della stessa, in buona parte ispirata alle soluzioni accolte in diritto tedesco. L'art. 1749 c.c. (II comma), precisa invece il termine di pagamento, che coincide con l'ultimo giorno del mese successivo al trimestre nel quale le provvigioni sono maturate. Di norma il compenso è costituito da una percentuale da calcolarsi sul valore dell'affare concluso, denominata provvigione. Sussistono tuttavia ulteriori possibilità di determinazione del compenso, tra le quali si segnalano di seguito quelle più frequentemente utilizzate:

  • una provvigione fissa, da calcolarsi sull'intero volume di fatturato realizzato e pagato dalla clientela;
  • una provvigione variabile in funzione di differenti scaglioni di fatturato;
  • una provvigione fissa, integrata con premi riconosciuti in funzione del raggiungimento di determinati obbiettivi e/o dell'esecuzione di specifiche prestazioni secondo parametri predeterminati;
  • una provvigione e un sopra prezzo;
  • un compenso fisso mensile integrato da una percentuale provvigionale.

Quest'ultima modalità di determinazione del compenso va tuttavia utilizzata con prudenza. La giurisprudenza ritiene, infatti, che il rischio sia connaturale alla figura stessa dell'agente e che quindi il riconoscimento di un importo fisso mensile (tipico del rapporto di lavoro subordinato) sia in contrasto con la natura del contratto di agenzia.

In evidenza: Cassazione e direttiva n. 86/653 (art. 6.3)

Cass., 19 febbraio 1998, n. 1737 ritiene che il riconoscimento di un compenso fisso non sia compatibile con la natura del contratto di agenzia, da considerarsi come un rapporto caratterizzato dall'elemento rischio che l'agente assume su di sé. Nel medesimo senso nella giurisprudenza di merito Trib. Lucca 28 gennaio 2016, n. 60. Di diverso avviso sembra per contro il contenuto della direttiva 18 dicembre 1986, n. 653, che nel suo art. 6.3 appare non escludere, quanto meno implicitamente, una forma di compenso non provvigionale.

Le modifiche intervenute nell'art. 1748 c.c. a seguito del d.lgs. n. 65/1999, che lo ha integralmente sostituito in attuazione della direttiva, hanno mutato radicalmente i principi posti a base del diritto dell'agente al compenso. È stato quindi eliminato il riferimento alla regolare esecuzione dell'affare, con l'inserimento (I comma) di un criterio generale di attribuzione degli affari in relazione al diritto al compenso, oltre a precisazioni relative agli affari conclusi nel corso del rapporto. Sono stati migliorati i criteri di attribuzione della provvigione per gli affari conclusi dal preponente dopo la cessazione del contratto, è stato inserito un nuovo criterio di carattere generale (peraltro suscettibile di deroga, ma entro limiti ben precisi) relativo all'esigibilità della provvigione da parte dell'agente e infine, proprio in relazione al nuovo criterio generale di esigibilità introdotto, è stata prevista un'ipotesi di restituzione delle provvigioni già corrisposte.

Il primo comma dell'art. 1748 stabilisce che l'agente ha diritto alla provvigione in relazione a tutti gli affari conclusi durante il contratto, quando l'operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento. In questo senso sono state modificate anche le corrispondenti disposizioni degli aec, anche nella loro versione del 2009 (settore commercio) e 2014 (settore industria).

Il quarto comma dell'art. 1748 precisa poi il momento nel quale la provvigione, già attribuita all'agente sulla base del criterio contenuto nel primo comma, matura in favore di quest'ultimo (“spetta all'agente”).

Questo momento viene individuato con un meccanismo di carattere generale, peraltro derogabile, consistente nel momento e nella misura in cui il preponente ha eseguito la sua prestazione, o avrebbe dovuto eseguirla in base al contratto concluso con il terzo.

Al precedente criterio costituito dalla regolare esecuzione dell'affare è stato dunque sostituito quello dell'esecuzione della prestazione da parte del preponente.

In applicazione di quest'ultima regola il preponente dovrebbe quindi corrispondere all'agente le provvigioni (nei termini precisati all'art. 1749 c.c.) del tutto indipendentemente dal pagamento da parte del terzo, ed è in quest'ottica che si giustifica il contenuto del sesto comma, che prevede l'ipotesi di restituzione delle provvigioni riscosse da parte dell'agente. L'obbligo di restituzione, si precisa, è limitato all'ipotesi e alla misura in cui sia certo che il contratto tra il cliente e il preponente non avrà esecuzione. Tale mancata esecuzione dovrà inoltre essere del tutto indipendente da eventuali cause imputabili al preponente

Il diritto dell'agente alla provvigione matura quindi al momento dell'esecuzione della prestazione da parte del preponente, e cioè per norma con la consegna della merce.

Tuttavia, questo criterio generale è suscettibile di deroga ad opera delle parti, che possono dunque accordarsi diversamente, posticipando la maturazione della provvigione a un momento successivo rispetto all'adempimento da parte del preponente.

La derogabilità non è però assoluta, in quanto lo stesso quarto comma precisa che l'esigibilità della provvigione non può essere posticipata a un momento successivo rispetto a quello in cui il terzo ha eseguito la prestazione (e nella misura in cui la stessa è stata eseguita) o avrebbe dovuto eseguirla qualora il preponente avesse eseguito la prestazione a suo carico.

Pertanto, laddove il cliente effettui pagamenti parziali, la provvigione dovrà considerarsi dovuta proporzionalmente ai pagamenti effettuati.

Anche in diritto italiano, così come in diritto tedesco, è stata dunque inserita la distinzione tra il momento acquisitivo (di attribuzione) della provvigione, costituito dalla conclusione, nel corso del rapporto, del contratto promosso dall'agente, e l'esigibilità (cioè la vera e propria maturazione) della provvigione, coincidente, di regola, con l'esecuzione della prestazione da parte del preponente.

Il V comma dell'art. 1748 precisa infine che laddove preponente e cliente si accordino per non dare in tutto o in parte esecuzione al contratto l'agente avrà diritto, per la parte ineseguita, a una provvigione ridotta, nella misura determinata dagli usi o dal giudice secondo equità.

Negli aec del 16 febbraio 2009, del 30 luglio 2014 e del 17 settembre 2014 è stato effettuato un riferimento esplicito all'art. 1748 c.c., con la contemporanea eliminazione di qualunque riferimento a quel concetto di buon fine che era stato elaborato proprio nell'ambito della contrattazione collettiva per individuare il momento in cui doveva ritenersi sorto il diritto alla provvigione.

Ciò non significa tuttavia che alle parti sia preclusa la possibilità di deroga, difatti l'eliminazione dalla contrattazione collettiva del buon fine significa esclusivamente che il relativo criterio non potrà considerarsi automaticamente richiamato per il solo fatto che al rapporto siano applicabili gli aec di diritto comune.

L'eventuale deroga, senza dubbio ammissibile in applicazione dell'art. 1748 c.c., dovrà semplicemente essere espressamente prevista in ogni singolo contratto, non essendo più sufficiente il mero richiamo della contrattazione collettiva.

Gli aec settore industria 30 luglio 2014 e piccola e media industria 17 settembre 2014 prevedono entrambi (art. 7), così uniformandosi all'aec settore commercio 16 febbraio 2009, che in caso di ritardo da parte del preponente nel pagamento delle provvigioni di oltre 15 giorni rispetto al termine di 30 giorni successivo al trimestre di riferimento, si applicano gli interessi di mora di cui al d.lgs. n. 231/2002, come modificato dal d.lgs. n. 192 del 9 novembre 2012.

Il mancato pagamento delle provvigioni nei termini predetti darà quindi la possibilità all'agente di richiedere gli interessi di mora, i cui tassi sono come è noto decisamente superiori a quelli di legge.

Durata e cessazione del contratto

Il contratto di agenzia è un contratto di durata, caratterizzato quindi da una pluralità di prestazioni e controprestazioni delle parti, che può essere a tempo determinato (con l'inserimento o meno di meccanismi di rinnovo automatico) o indeterminato, registrandosi nella prassi una netta prevalenza di questi ultimi.

Nel contratto a tempo determinato le parti individuano la scadenza del rapporto con l'indicazione di un preciso termine finale. I contratti a tempo determinato possono contenere clausole di rinnovo automatico, cioè clausole che stabiliscano l'automatica prosecuzione del rapporto dopo la scadenza per uno o più periodi di uguale o differente durata, in caso di mancato esercizio di un diritto di disdetta, esercitabile da ciascuna delle parti entro un termine di preavviso predefinito rispetto alla prima o alle successive scadenze.

Questo tipo di clausole, perfettamente legittime ed efficaci, hanno quale conseguenza, in caso di mancata disdetta, il rinnovo automatico sulla base di quanto contrattualmente previsto, senza che possa ritenersi applicabile il meccanismo di trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, così come previsto nell'art. 1750 c.c. per la mera prosecuzione del contratto a termine dopo la sua scadenza naturale. Con il rinnovo infatti non si verifica una prosecuzione del rapporto dopo la scadenza, ma bensì uno spostamento della scadenza originaria con la conseguente inapplicabilità del meccanismo di trasformazione.

Laddove non sia previsto un meccanismo di rinnovo automatico, l'art. 1750 c.c. stabilisce che il contratto a termine che continui ad essere eseguito dalle parti dopo la scadenza si trasforma automaticamente in contratto a tempo indeterminato. Si pone a questo punto il problema del computo del termine di preavviso.

In particolare è legittimo domandarsi se, per l'esatta determinazione della durata del rapporto, vada considerata anche la durata del contratto a termine o se viceversa debba prendersi in considerazione esclusivamente il periodo successivo alla prima scadenza.

Il momento iniziale ai fini del computo del termine di preavviso deve, a mio avviso, coincidere con l'effettivo inizio del rapporto di collaborazione (a tempo determinato, e cioè prima della trasformazione).

In questo senso si esprime d'altronde il testo della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986, n. 653, sulla cui base deve essere interpretata la normativa nazionale di attuazione.

La cessazione del contratto a termine deve di norma avvenire alla scadenza pattuita, salvo che non intervengano fenomeni patologici del rapporto che possano conseguentemente dar luogo a ipotesi di recesso per giusta causa, risoluzione per inadempimento e/o risoluzione con effetto immediato per l'operatività di clausole risolutive espresse, la cui utilizzabilità come vedremo è stata fortemente ridimensionata da alcune pronunce della Cassazione, a modifica di un orientamento consolidato.

L'aec 16 febbraio 2009 dedica un articolo specifico (art. 2) al contratto a tempo determinato, precisando che tutte le norme dell'accordo, in quanto compatibili e con espressa esclusione di quelle relative al preavviso, devono considerarsi comunque applicabili. Si ribadisce che, per contratti a termine di durata superiore a 6 mesi, la preponente comunicherà all'agente la propria disponibilità al rinnovo o alla proroga, almeno 60 giorni prima della scadenza. Come per il passato, non è peraltro prevista alcuna sanzione in caso di inosservanza. Nel medesimo senso si sono espressi altresì gli aec 2014 del settore industria e piccola e media industria (art. 4).

A differenza del contratto a termine, nel rapporto a tempo indeterminato non è indicata espressamente la data di cessazione, ma ciascuna delle parti ha la possibilità di sciogliersi dal vincolo (recedere) in qualsiasi momento, previa concessione di un termine di preavviso, come stabilito dall'art. 1750 c.c. e confermato dalla contrattazione collettiva, che peraltro prevede termini di più lunga durata per gli agenti monomandatari.

Il patto di prova, pur non essendo in alcun modo previsto dalla disciplina del rapporto di agenzia, se non per sancirne implicitamente la legittimità dagli aec 30/7/2014 e 17/9/2014, è da sempre ritenuto (salvo per alcuni contrasti dottrinali e giurisprudenziali risalenti nel tempo) perfettamente legittimo ed efficace, poiché espressione dell'autonomia delle parti e in quanto tale con facoltà per ciascuna di esse di sciogliersi dal vincolo in qualunque momento nel corso della prova senza preavviso e senza doverne attendere la scadenza naturale. Unico limite posto all'autonomia delle parti è la durata della prova, da valutarsi in relazione alla sua funzione di sperimentare la collaborazione per un periodo ragionevole.

In evidenza: Corte di Giustizia e direttiva n. 86/653 (art. 17)

Corte di Giustizia 19 aprile 2018 ha confermato che il patto di prova, pur non essendo contemplato dalla direttiva 86/653/CEE, va considerato come espressione della libertà contrattuale delle parti e non è quindi in contrasto con la direttiva. Tuttavia, l'art. 17 della direttiva in tema di trattamento di fine rapporto va interpretato nel senso che la disciplina dell'indennità di fine rapporto e del risarcimento di cui ai paragrafi 2 e 3 va applicata anche laddove il contratto di agenzia cessi durante o al termine del periodo di prova.   

Recesso, preavviso e indennità sostitutiva

Nel contratto di agenzia a tempo indeterminato il recesso ordinario è disciplinato dall'art. 1750 (II comma) c.c., che stabilisce la facoltà per ciascuna delle parti di porre termine al rapporto (recedere) in qualsiasi momento, salva la concessione di termini minimi di preavviso, variabili in funzione della durata del contratto (pari ad 1 mese per il primo anno di durata del contratto, a 2 mesi per il secondo anno iniziato, a 3 mesi per il terzo anno iniziato, a 4 mesi per il quarto, 5 per il quinto e 6 per il sesto e per i successivi).

Il quarto comma, quale logica conseguenza del fatto che i predetti sono termini minimi, consente alle parti di pattuire termini di maggiore durata; viene inoltre precisato che tale possibilità di deroga è condizionata al rispetto da parte del preponente di termini non inferiori rispetto a quelli posti a carico dell'agente.

La precisazione è tesa ad evitare che il preponente, abusando del proprio potere contrattuale, imponga all'agente termini di preavviso particolarmente lunghi, riservando a sé un trattamento più favorevole.

Infine, in esecuzione dell'art. 15 n. 5 della direttiva (derivante dalla normativa tedesca), l'ultimo comma dell'art. 1750 c.c. stabilisce la necessaria coincidenza della scadenza del termine di preavviso con l'ultimo giorno del mese di calendario. Quest'ultima previsione è tuttavia derogabile dalle parti, che quindi potranno accordarsi diversamente nel singolo contratto (deroga inserita in via automatica negli aec del 2002 e ribadita negli aec 16 febbraio 2009, 30 luglio 2014 e 17 settembre 2014).

Con riferimento ai termini di preavviso, e in relazione all'eliminazione dal testo dell'art. 1750 c.c. del rinvio alla contrattazione collettiva, si è posto il problema del coordinamento tra art. 1750 c.c. e le disposizioni degli accordi economici collettivi.

I predetti accordi prevedono infatti termini di preavviso variabili da un minimo di 3 ad un massimo di 8 mesi (con termini più lunghi nel caso di agente cosiddetto monomandatario: ipotesi non contemplata dal codice civile), in alcuni casi inferiori e in altri superiori rispetto a quelli di cui all'art. 1750 c.c.

Il problema di coordinamento è peraltro di facile soluzione, difatti:

  • nel caso in cui i termini previsti dagli accordi economici siano inferiori rispetto a quelli del codice civile, questi ultimi, in quanto termini minimi, sono destinati a prevalere;
  • viceversa, eventuali termini di maggiore durata previsti dagli aec sono senz'altro validi, in quanto espressamente consentiti dal quarto comma del medesimo art. 1750 c.c.

Un altro problema di coordinamento tra aec e codice civile deriva dall'eliminazione dal testo dell'art. 1750 c.c. della possibilità di sostituire il preavviso con il pagamento di una corrispondente indennità.

La contrattazione collettiva, sulla base della precedente versione dell'art. 1750 c.c., ha elaborato un efficace criterio di quantificazione dell'indennità sostitutiva del preavviso, criterio posto in dubbio da una parte della dottrina a seguito della modifica operata dal d.lgs. n. 303/91.

Gli accordi economici collettivi consentono infatti alla parte che recede dal contratto (recedente) di sostituire il periodo di preavviso con la corresponsione in favore dell'altra parte (receduto) di un importo corrispondente a tanti dodicesimi delle provvigioni (alle quali vanno aggiunti eventuali importi corrisposti a titolo di rimborso o concorso spese e premio) di competenza dell'anno solare precedente la cessazione del contratto (o degli ultimi 12 mesi) quanti sono i mesi di preavviso dovuti, o una somma a questa proporzionale in caso di esonero da una parte del preavviso.

Nel caso in cui il rapporto abbia avuto inizio nel corso dell'anno solare precedente, dovranno essere conteggiati i successivi mesi dell'anno in corso sino a raggiungere i dodici mesi di riferimento.

Laddove la durata complessiva del rapporto sia inferiore ai dodici mesi, si prenderà come base la media mensile delle provvigioni liquidate nell'intero rapporto.

È altresì prevista la possibilità per la parte non recedente di rinunciare in tutto o in parte al preavviso, senza obbligo di corrispondere l'indennità sostitutiva, a condizione che la rinuncia venga effettuata entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione di recesso.

La possibilità di sostituire il preavviso con il pagamento dell'indennità, così come la quantificazione operata dagli accordi economici, è a mio avviso legittima, in quanto non in contrasto né con l'art. 1750 c.c., né con la direttiva comunitaria 18/12/1986, n. 653.

Per quanto attiene alle modalità di quantificazione dell'indennità sostitutiva del preavviso, le stesse rappresentano semplicemente una forfetizzazione del danno, come tale pienamente ammissibile.

In conclusione dunque, appare del tutto legittimo sostituire il preavviso con il pagamento dell'indennità, così come prevista dalla contrattazione collettiva; il preavviso ha infatti un'efficacia meramente obbligatoria, ferma restando la validità ed efficacia dell'atto di recesso allo stesso collegato.

In tema di recesso dal contratto di agenzia, va presa in considerazione l'ipotesi di scioglimento del rapporto in tronco a seguito di un grave inadempimento di una delle parti, che non ne consenta la prosecuzione.

È questa una fattispecie che la giurisprudenza ha da sempre regolamentato effettuando un ricorso analogico all'istituto del recesso per giusta causa di cui all'art. 2119 c.c., dettato peraltro per il contratto di lavoro subordinato che, come è noto, ha caratteristiche e peculiarità che da un lato lo distinguono nettamente dal contratto di agenzia e dall'altro porterebbero ad escluderne l'applicazione analogica.

Ciò nonostante la giurisprudenza ha applicato sovente l'art. 2119 c.c. al contratto di agenzia, per consentire a ciascuna delle parti di sciogliersi dal vincolo con effetto immediato in presenza di un inadempimento dell'altra parte la cui gravità non consenta la prosecuzione della collaborazione.

In queste ipotesi, quali ad esempio la violazione dell'obbligo di esclusiva, la violazione dell'obbligo di svolgere la propria attività in favore di un unico preponente (per l'agente monomandatario) o la violazione dell'obbligo di svolgere attività promozionale, la parte che subisce l'inadempimento ha la possibilità di porre termine al contratto con effetto immediato, prescindendo quindi dalla regolamentazione contrattuale del rapporto in ordine alla sua durata.

Pertanto, nel contratto a tempo indeterminato chi subisce l'inadempimento, sul presupposto che lo stesso sia particolarmente grave, potrà prescindere dal preavviso e nel contratto a tempo determinato potrà fare a meno di attendere la scadenza naturale del rapporto.

In entrambe le ipotesi chi subisce l'inadempimento, oltre a potersi sciogliere dal vincolo contrattuale con effetto immediato, potrà richiedere altresì il risarcimento del danno subito.

Ciò presuppone ovviamente che sia stata effettuata una attenta valutazione della gravità dell'inadempimento, ad evitare di trovarsi dinanzi a richieste da parte del soggetto inadempiente che lamenti l'irrilevanza del suo inadempimento e comunque l'insufficienza dello stesso a porre termine al contratto con effetto immediato.

Sempre in tema di cessazione del rapporto per grave inadempimento, il testo dell'art. 1751 c.c. prevede tra le ipotesi in cui l'indennità non è dovuta:

  • la risoluzione del contratto da parte del preponente per un'inadempienza imputabile all'agente che, per la sua gravità non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. In presenza di un simile inadempimento quindi non solo sarà possibile risolvere in tronco il contratto, ma il preponente potrà anche esimersi dalla corresponsione dell'indennità di fine rapporto, prescindendo dall'esistenza degli ulteriori requisiti di cui all'art. 1751 c.c.;
  • il recesso dal contratto da parte dell'agente, a meno che sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all'agente quali età, infermità o malattia per le quali non possa più essergli ragionevolmente richiesta la prosecuzione dell'attività. Le dimissioni dell'agente escludono quindi il diritto all'indennità, a meno che non dipendano da circostanze attribuibili al preponente. In quest'ultima ipotesi, che non è per la verità di facile individuazione, anche se sembra doversi trattare comunque di un inadempimento, ancorché non particolarmente grave, l'agente potrà recedere dal contratto mantenendo però il diritto all'indennità di fine rapporto.

Appare evidente, quanto meno in termini di diritto all'indennità di fine rapporto, lo squilibrio in favore dell'agente esistente tra le due fattispecie.

In evidenza: Cassazione

Cass. 12 novembre 2019, n. 29290 e Cass., 19 gennaio 2018, n. 1376 hanno confermato come nel contratto di agenzia, pur nella sostanziale diversità delle rispettive prestazioni e della relativa configurazione giuridica, per stabilire se lo scioglimento del contratto sia avvenuto o meno per un fatto imputabile al preponente o all'agente, tale da impedire la prosecuzione anche temporanea del rapporto, può essere utilizzato per analogia il concetto di giusta causa di cui all'art. 2119 c.c.: il giudizio sulla sussistenza di una giusta causa di recesso costituisce valutazione rimessa al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da un accertamento sufficientemente specifico degli elementi di fatto e da corretti criteri di carattere generale ispiratori del giudizio di tipo valutativo. Nel medesimo senso Cass. 29 settembre 2015, n. 19300.

Clausola risolutiva espressa e orientamenti giurisprudenziali

Nell'ambito della normativa generale in tema di risoluzione dei contratti per inadempimento, un ruolo significativo è attribuito alla clausola risolutiva espressa, così come disciplinata dall'art. 1456 c.c., ritenuta in passato applicabile anche al contratto di agenzia in virtù di una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Tale pacifica applicabilità è stata però messa in dubbio da una pronuncia della sezione lavoro della Corte di Cassazione del 2011, che ne ha minato in radice i presupposti e i principali effetti.

Principali caratteristiche della clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa si sostanzia in una clausola contrattuale che prevede la facoltà per entrambe le parti, oppure come più spesso accade per una sola di esse e cioè il preponente, di porre termine al contratto con effetto immediato nel caso in cui l'altra parte si renda inadempiente a una o più specifiche obbligazioni, che devono essere indicate con precisione nella clausola stessa.

Caratteristica fondamentale della clausola è costituita dalla facoltà di porre termine al rapporto con effetto immediato in caso di violazione anche di una soltanto delle obbligazioni indicate nella stessa, prescindendo totalmente dalla gravità dell'inadempimento, senza dover corrispondere alcuna indennità di mancato preavviso (in caso di rapporto a tempo indeterminato) o risarcimento del danno (per la mancata prosecuzione del rapporto sino alla sua naturale scadenza in caso di contratto a tempo determinato). Il Giudice che fosse investito della controversia dovrebbe infatti limitarsi ad accertare l'esistenza dell'inadempimento e l'imputabilità all'agente dello stesso, quanto meno a titolo di colpa, che peraltro si presume esistente, così determinando un'inversione dell'onere della prova.

Questo meccanismo risolutivo, è stato però completamente disatteso, come detto, da una pronuncia della Corte di Cassazione del maggio 2011 (confermata da tre successive pronunce del 2012, 2015 e 2021 che si sono richiamate alla precedente ribadendone l'efficacia e da alcune successive pronunce di giudici di merito) che, pur ribadendo la legittimità di inserimento della clausola risolutiva espressa nel contratto di agenzia, ha ritenuto necessario, al fine dell'operatività del meccanismo risolutorio ivi previsto, il riscontro di un inadempimento di gravità tale da integrare gli estremi della giusta causa di recesso.

In evidenza: Cassazione

Cass., 18 maggio 2011, n. 10934, pur confermando la legittimità di inserimento nell'ambito di un contratto di agenzia della clausola risolutiva espressa, ha precisato che l'interruzione in tronco di un contratto di agenzia per l'operatività del meccanismo risolutorio ivi previsto comporta la necessaria preliminare verifica da parte del giudice dell'esistenza di un inadempimento dell'agente che integri gli estremi della giusta causa di recesso: laddove l'esito di tale verifica risulti negativo, all'agente andrebbe riconosciuto il risarcimento del danno e/o l'indennità di mancato preavviso. Nel medesimo senso Cass. 4 agosto 2021, n. 22246, Cass. 30 novembre 2015, n. 24368 e Cass. 25 maggio 2012, n. 8295 (in motivazione). Cfr. nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, sez. XI, 3 febbraio 2022, n. 943, Trib. Roma, sez. lav., 21 ottobre 2021, n. 8570 e Trib. Firenze, sez. lav., 29 luglio 2021, n. 575.

Indennità di fine rapporto e criteri di quantificazione

L'indennità di fine rapporto costituisce un esempio paradigmatico dei problemi di sovrapposizione tra codice civile e contrattazione collettiva esistenti nella disciplina del contratto di agenzia in diritto italiano.

Difatti, a seguito dei decreti legislativi n. 303/1991 e n. 65/1999 di attuazione della direttiva n. 86/653, il testo dell'art. 1751 c.c. è stato completamente sostituito, venendo meno la correlazione in precedenza esistente tra codice civile e aec, ai quali ultimi l'art. 1751 c.c. effettuava in passato un rinvio espresso.

L'attuale testo dell'art. 1751 c.c. non contiene più alcun rinvio alla contrattazione collettiva, che ciò nonostante continua a dettare in proposito una disciplina specifica, così determinando non pochi problemi di coordinamento.

Il tema dei criteri di quantificazione dell'indennità di fine rapporto è una delle problematiche di maggior interesse, stante il suo l'impatto sull'economia del rapporto. Impatto caratterizzato da una notevole incertezza, in quanto la giurisprudenza adotta alternativamente due criteri di quantificazione, e più precisamente quello stabilito dagli aec e quello previsto dal disposto dell'art. 1751 c.c., che portano a risultati estremamente diversi dal punto di vista economico.

Un contributo significativo è stato apportato dalla pronuncia della Corte di Giustizia 23 marzo 2006, emessa a seguito dell'ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte di Cassazione dell'ottobre 2004, che ha affrontato il problema della compatibilità con la direttiva comunitaria n. 86/653 dei criteri di quantificazione così come previsti dalla contrattazione collettiva italiana e più precisamente dall'aec settore commercio del 1992.

  • Disciplina dell'indennità di fine rapporto in diritto italiano

L'indennità di fine rapporto è regolata, nel codice civile, dall'art. 1751, che ha subito notevoli cambiamenti in esecuzione della direttiva comunitaria.

Il primo decreto legislativo di attuazione (d.lgs. n. 303/91) ha sostituito integralmente l'art. 1751 c.c., non riportando però fedelmente le disposizioni della direttiva e creando così accesi dibattiti in dottrina e in giurisprudenza.

Successivamente è stato emesso il d.lgs. n. 65/99 che, tra le altre variazioni apportate, ha modificato l'art. 1751 c.c. risolvendo però solo in parte i problemi emersi a seguito del primo intervento di adeguamento.

Difatti, è stata opportunamente corretta l'indicazione alternativa delle due condizioni necessarie per il sorgere del diritto all'indennità (apporto di clientela con vantaggi sostanziali per il preponente e rispondenza ad equità della corresponsione), ma non è stato inserito alcun preciso criterio di quantificazione della stessa. È stato inoltre aggiunto all'art. 1751 c.c. un nuovo ultimo comma, con la previsione espressa del diritto all'indennità qualora il rapporto cessi per morte dell'agente.

L'assenza di un preciso meccanismo di quantificazione è senza dubbio il problema di maggior rilievo nella disciplina dell'indennità di fine rapporto e la fonte primaria di tutti i problemi di compatibilità tra art. 1751 c.c. e contrattazione collettiva.

L'art. 1751 c.c. infatti, dopo aver enunciato i requisiti necessari per il sorgere del diritto all'indennità, non prevede i criteri di calcolo della stessa, ma esclusivamente il suo limite massimo, pari ad una annualità di retribuzioni calcolate sulla media di quelle percepite negli ultimi 5 anni di durata del contratto o nell'intero contratto, se di durata inferiore a 5 anni.

Il testo della direttiva, invece, contiene un criterio di quantificazione, alquanto generale, ma che non è stato riportato nell'art. 1751 c.c. dal legislatore italiano.

L'art. 17 della direttiva prevede infatti che le medesime condizioni da prendere in considerazione per valutare l'esistenza del diritto (apporto e sviluppo di clientela da parte dell'agente, vantaggi per il preponente e rispondenza ad equità della corresponsione) vadano tenute presenti anche per la sua quantificazione.

L'agente ha diritto a un'indennità, recita l'art. 17 della direttiva, se e nella misura in cuisussistono le condizioni dell'apporto e sviluppo di clientela da parte dell'agente, con sostanziali vantaggi per il preponente e della rispondenza ad equità della corresponsione.

Nell'art. 1751 c.c. invece non vi è traccia della locuzione “nella misura in cui”, che avrebbe potuto risolvere senza difficoltà i vivaci dibattiti dottrinali e giurisprudenziali sorti sul punto.

Pertanto, nell'art. 1751 c.c. non risulta previsto o indicato, anche in chiave di mero rinvio, alcun concreto criterio per la quantificazione dell'indennità.

L'assenza di validi criteri di quantificazione dell'indennità di fine rapporto è tuttavia più apparente che reale, in quanto le modifiche all'art. 1751 c.c. sono state effettuate in esecuzione degli obblighi derivanti da una norma di carattere comunitario, e cioè la direttiva n. 653/86.

Il d.lgs. n. 303/91, così come il successivo d.lgs. n. 65/99, sono infatti norme nazionali di attuazione di una direttiva comunitaria e come tali sono suscettibili di essere interpretate alla luce del principio, elaborato dalla Corte di Giustizia, che impone ai giudici nazionali di interpretare le proprie disposizioni nazionali di attuazione di una direttiva comunitaria, quanto più è possibile, alla luce della lettera e della ratio della direttiva medesima, senza che a ciò possa essere di ostacolo l'eventuale errore in cui sia incorso il legislatore nazionale.

Pertanto il Giudice italiano, al fine di individuare i criteri di quantificazione dell'indennità, ha la possibilità (e l'obbligo) di interpretare l'art. 1751 c.c. tenendo presente il testo della direttiva, e può quindi utilizzare i criteri dell'apporto o sviluppo di clientela, dei vantaggi sostanziali per il preponente e della rispondenza ad equità della corresponsione non solo per stabilire l'esistenza del diritto, ma altresì per la sua quantificazione.

Spetta dunque alla giurisprudenza il compito di elaborare validi criteri di quantificazione dell'indennità, basati sulla misura dell'apporto di clientela e della rispondenza ad equità della corresponsione, criteri la cui esistenza dovrebbe essere oggetto di accertamento nel singolo caso concreto sulla base delle risultanze probatorie, il cui onere appare gravare esclusivamente sull'agente.

  • Corte di Giustizia 23 marzo 2006

La Corte di Giustizia, con la predetta sentenza del 23 marzo 2006, ha rilevato la sostanziale non conformità degli aec del 1992 con il testo della direttiva e ha fissato alcuni punti fermi.

La Corte ha in primo luogo confermato che, in linea generale, l'indennità di fine rapporto così come prevista dall'art. 17, n. 2 della direttiva non può essere sostituita da un'indennità determinata secondo criteri diversi rispetto a quelli contenuti nel medesimo art. 17 n. 2 (e cioè l'apporto e lo sviluppo di clientela da parte dell'agente con sostanziali vantaggi per il preponente e la rispondenza ad equità della corresponsione).

Per applicare criteri diversi rispetto a quelli previsti dall'art. 17, n. 2 è necessario dimostrare che la loro applicazione garantisce all'agente, in ogni caso, un'indennità pari e/o superiore rispetto a quella che risulterebbe dall'applicazione della direttiva.

I criteri di calcolo degli aec del 1992, non essendo in grado di garantire quanto richiesto dalla Corte di Giustizia, non possono pertanto considerarsi in linea con la direttiva.

Con riferimento ai criteri di quantificazione da adottare in concreto, la Corte ha altresì precisato che, fermo restando quanto previsto dall'art. 17, n. 2, gli Stati membri restano liberi di esercitare il loro potere discrezionale, anche con riferimento al ruolo da attribuire al criterio di equità.

In altri termini la Corte ha ritenuto di lasciare agli Stati la più ampia libertà, senza che sia necessario dunque considerare vincolante in tema di quantificazione dell'indennità la giurisprudenza analitica elaborata sul punto in diritto tedesco.

La valutazione del Giudice non potrà tuttavia essere del tutto discrezionale, posto che resta fermo il necessario rispetto dei principi e della ratio contenuti nell'art. 17 della direttiva.

Conseguenza diretta di questa pronuncia della Corte di Giustizia avrebbe dovuto essere la declaratoria di inefficacia delle previsioni contenute nella contrattazione collettiva in tema di quantificazione dell'indennità di fine rapporto. La giurisprudenza italiana tuttavia, dopo alcune iniziali non significative pronunce di giudici di merito, che hanno ritenuto perfettamente leciti e ammissibili i criteri degli aec, si è invece orientata in maniera diversa: l'attuale posizione della giurisprudenza del Supremo Collegio considera i criteri di qualificazione degli accordi economici collettivi come un mero trattamento minimo, salva la facoltà dell'agente di richiedere, laddove più favorevole, il diverso trattamento previsto dall'art. 1751 c.c.

Resta da risolvere il problema dell'individuazione di criteri di calcolo dotati di un sufficiente margine di generalità e astrattezza e tali da poter essere utilizzati preventivamente nei singoli casi concreti: problematica la cui soluzione spetta alla giurisprudenza. Nel frattempo, l'assenza dei predetti criteri comporta il probabile necessario ricorso al contenzioso qualora non si raggiunga una soluzione di carattere conciliativo.

L'importo da riconoscere in concreto al singolo agente a titolo di indennità di fine rapporto nel caso di cessazione del relativo contratto, e a condizione che ne sussistano i requisiti di esistenza, dovrebbe quindi essere determinato su base negoziale, partendo dalla soglia minima costituita dall'applicazione degli aec (ammesso che risultino applicabili) e fermo il limite massimo di un'annualità di cui all'art. 1751 c.c.

Sempre in tema di criteri di quantificazione dell'indennità di fine rapporto, segnalo un'interessante pronuncia della Cassazione del 2018, che ha ritenuto di eliminare dalla base imponibile per il calcolo dell'indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c. il compenso riconosciuto all'agente per l'attività di coordinamento e supervisione, in base al principio di esclusione dal perimetro applicativo dell'art. 1751 c.c. di compiti e funzioni strumentali e accessori rispetto alla centrale attività riferita ai clienti.      

In evidenza: Cassazione

Cass., 21 febbraio 2014, n. 4202 ha confermato l'orientamento del Supremo Collegio secondo il quale l'art. 1751 c.c. si interpreta nel senso che il Giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all'agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell'agente comporta che l'importo determinato dal Giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, anche collettive. Cass. 9 gennaio 2019, n. 273, Cass. 27 dicembre 2018, n. 33374, hanno ritenuto necessario per il riconoscimento dell'indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c. la sussistenza dei 3 requisiti ivi previsti, inclusi i vantaggi sostanziali in favore del preponente derivanti dagli affari con i clienti apportati e/o sviluppati. Cfr. nella giurisprudenza di merito Trib. Milano, sez. XI, 12 dicembre 2019, n. 11537. Cass. 28 giugno 2019, n. 17575, in tea di onere della prova ha precisato che il principio di vicinanza non è idoneo a invertire l'onus probandi in assenza di specifiche indicazioni circa i fatti costitutivi della pretesa. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25740, in un'ipotesi di agente che svolga anche attività di “team manager” per il coordinamento di altri agenti, ha escluso dai criteri di computo dell'indennità le provvigioni relative all'attività di coordinamento.

Patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto

Il patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto di agenzia, in passato disciplinato dall'art. 2596 c.c., trova ora la sua compiuta regolamentazione nell'art. 1751 bis c.c., come integrato dalle disposizioni degli aec di diritto comune, laddove applicabili.

L'art. 1751 bis c.c., in linea con il testo della direttiva, prevede i seguenti requisiti:

  • forma scritta;
  • ambito di operatività del patto circoscritto alla medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia;
  • durata non superiore a due anni successivi all'estinzione del contratto.

Prima dell'emissione della legge comunitaria 2000 non era previsto alcun compenso quale corrispettivo per l'assunzione dell'obbligo da parte dell'agente.

L'art. 23 della legge comunitaria ha però inserito (con decorrenza dal 1 giugno 2001) un secondo comma nell'art. 1751 bis c.c. che prevede, in occasione della cessazione del rapporto, il diritto per l'agente (persona fisica, società di persone, società di capitali con socio unico o, laddove previsto dalla contrattazione collettiva, società di capitali costituita esclusivamente o prevalentemente da agenti) alla corresponsione di una indennità, di natura non provvigionale, in relazione all'accettazione del patto.

L'indennità dev'essere quantificata ad opera delle parti, tenendo conto degli aec di categoria e commisurandola ai tre seguenti parametri:

  • la durata del patto (nel limite biennale di cui al primo comma);
  • la natura del contratto;
  • l'indennità di fine rapporto.

In difetto di accordo, è previsto un meccanismo di quantificazione giudiziale in via equitativa, tenendo presenti anche i seguenti elementi:

  • la media dei compensi nel corso del rapporto e la loro incidenza sul fatturato complessivo dell'agente nello stesso periodo;
  • la causa di cessazione del contratto;
  • l'ampiezza della zona;
  • il fatto che l'agente sia o meno monomandatario.

Gli aec settore industria 30 luglio 2014 e settore piccola e media industria 17 settembre 2014, anche in relazione al rinvio espresso contenuto nel secondo comma dell'art. 1751 bis c.c., hanno disciplinato (uniformandosi alla disciplina dei precedenti aec del 2002) la quantificazione dell'indennità dovuta all'agente in relazione all'accettazione del patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto.

L'art. 14 dell'aec 30 luglio 2014 settore industria precisa anzitutto che il diritto all'indennità è riconosciuto agli agenti operanti in forma individuale, di società di persone o di società di capitali con un unico socio.

La base di calcolo dell'indennità è costituita dalla media delle provvigioni spettanti all'agente negli ultimi 5 anni di durata del contratto o nell'intero rapporto, se di durata inferiore ai 5 anni.

Viene in sostanza ripreso il medesimo criterio di calcolo utilizzato dall'art. 1751 c.c. per l'individuazione del limite massimo dell'indennità di fine rapporto.

L'aec settore industria fissa nella seguente tabella gli importi minimi dovuti all'agente per l'intera durata massima (due anni) del patto di non concorrenza, a seconda degli anni di durata del rapporto e dell'esistenza o meno dell'obbligo dell'agente di svolgere la propria attività in favore di un unico preponente:

Anni di durata

Agente monomandatario

Agente plurimandatario

Fino a 5 anni

8 mesi

6 mesi

Oltre 5 e fino a 10 anni

10 mesi

8 mesi

Oltre 10 anni

12 mesi

10 mesi

Se la durata del patto di non concorrenza è inferiore a due anni, l'ammontare dell'indennità viene ridotto in rapporto alla durata effettiva del patto sulla base di un parametro del 40% per il primo anno e del 60% per il secondo.

Infine, il solo aec settore industria si occupa dell'ipotesi in cui l'agente violi il patto di non concorrenza prevedendo, com'è ovvio, la necessità di restituzione di quanto eventualmente già percepito e l'obbligo per l'agente di corrispondere una penale, la cui entità non potrà peraltro essere superiore al 50% dell'indennità prevista quale corrispettivo per l'assunzione dell'obbligo di non concorrenza dopo la cessazione del contratto.

L'aec settore commercio del 16 febbraio 2009 (come modificato dal testo unico del 10 marzo 2010), pur confermando in linea di massima il contenuto della precedente versione del 2002, ha introdotto alcune modifiche precisando che il pagamento dell'indennità deve essere effettuato inderogabilmente in un'unica soluzione alla fine del rapporto e che il patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto potrà essere pattuito solo all'inizio dello stesso, con espressa esclusione di qualunque possibilità di variazione unilaterale delle intese raggiunte al riguardo tra le parti.

Dai criteri di quantificazione sopra esposti appare evidente l'estrema onerosità dell'indennità da corrispondere all'agente a fronte del patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto. Va rilevata altresì la difficoltà di attuazione pratica in via giudiziale degli obblighi di non concorrenza previsti nel patto, in caso di inadempimento da parte dell'agente. Pertanto, l'inserimento del patto nei singoli contratti andrà valutato con estrema attenzione, ad evitare di andare incontro a costi sproporzionati rispetto agli interessi in gioco.

In evidenza: Cassazione

Cass., 16 settembre 2010, n. 19586 ha precisato che l'operatività del patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto di agenzia deve ritenersi limitata alla medesima zona e clientela per la quale era stato concluso il contratto, dovendosi ritenere nullo per la parte eccedente, con esclusione di ogni derogabilità da parte degli usi e della contrattazione collettiva, stante la natura indisponibile delle previsioni di cui all'art. 1751 bis, comma I, c.c. (trattavasi nella fattispecie di un rapporto di agenzia assicurativa). Cass. 31 maggio 2017, n. 13796 e Cass. 11 giugno 2015, n. 12127 (entrambe in motivazione) hanno ritenuto astrattamente ammissibile una clausola contrattuale che escluda un corrispettivo in favore dell'agente a fronte dell'obbligo di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto. Cfr. altresì nella giurisprudenza di merito App. Milano, sez. lav., 19 marzo 2021, n. 274 e App. Potenza, sez. lav., 15 marzo 2018, n. 14.

Caratteristiche dell'agente: rito applicabile e art. 2113 c.c.

La struttura dell'agente e, più in generale, le modalità di svolgimento della sua attività, costituiscono elementi essenziali al fine di risolvere significativi problemi di carattere processuale.

Difatti, qualora l'agente svolga la propria attività in maniera prevalentemente personale, in caso di controversia, risulterà applicabile il rito del lavoro e sarà competente in via esclusiva e funzionale per la soluzione di qualunque controversia il giudice del lavoro della circoscrizione all'interno della quale si trovi il domicilio dell'agente.

Viceversa, laddove l'agente si avvalga di una vera e propria organizzazione, sia costituito in forma societaria (sia di persone, sia di capitali), oppure sia strutturato con reti di collaboratori e subagenti, sarà applicabile il rito ordinario e risulteranno validamente apposte eventuali clausole contrattuali di deroga convenzionale della competenza per territorio in favore di un foro esclusivo e/o alternativo, ferma la necessità di espressa approvazione per iscritto exartt. 1341 e 1342 c.c. (il contratto di agenzia infatti, soprattutto nell'ipotesi in cui la rete di agenti sia ampia, può essere strutturato come un contratto per adesione, che presuppone dunque l'adozione di un testo contrattuale uniforme non oggetto di negoziazione con il singolo agente, ma di fatto sottoposto ad una mera approvazione integrale).

In evidenza: Cassazione

Cass. 30 marzo 2022, n. 10184, Cass. 5 aprile 2017, n. 8837, Cass. 16 febbraio 2015, n. 3029 e Cass., 15 febbraio 2012, n. 2158, hanno escluso la competenza del giudice del lavoro nel caso in cui agente sia costituito in forma societaria, sia di capitali sia di persone, anche laddove l'attività sia svolta personalmente da uno dei soci (in quest'ultimo senso Cass., 13 luglio 2001, n. 9547).

Inoltre, la struttura dell'agente ha un impatto significativo anche sulle modalità di formalizzazione delle transazioni in ipotesi raggiunte all'atto della cessazione o nel corso del rapporto.

Difatti, qualora l'agente sia una persona fisica e/o svolga la sua attività in maniera prevalentemente personale, risulterà applicabile l'art. 2113 c.c., con la conseguente impugnabilità di eventuali transazioni, che comportino la rinuncia a diritti dell'agente, nel termine di sei mesi dalla cessazione del rapporto e/o dalla data della rinuncia o transazione, qualora successive.

Laddove invece l'attività sia svolta in maniera non prevalentemente personale, il predetto regime di impugnabilità nel termine di sei mesi risulterà non applicabile, con la conseguente possibilità di formalizzare eventuali transazioni attraverso il semplice scambio di scritture private.

Guida all'approfondimento

  • A. Venezia, Il diritto dell'agente alla provvigione: le “circostanze imputabili al preponente” e le “circostanze attribuibili al preponente”), in Il Giuslavorista, 8 settembre 2017

Riferimenti

Normativi:

Artt. 1742 – 1753 c.c.

Art. 2113 c.c.

Art. 2119 c.c.

Art. 413 c.p.c.

L. 21 dicembre 1999, n. 526 (Legge comunitaria 1999)

L. 29 dicembre 2000, n. 422 (Legge comunitaria 2000)

D.Lgs. 15 febbraio 1999, n. 65

D.Lgs. 10 settembre 1991, n. 303

Direttiva 18 dicembre 1986, n. 653

Giurisprudenza:

Per i recenti orientamenti sul tema, v. 

Appello Milano, sez. lav., 18 maggio 2023, n. 532

Cass. civ., sez. lav., ord. 5 aprile 2023, n. 9431

Cassazione, 30 marzo 2022, n. 10184

Tribunale di Milano, 3 febbraio 2022, n. 943

Cass. (ord.), 13 gennaio 2022, n. 935

Corte di appello di Brescia, 22 dicembre 2021, n. 305

Tribunale di Roma, 21 ottobre 2021, n. 8570

Cassazione, 4 agosto 2021, n. 22246

Tribunale di Firenze, 29 luglio 2021, n. 575

Corte di appello di Milano, 19 marzo 2021, n. 274

Tribunale di Milano, 12 dicembre 2019, n. 11537

 Cassazione,  28 giugno 2019, n. 17575

Cassazione, 12 novembre 2019, n. 29290

Cassazione, 10 maggio 2019, n. 12544

Cassazione, 9 gennaio 2019, n. 273

Cassazione, 27 dicembre 2018, n. 33374

Cassazione, 15 ottobre 2018, n. 25740

Cassazione, 19 gennaio 2018, n. 1376

Cassazione 31 maggio 2017, n. 13796

Cassazione 5 aprile 2017, n. 8837

Cassazione, 30 novembre 2015, n. 24368

Cassazione, 29 settembre 2015, n. 19300

Cassazione 11 giugno 2015, n. 12127

Cassazione 16 febbraio 2015, n. 3029

Cassazione, 18 dicembre 2014, n. 2622

Cassazione, 21 febbraio 2014, n. 4202

Cassazione, 25 maggio 2012, n. 8295

Cassazione, 15 febbraio 2012, n. 2158

Cassazione, 18 maggio 2011, n. 10934

Cassazione, 16 settembre 2010, n. 19586

Cassazione, 13 gennaio 2010, n. 393

Corte di Giustizia 23 marzo 2006

Cassazione, 13 luglio 2001, n. 9547

Cassazione, 6 novembre 2000, n. 14444

Cassazione, 14 aprile 2000, n. 4877

Cassazione, 19 febbraio 1998, n. 1737

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